Scritti di A. Colombo

Il Centro di Ricerca sull'utopia

Itinerario di pensiero di Arrigo Colombo

Il Movimento per la Società di Giustizia

Il Nuovo senso dell'Utopia: la costruzione di una Società di Giustizia

 

 

 

 

L'UTOPIA

il nuovo senso

                                                                                                                                                                   

                                                                                                                                                             

ovvero
 il progetto dell'umanità per la sua liberazione

 

progetto-processo
 

la costruzione di una società di giustizia

 

 

Arrigo Colombo

 

 

Università di Lecce
 

Centro Interdipartimentale di Ricerca sull'Utopia

 

Centro Interuniversitario di Studi Utopici

 

Movimento per la società di giustizia e per la speranza
 

Via Monte S. Michele 49, 73100 Lecce/ tel/fax. 0832-314160
 Questo sito è in costruzione
   
E-mail - arribo@libero.it 
 

                       English

The utopian books of A. Colombo

The Centre of Research into Utopia 

The Movement for the Just Society  

The new sense of  Utopia: the Costruction of a  Society based on Justice

 

 

 

 

 

 

 

 

Sezione Poesia

Sezione Cinema

Commenti

 

 

 

 

 

                                                                  Rivista di studi utopici

 

varata nel maggio 2006 a cura del

Centro Interuniversitario di  Studi Utopici - Università di Cassino, Lecce, Macerata, RomaTre

semestrale - dal 2009 annuale.

Il  numero nono, novembre 2011:

 

 

L’UTOPIA

LA COSTRUZIONE DI UNA SOCIETÀ DI GIUSTIZIA:

 

LA DEMOCRAZIA

 

SAGGI

Arrigo Colombo, Genesi e sviluppo della democrazia

Cosimo Quarta, La democrazia ateniese e i suoi limiti

Massimiliano Fiorentino, Le origini medievali del sistema parlamentare inglese

Giuseppe Schiavone, Genesi moderna della sovranità popolare: la Rivoluzione inglese

Daniela Martina, I mali della democrazia  in Tocqueville

Gian-Giacomo Fusco, L’utopia dello stato di diritto in Carl Schmitt

Gianpasquale Preite, Sistema politico, istituzioni democratiche e utopia nel pensiero di Niklas Luhmann

Antonietta De Luca, La scuola e la formazione del cittadino europeo

Maria Teresa Russo, L’utopia della salute e l’emarginazione degli imperfetti

Raùl Zecca Castel, Oltre il sistema democratico. Anarchia e Storia: l’esempio della colonia Cecilia

 

INTERVENTI

René Schérer, Giovani, violenza, educazione

 

RECENSIONI

Autori - Abstracts

 

 

ARCHIVIO ARTICOLI - 2012

2011 - 2010 -  2009 - 2008 - 2007 -2006 -2005

   SEZIONE CHIESA E STATO

INTERVENTI

2013 -

2012 - 2011 -

2010 - 2009 -  2008 - 2007  2006 -

2005

RISPOSTE E CONTRORISPOSTE

 2006  2007 -2008 - 2009 -2010 - 2011

SAGGI SULL'UTOPIA

SAGGIO SUL PROGRESSO

SAGGIO SULLA TECNOLOGIA

 

L'UNIFICAZIONE  DELLA UMANITA'

 

SAGGIO SULLA COSMOPOLI

nuovo saggio

 

 

 

                            

   

 

                                                               

 

                                                                                          

                                                                                       ultimo intervento

                                                    (Al Romano Pontefice Jorge Mario Bergoglio, al Segretario di Stato Card. Tarcisio Bertone, al Card. Angelo Bagnasco

Urge che lo IOR sia soppresso

 

È questa l’opinione prevalente nel mondo cattolico, in particolare nel laicato.

Per almeno due motivi:

 

1. Dalla sua fondazione nel 1942 come banca di credito e di lucro esente da controlli e da imposte,  lo IOR  è diventato presto un fatto  scandaloso. Proprio come banca, per la sua spregiudicatezza nella speculazione sul mercato azionario e immobiliare.

Nel 1962 entra in gioco il finanziere Sindona;

nel 1971 ne diventa presidente Marcinkus, che vi resterà fino al 1989.

Seguirà una serie di fatti scorretti e criminosi: dal caso della Banca Cattolica del Veneto al riciclaggio di denaro sporco e mafioso che durerà poi sempre; al crac del Banco Ambrosiano con l’impiccagione di Calvi; ai casi Enimont, Fiorani, Anemone; fino al recente esonero di Gotti Tedeschi.

 

2. Perché la Chiesa è stata voluta dal Cristo come povera e povera dev’essere;

e non deve trafficare in denaro, né attraverso il denaro contaminarsi in fatti criminosi.

Ci sono tante banche: le opere cattoliche possono affidarsi a quelle.

 

Sia, questa soppressione, un atto esemplare, un segnale, l’inizio di un ritorno alla povertà evangelica, di un lungo e difficile cammino. Che con coraggio dev’essere intrapreso.

Lecce, l’8 aprile 2013

                                                                                

 

                                                                                                                

 

 

ATTIVITA' GIORNALISTICA - ARTICOLI RECENTI, da gennaio 2013

Indice

Il papato, il problema della sua legittimità, 19/02/013                    ultimi articoli

Sul pontificato di papa Ratzinger, 15/02/013

Verso un nuovo governo: Problemi del lavoro, 8/02/013

L’università italiana e l’evoluzione formativa dell’umanità, 1/02/013        

L’Inghilterra, nuovi pericoli per l’Unione Europea, 31/01/013      

Sul Partito Democratico e la campagna elettorale, 20/01/013

Vendola e la demonizzazione della ricchezza, 13/01/013

Alcune annotazioni sull’Agenda Monti, 7/01/013

 

 

 

 

Il papato, il problema della sua legittimità

di Arrigo Colombo

 

         In questi giorni, dopo l’abdicazione di papa Ratzinger, si sono lette nella stampa tante riflessioni, anche concernenti il futuro del papato; ad esempio un papato a tempo, un papato in dialettica con l’episcopato, mentre ora l’episcopato è per lo più muto, e mai in aperta discussione o anche in divergenza rispetto al papato. Ma v’è un problema più radicale, ed è quella della legittimità. È legittimo questo potere di un solo? questo potere assoluto, dispotico?

