26/01/03
Nel dopoguerra a Roma fu creato il villaggio
che ospitò decine e decine di famiglie profughe dall’Istria, da
Fiume e dalla Dalmazia
Quei «padiglioni» non ci sono
più, ma sopravvivono dentro di noi di Diego Zandel
Si chiamavano "padiglioni". Erano edifici bassi,
con lunghi corridoi. In due file parallele formavano, nel mezzo, un ampio
viale di ghiaia, pini mediterranei ed aiuole. Al centro una fontana esagonale.
In fondo, una chiesetta dedicata a San Marco Evangelista. Null'altro. Era
il Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma. Prima, erano i dormitori degli operai
che costruivano la mussoliniana E.42, l'Esposizione Universale Romana.
Qui furono mandati nel 1947 i primi profughi provenienti dall'Istria, da
Fiume, dalla Dalmazia. Sarebbero arrivati, negli anni, in duemila, decine
e decine di famiglie. Un'isola, tra i campi dell'agro-pontino, alla periferia
di Roma, dove si parlava il dialetto della Venezia Giulia. La mia
famiglia ci arrivò nel 1948 dal campo profughi di Servigliano, nelle
Marche. Avevo 3 mesi. Il Villaggio Giuliano diventò il mio paese,
il luogo dove sono cresciuto.
Oggi i padiglioni non ci sono più,
abbattuti nel corso degli anni Sessanta. Al loro posto, e nell'area circostante,
l'Opera Assistenza Profughi Giuliani e Dalmati costruì nuove case
popolari, che per noi, allora, dopo anni di vita nei campi profughi, apparvero
come una reggia. Questo Villaggio, con le sue vie dedicate ai martiri fiumani,
ai musicisti istriani, ai benefattori giuliani, con i suoi due grandi convitti
per le ragazze profughe, orfane o di famiglie ancora in difficoltà,
oggi diventati rispettivamente un Centro Anziani e un Liceo Scientifico,
questo Villaggio esiste ancora. Non è un caso che, in occasione
della «Giornata della Memoria» il 10
febbraio si celebrerà qui la cerimonia più importante a livello
nazionale con i maggiori rappresentanti delle associazioni degli esuli.
Certo, il Villaggio non è più quello di allora. I profughi
e i loro discendenti di seconda e terza generazione ci sono ancora tutti
(o quasi). Ma non ci sono più i giuliani a gestire i negozi, non
c'è più il barbiere dalmata, defunto, nè L'osteria
all'Istriana, diventata oggi al Nuraghe. Né ci sono le maestrine
provenienti dall'Istria nella scuola elementare dedicata a un insegnante,
martire delle foibe, Giuseppe Tosi. E ancora: prima il prete era uno solo,
di lassù, e quando se ne andava in pensione la sua destinazione
era il Tempo Mariano di Prosecco, sopra Trieste. Oggi ce ne sono tanti,
frati francescani di varie parti del mondo, e nulla sanno delle processioni
religiose che, candele e torce in mano, lumini alle finestre delle case,
si snodavano tra le vie del Villaggio al canto di "Profughi siamo figli
del dolore, senza casa e senza focolare..." . Non c'è più
la squadra di basket, chiamata "Giuliana", composta
da giovani del Villaggio e arrivata fino alla serie A con le loro vittorie,
sostenute dal tifo domenicale dei profughi e dal contributo economico dei
negozianti d'allora.
Né ci sono più le gite in pullman
ai Castelli Romani, durante le quali si intonavano canzoni come "La mula
de Parenzo" e altre della tradizione, molte in dialetto come, quella tipica
degli avvinazzati "Non go le ciave del porton, Marieta buta zo el paion
che dormo in strada" che stupivano i romani abituati a "Portace n'artro
litro che ce lo bevemo". Non c'è più quel Villaggio, anche
se per le sue strade senti ancora echeggiare il dialetto giuliano. Ma a
parlarlo sono solo gli anziani, quelli che incontri riuniti al mattino
davanti al Bar Zara o nel pomeriggio a giocare a carte o a bocce al campo
della Associazione Sportiva Giuliana o del Centro Anziani, dove comunque
il giuliano si mescola al romanesco dei coetanei provenienti dalle zone
limitrofe. Perché il Villaggio non è più isolato.
