Dramma e commedia...
di 
Domenico de Angelini

     Un giorno mentre eravamo in casa di amici, che raramente potevamo vedere, a causa delle enormi distanze che ci separavano, si era a pranzo seduti in allegria. Poi tra un pezzo e l'altro di dolce, ed un sorso di caffè, si cominciò a chiacchierare dei tempi passati, con un pò di nostalgia nel cuore. Tra un discorso e l'altro, si cadde sul nostro doloroso "Esodo". Ad un tratto mi passò per la mente il lontano viaggio con il "Toscana" in quel memorabile giorno, del mese di febbraio, rigido con una cappa di piombo, dopo aver coperta la città di un bianco lenzuolo, che la rendeva a quel tempo piangente e muta, come i suoi abitanti che la lasciavano per sempre. Tutti eravamo lungo le murate della nave, avidi di vedere ancora per poco la città, e tutta la terra dei nostri avi, che per "Quattro Grandi" ed un durissimo "Diktat" con i suoi 90 articoli, e con i suoi 17 allegati, si è abbattuto sull'Italia come una frustata punitiva. Insensibili al rigido freddo si guardava di rubare con gli occhi tutto ciò che era possibile vedere in quel panorama, acciocchè rimanesse indelebile nella nostra memoria. Il distacco della nave da quel nostro grande porto fu doloroso, con immense grida echeggianti da ogni parte del Toscana, che sembrava si trattasse di un'esecuzione.
     Il fischio della sirena della nave echeggiò sinistro, coprendo tutte quelle grida di dolore, e di quel pianto. L'Arena, simbolo della città nella maestosa mole delle sue arcate, immobile come una madre dolente che guarda i suoi figli partenti per un amaro destino. Mano a mano tutto si allontanava, e lentamente si dileguava, rimanendo soltanto una striscia grigiastra, fino a sparire completamente la "nostra cara costa istriana" da quell'orizzonte fosco e oscuro, lasciando un immenso vuoto nei nostri cuori. Ormai eravamo in mare aperto e nulla si poteva più vedere, costringendo tutti a rientrare, per il vento gelido e pungente.
     Nei cameroni della nave, si levarono come per incanto i cori delle canzoni della nostra terra, finendo poi, in un pianto trattenuto delle lacrime da tutti gli astanti, nell'intonazione dell'Inno all'Istria.
     Calava la sera ancora più dolente e silenziosa, in quei lugubri cameroni, rischiarati dalla debole luce blu, che rimaneva accesa tutta la notte, dando un tono sinistro di ombre a tutte le cose.
     In piena notte, in quel silenzio rotto da qualcuno che russava, e da qualche bambino che si lagnava, perchè non aveva il suo lettino, un grido lacerò quell'immane silenzio, ed in meno che non si dica, tutto il camerone fu in piedi, guardandosi gli uni agli altri. In quel momento io ero sveglio, ed in un attimo fui davanti al letto di mia madre, che stava accanto ai nostri a poca distanza, seguito da mia moglie spaventata. Però in quell'attimo mia madre era già saltata, nello stile olimpionico, dal suo letto a quello di mia sorella, che spaventata pure lei gridavano insieme senza sapere il perchè. Le chiesi che cosa era successo ma non poteva parlare ed aveva gli occhi sbarrati dalla paura. Intanto erano state accese tutte le luci, che sembrava una illuminazione a festa. Sopraggiunse il dirigente del convoglio assieme ad un dottore, chiesero che cosa era successo: mia madre era talmente terrorizzata che non riusciva a parlare, ma ricevuto un calmante, balbettando a singhiozzi raccontò cosa era avvenuto:
     "Mi sono svegliata - disse mia madre, dando un'occhiata al mio bagaglio che fungeva da sgabello, e sopra il quale avevo deposto il mio giaccone di pelliccia - se nonchè visto che le maniche penzolavano sul pavimento sporco, le rimisi a posto lisciando il pelo arruffato. Mentre con la mano rassettavo il pelo, sotto il palmo della mano sentivo che il pelo si muoveva con un tremolio: spaventata ritirai subito la mano, guardando attentamente che cosa fosse, dato che la luce era debole ed incerta.
    Ad un tratto vidi spuntare da quelle maniche un paio di occhietti scintillanti come specchi: fu un attimo d'incertezza che bastò perchè quell'animale saltasse sul mio letto. In preda ad un terrore indescrvibile e gridando con quanto forza avevo, egli sparì come un fantasma, ma il gran spavento non mi fece ragionare e saltai sul letto di mia figlia".
     Alla fine del racconto tutti si misero a ridere, per quella tragicommedia, che fra tanta tristezz e pianti, fu un diversivo di allegria.
    Calmatasi da quella gran paura, l'aiutai a rimettersi a letto assicurandola che poteva orami dormire tranquillamente, ma lei osservandomi severa mi rispose: "Arramengo stu vapur, carago da partagane, a ma par che 'l cor ma salto in gula, e sta zento ancura ridiva, i vulivo vidi se la partagana a ga ziva zuta li cuvierte, chèi chi varavo fato".
    "Va, va, duormi fèio mieio, ca duman a zì un altro giuorno". (1)
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(1) "In malora questa nave, piena di pantigane, mi sembra che il cuore mi salti in gola, e questa gente che per di più rideva, avrei voluto vedere se la pantigana fosse andata sotto le loro coperte, cosa avrebbero fatto".
     "Va, va a dormire figlio mio, che domani è un altro giorno".
 
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