Bisogna rifarsi anzitutto al progetto evangelico, che è quello di una comunità fraterna. Si parla sì nei vangeli di “poteri” (la parola greca exousίa): il potere di predicare annunziando il messaggio di salvezza, di legare e sciogliere, di rimettere i peccati; ma si tratta sempre di poteri conferiti alla comunità fraterna, non agli apostoli come tali (da cui, si dirà poi, discendono i vescovi); poiché la condizione suprema e insuperabile è quella fraterna; è la suprema legge dell’amore fraterno che in sé contiene ogni altra legge.

Anche il passo famoso di Matteo16, “Tu sei Pietro e su questa pietra fonderò la mia chiesa”, non può essere inteso nei termini di un potere supremo; come avverrà poi. Pietro stesso, che ha una preminenza nella comunità primitiva, non lo intende così: nella sua lettera (la prima, poi che la seconda è apocrifa), si presenta come “coanziano tra gli anziani”, cioè uno degli anziani che di solito presiedevano paternamente le comunità locali, e rifiuta espressamente il dominio sul gregge dei fedeli (5, 1-3). E ciò vale per tutto il primo secolo.

Nel  secondo secolo, nelle Lettere d’Ignazio di Antiochia, troviamo costituita la chiesa gerarchica: a capo di ogni chiesa locale v’è un vescovo che “tiene il luogo di Dio” e cui si deve obbedire come a Dio; che ha “potere” su tutto ciò che concerne la chiesa locale. Sotto di lui ci sono dei presbiteri, che lo coadiuvano e gli devono obbedienza. Più sotto dei diaconi che al vescovo e ai presbiteri devono obbedienza.

Questa struttura gerarchica, verso la fine del secondo secolo si consacra col sacerdozio, un carattere affatto estraneo a tutto l’annunzio evangelico e apostolico; a tutto il Nuovo Testamento; dove compare talora come carattere esclusivo del Cristo (che alla destra del Padre offre il suo sacrificio eterno di salvezza, nella Lett. agli Ebrei); o come prerogativa dell’intero corpo dei credenti, che costituiscono “un sacerdozio regale, una nazione santa” (Lett. di Pietro 2, 4-10). Mai come élite sacerdotale.

 

In questo quadro si va affermando il prestigio della chiesa di Roma, capitale dell’impero, e dove hanno operato e sono sepolti i “principi degli apostoli” Pietro e Paolo; “la chiesa che presiede nel luogo della regione dei Romani, presiede nell’amore”, scrive Ignazio d’Antiochia; l’unica chiesa apostolica in Occidente, che dunque diventa il perno delle chiese occidentali. Va affermandosi un primato di prestigio che lungo i secoli tende a trasformarsi in primato di giurisdizione, di potere. Un processo che dura lungo tutto il primo millennio e che porta alla sostituzione del progetto evangelico di comunità fraterna con un  modello di tipo imperiale. Il titolo di papa si afferma nel quinto secolo (dal greco pappas, padre, usato prima anche da altri vescovi).  Nella seconda metà del millennio tre fattori decisivi intervengono:

La formazione della Stato Pontificio, cioè l’assunzione di quel potere politico che il Cristo aveva sempre escluso per sé e per i suoi (“voi però non così”).

La traslazione o rifondazione dell’Impero romano nel Sacro Romano Impero, compiuta nel Natale dell’800 con l’incoronazione di Carlo Magno; di cui il papa diventa l’investitore, in certo modo un  superimperatore. Si afferma il principio che il papa possiede la pienezza del potere, spirituale e materiale, ecclesiale e politico; e cede poi il potere materiale e politico all’impero. Idee che compaiono anzitutto in testi apocrifi che sono grandi falsificazioni, come la Pseudo-donazione costantiniana e le Decretali pseudoisidoriane, ambedue nel nono secolo. Vengono poi riprese da papi come GregorioVII, Innocenzo III, Bonifacio VIII.

Il distacco della Chiesa orientale, la grande contestatrice, che non avrebbe mai accettato il potere papale romano.

Nel 996 s’introduce definitivamente il nome dinastico, con Brunone di Carinzia che prende il nome di Gregorio V; nel 999 Gerbert d’Aurillac prende il nome di Silvestro II.

Il processo può dirsi compiuto con Gregorio VII, con quel documento che è il Dictatus Papae del 1075. Dopo aver affermato che solo il papa può dirsi pontefice universale; e dopo aver affermato il suo potere sui vescovi, sul concilio, il suo esclusivo potere legislativo, riprende alcune formule ch’erano andate attestandosi lungo il millennio: che la sua decisione non può esser revocata da nessuno; che da nessuno egli può essere giudicato; che la chiesa romana non ha mai errato né mai potrà errare in perpetuo; che il romano pontefice per i meriti di S. Pietro deve dirsi indubitabilmente santo. Per concentrarsi infine su quei punti del potere secolare e imperiale: che egli solo può usare le insegne imperiali; che può deporre gl’imperatori; che tutti i principi devono baciargli i  piedi; che il suo nome è  unico al mondo. Un documento di estrema ambizione e presunzione, una vera follia di grandezza e potere (PL 148, 407-408).