E' circondato dai palazzi dell'Eur e da quelli della Cecchignola e Cecchignoletta,
di Colle di Mezzo, Ottavo Colle, il Serafico, Prato Smeraldo, Fonte Meravigliosa,
Laurentino 38, Cesare Pavese, che tutti insieme formano il nuovo Quartiere
Giuliano-Dalmata. Un nome che nasce, appunto, dal vecchio Villaggio, questa
realtà straordinaria, ancora distinta, sebbene sia già cominciata,
come una morte annunciata, la sua storicizzazione. Personalmente, ho inserito
il Villaggio in due miei romanzi, il primo, "Massacro per un presidente",
edito da Mondadori nel 1981, e l'ultimo, "I confini dell'odio" pubblicato
da Aragno nell'anno appena passato; Marino Micich, della Società
di Studi Fiumani, che ha sede in via Antonio Cippico,
al Villaggio, ne ha ricostruito la storia in un fascicolo presentato in
occasione di una mostra dello scorso dicembre sui giuliani a Roma e nel
Lazio; una studentessa, Roberta Fidanzia, figlia di una profuga di seconda
generazione del Villaggio ne ha fatto una ricostruzione multimediale, la
cui trasmissione ha riempito fino all'inverosimile, tra lacrime di amarcord,
la pur capiente sala teatrale della chiesa parrocchiale del Villaggio.Una
chiesa, quest'ultima, che, pur conservando il nome di San Marco Evangelista,
non è più la piccola, vecchia "cieseta" dei padiglioni, ma
un notevole edificio in vetro e cemento.
Nel costruirla, si era dato, a suo tempo, a un bravo e rinomato artista
del Villaggio, Amedeo Colella, il compito di realizzare le vetrate che
costituiscono la chiesa e che significativamente propongono i temi sacri
dell'Istria, di Fiume, della Dalmazia, della Venezia Giulia, i santi patroni
delle città, i tradizionali stemmi, l'alabarda triestina, l'aquila
fiumana, i leoni dalmati, la capra istriana. Sul piazzale antistante, chiamato
dei Giuliani e Dalmati, un mosaico, sempre di Colella, ricorda le città
maggiori attraverso una stilizzazione quasi chagalliana dei simboli che
le identificano e i nomi, Fiume, Gorizia, Pola, Trieste, Zara, puntati
in bronzo, come grida, sopra i versi danteschi sull'esilio: "Tu lascerai
ogne cosa diletta più caramente; e questo è quello strale
che l'arco de lo essilio pria saetta". A pochi passi domina la lupa romana
portata da "Pola fedele", come recita la scritta sul marmo che sorregge
la lupa. Un terzo monumento, posto sulla via Laurentina, quasi un marchio
d'ingresso del Villaggio che è subito alle spalle, è il cippo
dedicato ai caduti giuliano-dalmati, un pezzo di roccia strappato dal Carso,
che rappresenta il luogo delle rimembranze. Non c'è cerimonia
ufficiale al Villaggio che non finisca con un alloro deposto in memoriam
su quel pezzo di terra "nostra". I romani non sanno o non hanno ancora
ben capito chi abita lì. Sentono le persone parlare in "veneto"
e dirsi provenienti da città che oggi risultano essere oltre il
confine orientale. Una facile, superficiale equazione, ed eccole diventare,
queste persone, "profughi jugoslavi" ed essere assimilati agli altri extracomunitari.
Un articolo sulle pagine romane di Repubblica apparso ieri, 22 gennaio,
col titolo "Tra l'Eur e la Laurentina il regno di profughi ed esuli", riferito
al Quartiere Giuliano-Dalmata, testimonia questa pervicace confusione,
nonostante l'autore, Paolo Del Colle, sia poeta e scrittore dell'Eur. Forse
anche per una concessione al "pezzo" di colore, descrive il piazzale antistante
la stazione della metropolitana Laurentina, dedicato ai Martiri delle Foibe
Istriane e occupato dalle tipiche bancarelle degli extracomunitari, come
simbolo di una "zona franca, affollatissima e multietnica", che trae le
sue origini proprio da quel vicinissimo Villaggio, a cui concede l'incipit
in questo modo: "I profughi della Jugoslavia accolti nel quartiere Giuliano
Dalmata dopo il trattato con Tito del '47...". Un mismas, come si direbbe
in triestino, di chi del Villaggio ha solo uno stereotipo trasmesso negli
anni e che non aiuta davvero a capirne la realtà e il senso della
sua esistenza. D'altra parte, è sempre stato difficile capirlo,
anche per una certa, orgogliosa chiusura della comunità, figlia
di una Storia difficile. Anni fa, al Villaggio era capitato un visitatore
che, incuriosito del dialetto, s'era avvicinato a un abitante, il signor
Alfonso Reale. Questi, per pura combinazione era, sì profugo, ma
come tanti 'taliani, che s'erano trovati lavoro e moglie in Istria, a Fiume
e a Zara, aveva marcate origini napoletane. E alla domanda del visitatore
su come mai lì, a due passi da Roma, parlavano tutti in veneto,
Reale nel suo dialetto mai perso, rispose: "Ccà simme tutti giugliani".
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