.Si giunge così al Concilio Fiorentino del 1439, dove il primato papale diventa infine una definizione dogmatica, quindi una verità divinamente rivelata e perciò assoluta, indubitabile, che ogni credente deve professare. Il Concilio Tridentino tenterà di riprendere e riaffermare questa definizione, ma non ci riuscirà; ci sarà un aspro dibattito, mancherà l’accordo dei vescovi. Siamo al 1563.

Si arriva poi al Concilio Vaticano I, che nel 1870 riprende dopo quattro secoli il tema del primato papale e vi aggiunge l’infallibilità, apportando come motivo l’unità dell’episcopato e dei fedeli; l’unico capo che tiene salda l’unità della chiesa. Ma le testimonianze addotte, i testi scritturali ed ecclesiali, sono di scarso rilievo, non convincono per nulla.

Infine il Concilio Vaticano II, il tanto esaltato Concilio di rinnovamento della chiesa, ha definitivamente consacrato questa struttura gerarchica e imperiale.

Perciò, considerato nella sua complessiva storia, il papato appare scarsamente legittimabile; appare come la costruzione di un potere mondano estraneo all’annunzio e progetto evangelico, al più autentico spirito cristiano. 

                                                                                               19/02/013

 

 

Sul pontificato di papa Ratzinger

di Arrigo Colombo

 

          Si è parlato molto, in questi giorni del gesto di rinunzia al pontificato compiuto da papa Ratzinger, alias Benedetto XVI – secondo l’uso invalso verso la fine del primo millennio di assumere un nome dinastico; uso che rientrava nel processo di mondanizzazione della Chiesa gerarchica, la quale nei secoli precedenti si era infeudata, aveva costituito uno Stato Pontificio assumendo un potere politico oltre che religioso, aveva rifondato l’impero, il Sacro Romano Impero, di cui il papa era il supremo investitore.

Questo gesto di rinunzia lo si riteneva praticamente impossibile in quanto il papa, come Vicario di Cristo, era come trasformato da una suprema sacralità; e in realtà [non avveniva da secoli, dal 1415. Ma] il Codice di diritto canonico la prevede (can. 332, 2, purché fatto liberamente e debitamente manifestato).

 

Ma ora che la rinunzia è compiuta (e diverrà effettiva alle ore 20 del 28 febbraio) c’interessa capire che cosa questo papa ha compiuto negli otto anni del suo governo (eletto il 19 aprile 2005); che cosa lascia in eredità alla Chiesa. In particolare che cosa ha innovato, in che punti è avanzato. O se invece il suo è stato un periodo di stasi o di recessione.

Così la rivalutazione del rito romano antico, dove la messa si celebra in latino, e non nella lingua del popolo, e il sacerdote volta le spalle alla gente (giustificato con l’idea che tutti guardano verso il Cristo crocefisso). Così la ripresa di abiti e paludamenti rinascimentali. Cui si connette nel 2009 la reintegrazione della comunità lefebvriana che in nome di quella liturgia si era distaccata, coi suoi quattro vescovi; con l’incidente, tuttavia, che uno di quei quattro, Richard Williamson, si professava negazionista della Shoah, ciò che portava ad uno scontro con la comunità ebraica.

 

Entriamo così negl’incidenti di questo pontificato. Uno di questi è la “lezione di Ratisbona” del 2006, in cui il papa cita un passo dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo, che dice “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane”; ciò che porta ad un forte risentimento della comunità islamica.

Un secondo è quello citato di Williamson. Un terzo è la dichiarazione che, nel viaggio in Africa del 2009, paese flagellato dall’AIDS, afferma che il preservativo  non allevierebbe ma aggraverebbe il problema (avendo già prima condannato il preservativo come anticoncezionale); ciò che provoca un risentimento diffuso, in uomini politici e scienziati, in organizzazioni umanitarie. In realtà, nella teologia più illuminata, la cosiddetta contraccezione è vista invece come gestione razionale della propria sessualità e procreazione da parte della persona.

 

Accanto agl’incidenti i conflitti che hanno travagliato questo pontificato. Il primo concerne la pedofilia del clero; un vizio che si scopre diffuso in una misura inopinata; negli Stati Uniti anzitutto; diffuso e occultato dalla stessa gerarchia. Ratzinger ne viene a conoscenza fin dal 1998; la controversia si protrae lungo tutto l’ultimo decennio fino, nel 2011, all’accusa presso la Corte penale internazionale da parte delle vittime di questo vizio; accusa che coinvolge il papa stesso; che viene poi ritirata ma che suscita enorme scalpore. D’altra parte nessuno dubita della gravità di questo vizio,. specie nel clero cattolico.

Un altro conflitto è quello che avviene all’interno del Vaticano stesso. Anzitutto l’Istituto per le Opere di Religione, IOR, che durante tutto il decennio (e già prima) è tormentato da accuse varie; l’ultima delle quali, quella di riciclaggio di denaro sporco, porta al licenziamento del presidente Gotti Tedeschi, nel maggio 2012. Poi il caso dell’Aiutante di camera del papa, Paolo Gabriele, che il 24 maggio 2012 viene trovato in possesso di carteggi riservati, accusato di furto aggravato, imprigionata; poi processato. Fatti gravissimi. Per non parlare di gelosie e conflitti vari che tormenterebbero la Curia, di cui si vocifera.

Sul piano dottrinale il punto più discusso è l’accusa di relativismo etico che Ratzinger rivolge costantemente alla modernità. Accusa che sorprende  in quanto la modernità è proprio la fase della storia umana in cui s’impostano i grandi principi etici che vanno costruendo una società di giustizia. Dignità e diritto della persona umana (donde poi l’abolizione della schiavitù, un obbrobrio che aveva tormentato la storia intera; l’abolizione della pena di morte, ancora incompiuta, purtroppo); eguale dignità e diritto di uomo e donna; eguale dignità e diritto dei popoli, principio che porta alla caduta degl’imperi, sia continentali che coloniali e, dopo la seconda guerra mondiale, all’emancipazione di tutti i popoli (193 siedono all’Onu; pochi restano: Tibet, Curdi, Palestinesi). Con le Carte dei popoli che questi e altri diritti e vincoli etici contengono: il Patto del popolo inglese (1647), la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino nella Rivoluzione francese, la Dichiarazione universale del 1948, la Carta dell’Unione Europea del 2000.

Un altro punto è l’omosessualità, che Ratzinger ha costantemente condannato come vizio contro natura. Mentre l’episcopato americano, già in un importante documento del 1977, la considerava una forma diversa d’impianto sessuale che non ha valenza etica, e che dev’essere rispettata e condotta a forme di unione permanente, e anche benedette, analoghe al matrimonio.

In modo analogo la procreazione assistita che, in una Istruzione del 1987, Ratzinger cardinale aveva impostato sul principio di natura, anziché sul più maturo principio della persona che gestisce la sua natura, e anche cerca di supplirne i punti in cui è carente o vien meno (così nella fecondazione eterologa cioè con seme altro dal coniuge, nella gravidanza sostitutiva o utero in affitto).

 

Un pontificato, insomma che, considerato con attenzione, lascia in molti punti perplessi. Un pontificato anche molto turbato e sofferto; in cui le energie umane possono anche esaurirsi. Pur riconoscendo la naturale dignità e finezza, e l’impegno indubitabile della persona (vedi anche, su  questo ed altro, la lettera aperta del teologo Hans Küng ai vescovi, il link in appendice alla voce Benedetto XVI in Wikipedia).

                                                                        (Nuovo Quotidiano di Puglia, 15/02/013)

 

 

 

 

Verso un nuovo governo: Problemi del lavoro

di Arrigo Colombo 

 

Le elezioni politiche si approssimano, si va verso un nuovo parlamento, un nuovo governo, una nuova gestione della comunità italiana. È quello che si spera, che si va prospettando. Dove uno dei problemi fondamentali è il lavoro; a prescindere dalla crisi, e soprattutto dopo la crisi.

Il lavoro è un diritto fondamentale della persona umana. Perché necessario alla sua sussistenza, come allo sviluppo adeguato della sua personalità: le sue potenzialità, la sua creatività (un punto ancora molto carente proprio al livello storico), alla sussistenza e allo sviluppo della nazione, alla grande intrapresa umana. Come tale è stato acquisito e proclamato dalle moderne Carte dei popoli: dalla Dichiarazione universale dei diritti (art. 23), dalla nostra Costituzione: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto» (art. 14).  Un articolo, quest’ultimo, che lo stato e il governo non sembra si siano impegnati finora ad attuare: il diritto effettivo, che tutti abbiano effettivamente un lavoro, tanto più quel lavoro che ad ognuno corrisponde e in cui la sua personalità si adempie, e non un lavoro qualunque.

 

Ma facciamo un passo indietro e affermiamo che dev’essere garantito a tutti un lavoro stabile; perché è l’unico che dà sicurezza alla persona (e alla famiglia), le assicura la sussistenza, la preserva dalla precarietà, dalla caduta nell’indigenza, nella povertà; e magari anche nella disperazione, nell’abisso del suicidio. Affermiamo che in quel passaggio costituzionale «che tutti abbiano effettivamente un lavoro» è inteso un lavoro stabile. Parola che nel linguaggio corrente, anche istituzionale, si preferisce evitare: si parla di lavoro «a tempo indeterminato», un’espressione riduttiva.

Ma ecco che, proprio  in questa fase, quella che va dal crollo del comunismo internazionale, e anche dei partiti e delle forze social-comuniste, quindi dalla ripresa neoliberista, si sviluppa un attacco contro il lavoro stabile per un lavoro che viene detto «flessibile» ma che in realtà è precario. Il capitale tenta di avere il lavoratore a sua totale discrezione (perciò tenta anche di sopprimere i contratti collettivi): quindi lavoro part-time, contratti di formazione (cui non segue poi l’assunzione), contratti a termine, a chiamata, a progetto, lavoro interinale, lavoro d’agenzia ecc. – nei quali viene intaccata anche l’assistenza e la previdenza, oltre che l’anzianità. E in Italia si vara nel 2003 la  legge Biagi (altre leggi e normative l’hanno seguita).

Una legge che dev’essere soppressa (ma tante leggi degli ultimi vent’anni devono essere rapidamente soppresse – ciò che i governi di Centro-sinistra di questa fase non hanno fatto, e ci stupisce – a cominciare da quella che legalizza il falso in bilancio, legge palesemente iniqua); o, forse meglio, dev’essere riformulata (il part-time può essere utile per lo studente, ad esempio, o in altre fasi e condizioni di vita), sempre in ordine al bisogno del popolo lavoratore.

Ma il principio del lavoro stabile – possiamo dire – non è ancora entrato nella coscienza storica, lungo il processo di costruzione di una società di giustizia, processo in corso. Deve emergere, dev’essere affermato come fondamentale principio e diritto, in Italia, nell’Unione Europea; devono essere studiate e costruite le strutture necessarie per renderlo effettivo. Anche in una società capitalistica, che è quella in cui ci troviamo; società ingiusta per tanti motivi su cui ora non ci possiamo fermare; da cui l’umanità dovrà liberarsi, come si è liberata dalla società aristocratica che l’ha dominata per millenni; così dalla società borghese che, in senso stretto, è appunto la detentrice del capitale.

 

Un punto dunque da affermare subito e da sviluppare via via, lungo l’estinguersi della crisi. Un altro punto è la settimana lavorativa, la quale è ferma da circa un secolo alle 40 ore settimanali, mentre la produttività si è più volte decuplicata. Ora sembra giusto, e quasi ovvio che, diventando sempre più produttivo, il tempo di lavoro debba ridursi. La via da percorrere è quella aperta da Jospin nel 2000 con le 35 ore settimanali; via che nessun’altra nazione europea ha seguito, per la  sorda resistenza che le ha opposto il capitale; e che Chirac nel 2005 ha praticamente svuotato. Otto ore di lavoro al giorno sono troppe; specie per il lavoro meccanico, per la concentrazione che richiede; ma per ogni lavoro, per l’impegno che comporta, per il tempo che sottrae alla famiglia e alla libera espansione della persona. Con le 35 ore settimanali si scenderebbe a sette, si guadagnerebbe un’ora al giorno; non è poco. Sarebbe anche un aiuto per la Francia socialista a riprendere quella legge, e un esempio per l’Europa.

                                                                            8/02/013

 

 

L’università italiana e l’evoluzione formativa dell’umanità

di Arrigo Colombo

 

         Vediamo di capire ciò che sta avvenendo nell’Università italiana, dopo la diffusione di certi dati fatta dal Consiglio Universitario Nazionale, CUN.

Negli ultimi dieci anni l’immatricolazione degli studenti universitari è calata di 58.000 unità; nel corpo dell’università italiana ci sono dunque 58.000 studenti in meno, qualcosa come una grande università che scompare, come l’Università statale di Milano. Qualcuno dice che il mercato italiano dei laureati era in eccedenza e provocava disoccupazione, per cui i giovani hanno preferito concludere con gli studi tecnici e professionali, anziché coi licei e l’università, nella speranza di trovare lavoro più facilmente. Altri fanno notare che in questi dieci anni v’è stata una continua diminuzione dei fondi statali alle università, una serie di tagli anomali all’università (e ancor più alla scuola, gli otto miliardi in tre anni del duo Tremonti-Gelmini, un baratro per il processo formativo) che hanno portato ad un aumento anomalo delle tasse universitarie come mezzo per sopperire alle spese correnti; e hanno messo quindi in difficoltà le famiglie e i loro giovani figli. Parallelamente v’è stata una riduzione dei fondi per il “diritto allo  studio”, per le borse di studio agli studenti che ne hanno diritto (solo nel 2011-2009 si è passati dall’84% al 75% degli aventi diritto, escludendo il 25%).

Inoltre – si nota – in questo decennio i concorsi a docenti universitari di ogni grado (ricercatori, associati, ordinari) sono rimasti sospesi – forse in attesa di una riforma, iniziata prima da Berlinguer, ripresa dalla Moratti, compiuta dalla Gelmini – un altro fatto gravemente anomalo,  che ha prodotto una forte carenza di docenti; che forse anche spiega la scomparsa di 1.195 corsi di laurea. Ma alcuni notano che si era ecceduto nella creazione di corsi di laurea; altri notano che v’erano corsi di laurea senza o con pochissimi studenti.

 

In questa situazione caotica l’evidenza chiave è anzitutto una controtendenza e arretratezza rispetto alla media europea dei laureati: il 30% dei trentenni; mentre in Italia il 19%, che ci pone al trentaquattresimo posto su 36 paesi (rilevazione OCSE). Un dato certo preoccupante.

Questo dato è fondamentale. Esso anzitutto contrasta col principio del “diritto allo studio” che si afferma lungo la Contestazione degli anni Sesanta-Settanta. Dietro al quale sta la dignità e diritto della persona umana, la sua  potenzialità culturale, la sua creatività; che viene bloccata e frustrata là dove manca un adeguato sviluppo formativo. Certo l’uomo del popolo viene da una storia d’ignoranza e analfabetismo; poi, dopo millenni, nella Rivoluzione Francese si affaccia il principio e diritto all’alfabetizzazione, all’istruzione popolare obbligatoria e gratuita, che a poco a poco s’impone, anzitutto in Occidente. S’impone per gradi, prima con la scuola elementare o primaria; poi con la scuola media. E in  Italia è ancora fermo lì, a quel mediocre livello formativo e culturale. C’è una legge del ’99 che aggiunge due anni e porta l’obbligo ai 16 anni; che però viene abrogata nel 2003. La situazione europea è varia, avrebbe bisogno di un deciso intervento unitario; per intanto in alcuni paesi si arriva fino ai 18 (in Germania, Danimarca, Olanda, Belgio).

Il principio della dignità e diritto della persona umana non può essere ulteriormente frustrato. La persona umana esige un adeguato processo formativo che ne sviluppi le potenzialità più alte: quelle culturali, scientifiche, artistiche; almeno fino a raggiungere un adeguato possesso della cultura umana al livello storico.

In Italia questo processo di acculturazione è fortemente arretrato. Il prossimo governo deve subito fare un passo coraggioso e deciso, aggiungere alla scuola media la scuola superiore obbligatoria e gratuita, i cinque anni; dando ad essi un carattere essenzialmente culturale, d’introduzione della persona ad un buon livello della cultura umana; un carattere fondamentalmente liceale o di liceo classico; con accanto anche dei tirocini professionali da cui potrebbe uscire il contadino colto, così come l’artigiano colto, o il meccanico colto per tutta l’industria in cui la macchina ancora abbisogna dell’intervento umano.

Con un passo ulteriore la formazione popolare, obbligatoria e gratuita, potrebb’essere portata fino ad un biennio universitario, sempre nello stesso intento formativo della persona, nell’assimilazione della cultura.

In prospettiva il lavoro meccanico dovrebb’esere assolto completamente dalla  macchina, nella fabbrica grande automa; con una presenza solo marginale dell’uomo in funzioni di controllo, riparazione, stoccaggio. Il lavoro contadino e artigiano potrebb’essere affidato ad un tirocinio giovanile universale, come già Thomas More aveva previsto, e altri autori più recenti, Bellamy ad esempio. Il lavoro manuale verrebbe così assolto e scomparirebbe dalla vita adulta della persona, per una professione più altamente culturale ed umana. Un cammino che richiederà tempo ma che è avviato, e per il quale si deve operare con decisione; per uscire dall’alienazione in cui finora gran parte dell’umanità è stata costretta, anche in Occidente.

                                                                               1/02/013

                                                                        

 

L’Inghilterra, nuovi pericoli per l’Unione Europea

di Arrigo Colombo

 

         Si sa che l’Inghilterra è stata sempre una spina al fianco dell’Unione. Non si è integrata nell’Euro, non ha accettato il trattato di Schengen sulla libera circolazione, ha ottenuto un rapporto particolare in cui può accettare o meno le decisioni europee.

Ciò è dovuto sia alla sua coscienza di isolana ed isolazionista; sia al suo tradizionalismo, quello stesso che le ha fatto conservare la monarchia come la Camera dei Lord, dopo oltre due secoli dalla caduta dell’aristocrazia; sia al suo sciovinismo di grande potenza coloniale ed imperiale, quella stessa che aveva creato e dominato la Società delle nazioni, fallita poi proprio per questo; e che al profilarsi di una comunità europea aveva opposto il suo Commonwealth, un’istituzione solo di facciata, dopo che i popoli si erano liberati dal colonialismo e avevano raggiunto l’autonomia.

 

In questa fase, in cui al seguito della crisi economica l’Europa è impegnata a riprendere il processo unitivo, correggendo il liberismo imperante che ha causato e continua a nutrire la crisi stessa perché è chiaro che il libero mercato è pura follia, o meglio è una proiezione ideologica del capitalismo che non soffre vincoli al suo obiettivo di massimizzazione del profitto. Non per nulla Smith, il grande padre, per tenere in piedi il libero mercato aveva dovuto introdurre la sua mitica “mano invisibile”. Ed è ovvio  che, come dev’essere gestito uno stato e la sua economia – tra l’altro la parola economia significa proprio “gestione della casa”, quindi della gran casa dello stato; contenendo in sé il nomos, cioè la legge – altrettanto e ancor più dev’essere gestito il mercato mondiale. Altrimenti si crea il caos economico: si crea il grande e sempre crescente divario ricchezza-povertà, la ricchezza dei pochi e la povertà dei molti, la grande ingiustizia che affligge il pianeta; si devasta l’ambiente, e proprio in questa fase, col crescere del surriscaldamento dell’atmosfera, e il conseguente sciogliersi dei ghiacci si va verso un’innalzamento del livello degli oceani che gli studiosi ritengono ormai inevitabile, e che causerà una serie di catastrofi; si provocano le crisi, da sovrapproduzione, da speculazione finanziaria, come quella in cui siamo immersi e di cui acutamente soffriamo in questi anni.

Questa crisi può essere tuttavia benefica per l’Europa se appunto la spinge verso una correzione della follia liberista per una gestione comunitaria dell’economia; quindi verso un’economia più equilibrata  e più giusta, con minore incidenza di povertà, minore disoccupazione, minore caos delle imprese, minore elitismo ed egoismo bancario; almeno in un certo grado, data la resistenza del capitale e dei suoi ideologi e politici. E se la spinge verso la ripresa del processo di unificazione politica, interrottosi in seguito al negativo referendum franco-olandese; interrottosi certamente per un diffuso prevalere degli sciovinismi nazionalisti, specie negli stati maggiori; un atto folle, se si pensa a cosa potrebb’essere un’Europa  fortemente integrata coi suoi quasi 500 milioni di abitanti, col suo patrimonio culturale e scientifico, col suo alto grado di socialità, di Stato sociale e dei servizi; una volta che tutti i 27 stati (e gli altri che si apprestano ad entrare) siano cresciuti ad un alto livello economico e culturale. Rispetto agli Stati Uniti d’America la cui egemonia dev’essere infrenata: se solo si pensa alle cinque guerre che hanno scatenato negli ultimi sessant'anni, di cui quattro perse; all’enorme crudeltà, enorme dolore, come all’enorme spreco (donde i grossi problemi di bilancio oggi, mentre Clinton aveva raggiunto la parità); se si pensa all’arrogante liberismo di cui soffrono, alla debolezza dello stato sociale. Quale beneficio può essere per l’umanità un’Unione Europea veramente integrata. Sia chiaro che deve trattarsi sempre di una stato federale; che l’identità, come il patrimonio culturale e linguistico dei singoli stati deve restare intatto.

 

È proprio questa ripresa del processo d’integrazione, il passo verso un’unità effettiva dell’Europa, verso l’unico stato federale che suscita le apprensioni di Cameron, dei conservatori e di tutti gli euroscettici inglesi, timorosi che ne soffra la grandezza del loro piccolo paese, il loro passato di grande potenza; sì che Cameron giunge a prospettare addirittura un referendum, pensando che l’innato isolazionismo e lo sciovinismo inglese glielo faranno vincere. Ma lo prospetta solo per il 1917, avendo di mezzo le elezioni del 1915, che non può essere sicuro di vincere. Uscire dall’Unione; ma poi, quando l’Unione crescerà davvero e diventerà la grande potenza benefica, che cosa faranno gl’inglesi? rincorreranno ancora il treno per non perderlo, per non perderne i benefici? come fecero nel 1973? Poveretti, poveri illusi.

                                                                 (Nuovo Quotidiano di Puglia, 31/01/013)

 

 

Sul Partito Democratico e la campagna elettorale 

di Arrigo Colombo       

 

         Il Partito Democratico. Cioè l’erede dei movimenti che, a livello planetario, hanno condotto la lotta secolare per l’emancipazione del popolo lavoratore: il socialismo, il comunismo. Il cui progetto era appunto la socializzazione e comunione dei beni di produzione, cioè del capitale; nell’autopossesso e autogestione dell’impresa, nella condivisione dei profitti. Movimenti che poi sono stati fagocitati dallo pseudocomunismo sovietico e dalla sua galassia; dal suo inumano esperimento di «dittatura del partito» sul popolo, dogmatismo e dispotismo stalinista, oppressione, Gulag; esperimento che nel suo crollo ha portato con sé anche quei movimenti di liberazione. E però in Francia permane un partito socialista, che oggi è al potere; e in Germania v’è un partito socialdemocratico che col partito cristiano-democratico si alterna nella gestione dello stato Si tratta di due dei maggiori stati europei.

Resta perciò alquanto enigmatico quanto è accaduto in Italia: lo sfascio del partito socialista, la democratizzazione del partito comunista che poi diventa anche una dissoluzione. Lo scacco ideologico, per cui dirsi socialisti o comunisti oggi in Italia è, diremmo, una vergogna, e nessuno più ci pensa né ci crede; quasi fossero degli spettri; quelli di cui parlano Marx-Engels nel Manifesto, quando uno “spettro” si aggirava per l’Europa.

Il Partito Democratico è l’erede di quella storia e di quegli ideali, anche se ne ha ridotto (forse troppo) la forza. Perciò è il partito per il quale il popolo lavoratore dovrebbe votare, ovviamente. Ma ecco che il popolo è sviato da quel pregiudizio, dall’idea del socialismo-comunismo inumano, ateo e quindi avversato dalla chiesa; ha dimenticato che proprio quello pseudocomunismo sovietico prima del crollo si era ravveduto – l’opera illuminata di quel grande che è stato Gorbaciov, e di quelli che con lui hanno lottato, che hanno tentato un “comunismo dal volto umano”, che era poi l’autentico comunismo; anche se non ci sono riusciti. Ecco che il popolo italiano vota per la Destra, cioè per i suoi padroni, gente che non pensa certo alle condizioni del popolo lavoratore ma ai suoi interessi, alle sue imprese e ai suoi profitti (quando non ai suoi processi).  

 

Dicevo che il PD ha indebolito il grande progetto social-comunista, quello autentico. Lo si vede dalla “Carta d’intenti”, che sarebbe poi il programma elettorale della sua coalizione. Se si legge anche solo il capitolo del “lavoro”, che però è il più importante, specie oggi. Si parla di “contrastare la precarietà” del lavoro: non si dice con chiarezza che il lavoro “stabile” è l’unico che risponde alla dignità e al diritto del lavoratore come persona umana; così come al suo bisogno personale e familiare; che perciò il PD perseguirà l’obiettivo di dare a tutti i lavoratori un lavoro stabile, attraverso un sistema di rafforzamento delle imprese, di consorzio delle imprese affini per rafforzarle; attraverso un monitoraggio dell’andamento delle imprese e in esse del lavoro a livello nazionale. Questo principio del “lavoro stabile” che dev’essere affermato con forza.

Si parla in termini generici di una “legge sulla rappresentanza”. Non si dice con chiarezza che il PD si batterà per introdurre la “cogestione delle imprese”, come avviene in Germania, la Mitbestimmung; per introdurre la “partecipazione agli utili” dell’impresa. Due punti forti nel rapporto capitale-lavoro.

Si parla di “spezzare la spirale perversa di bassa produttività e compressione dei salari”. Non si dice con chiarezza che lo stato attuale dei salari è intollerabile, inferiore del 30-50% ai salari delle maggiori nazioni europee; che questo divario nel corso della legislatura sarà sanato.

 

Anche la campagna elettorale del PD lascia perplessi. Il PD non fa polemica, dice di non voler fare polemica. Ma la campagna elettorale è per se stessa polemica, è una lotta; e se in questa lotta non t’impegni, soccombi. Non fare la voce grossa; ma se il tuo avversario la fa,  anche tu devi farla; altrimenti resterai in ombra, un debole, un impotente. Ad ogni affermazione del tuo avversario devi opporre una tua affermazione; specie se il tuo avversario parla a vanvera o dice il falso. Prendiamo l’IMU, la tassa di cui tutti si lamentano: bisogna spiegare alla gente che l’IMU non dev’essere abolita ma corretta; che questa tassa è necessaria per una sana gestione dei comuni, ma che non deve gravare indistintamente su tutti; probabilmente non deve colpire per tutti la prima casa, quella che oggi può essere considerata un bene primario, cui tutti i cittadini hanno diritto; dovrà essere scalata secondo il reddito; dovrà essere compensata con quella forte tassa sui grandi patrimoni che oggi c’è altrove, ad esempio in Francia, e che il caro Monti non ha avuto il coraggio d’introdurre, per quanto molti gliel’avessero suggerita.

                                                                      20/01/013

  

 

Vendola e la demonizzazione della ricchezza

di Arrigo Colombo

 

 Ecco che a Vendola capita di scrivere sul suo blog, e poi anche di dichiarare alla televisione, che “i super-ricchi come Gérard Depardieu, che vanno in Russia per non pagare le tasse ipotizzate da Hollande, vadano pure al diavolo. I super-ricchi devono andare al  diavolo”. Una uscita che suscita un vespaio di commenti, stupori, scandali. Per lo più in difesa dei ricchi e super-ricchi, che la loro ricchezza se la sono guadagnata con l’intelligenza e il lavoro, che danno lavoro agli altri e a tutta la nazione; mentre Vendola se ne viene con battute vecchie stantie, che appartengono al veterocomunismo di stampo sovietico, e al suo livore contro la ricchezza.

In realtà la demonizzazione della ricchezza appartiene alla più genuina tradizione cristiana e occidentale, essendo un tema-chiave dell’annunzio evangelico. Già all’inizio dei vangeli, nell’episodio delle tentazioni, il Satana mostra al Cristo “i regni del mondo e la loro gloria”, e gli dice  “tutto questo è stato dato a me”; la ricchezza sta dunque sotto il segno del male, è satanica, è perversa. Certo la ricchezza in senso alto e discriminativo; quella dei pochi che discriminano i molti; non quella popolare verso cui l’umanità è protesa, nella costruzione di una società di giustizia.

E ha poi una presenza costante nel discorso evangelico: nel rifiuto, il Cristo rifiuta la ricchezza; per seguirlo, per entrare nella comunità evangelica che è la prima cellula della nuova società liberata, redenta, bisogna abbandonarla, distribuirla: “Va, vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri; poi vieni e seguimi”. Nella comunità gerosolimitana, la prima che si forma dopo la scomparsa del Cristo, la più vicina al suo pensiero e progetto, “tutti quelli che hanno poderi e case le vendono e portano il ricavato ai piedi degli apostoli, e viene distribuito tra tutti”; e segue allora la frase altamente significativa: “Nessuno più tra loro era indigente”, che è poi la redenzione anche materiale del povero, del popolo povero, il popolo di sempre, il popolo lavoratore; che solo in tempi recenti ha raggiunto una condizione di modesto ma sempre precario benessere. E però la comunione dei beni è qui proprio quella che redime; essa, che viene oggi considerata una perversione in quanto legata a quel comunismo che nel modello sovietico risultò orrendamente oppressivo e crollò poi, rifiutato dall’umanità. Dimenticando che il modello sovietico realizzò un comunismo di stato e non una comunione dei beni.

L’annunzio evangelico si estende, forma l’Europa e l’Occidente cristiano. Ma il rifiuto della ricchezza si estenua. Già nella Lettera ai Corinzi di Paolo apostolo si riflette una comunità di poveri e ricchi, dove nella cena eucaristica il ricco abbonda di  vino fino ad ubriacarsi mentre il povero soffre la fame; e la Lettera di Giacomo giunge all’invettiva contro i ricchi presenti nella comunità. In seguito poi la chiesa gerarchica entrerà nel sistema feudale, i vescovi diventeranno principi, la chiesa si arricchirà, il progetto evangelico andrà perduto. Non si penserà più di redimere il povero, basterà l’elemosina o anche la mensa caritativa, e il dormitorio comune. Quando nell’800, in seguito al lavoro industriale e al formarsi della classe operaia, nasceranno movimenti come il socialismo e il comunismo che rivendicheranno la fine della discriminazione di ricchi e poveri, di padroni e salariati, la chiesa li condannerà; e anche l’enciclica “Rerum novarum”, che è considerata la Magna charta della dottrina sociale cristiana, non chiederà la fine della discriminazione di ricchezza e povertà, ma qualcosa come una (impossibile) solidarietà di ricco e povero.

 

Se ci si chiede perché il Cristo rifiuti la ricchezza la risposta non è difficile: perché la ricchezza è ingiusta. Perché si forma attraverso la divisione di capitale e lavoro, cioè di patrimonio strumentale e lavoro di cui esso è strumento; e attraverso la dipendenza e lo sfruttamento e la precarietà di quel lavoro umano. Che contrastano con la dignità e il diritto della persona, e con tutto ciò che a questa dignità e diritto consegue. Contrastano col principio di eguaglianza nella dignità e nel diritto, e nella condizione dignitosa; quando il lavoratore è dipendente e sfruttato, è precario, è disoccupato, è pensionato al minimo.

La ricchezza è ingiusta perché si appropria ed accumula dei beni che sono destinati a tutti; che Dio, il Padre amoroso, nel suo amore provvidente ha creato per tutti i suoi figli; figli fatti a sua immagine; affinché tutti ne avessero da vivere dignitosamente, secondo quella dignità e diritto che a quella divina immagine appartiene. Mentre ecco che, lungo i secoli e i millenni, dall’inizio delle civiltà (poiché della fase precivile mancano le testimonianze, salvo quello che abbiamo potuto raccogliere dalle culture primitive), il popolo lavoratore ha sempre vissuto nella scarsità, come nell’ignoranza e nell’analfabetismo, nell’impotenza di fronte alla malattia e alla malasorte. La grande enorme ingiustizia, il grande male; di cui Satana, principe del male, figura mitica, è il simbolo. Quel diavolo di cui parlava Vendola.

                                                               (Nuovo Quotidiano di Puglia, 13/01/013)

 

 

Alcune annotazioni sull’Agenda Monti

di Arrigo Colombo

 

         “Cambiare l’Italia, riformare l’Europa” è il titolo del documento programmatico di Monti e della sua coalizione, apparso appena prima di Natale. Vediamone alcune linee conduttrici.

L’Europa, anzitutto, che dev’essere rifondata, deve riprendere la costruzione della comunità europea. L’Italia che (dopo gli anni dell’eclisse berlusconiana) deve riprendere a contare nel mondo.

Il risanamento del debito pubblico, l’impresa titanica dei 2.000 miliardi di euro. Monti propone che, a partire dal 2015, inizi la rifusione del debito con una quota di un ventesimo l’anno, cioè 100 miliardi; quota che però andrà via via diminuendo; e del resto già ora si pagano 75 miliardi annui d’interessi. Il denaro lo si prenderà dai grandi patrimoni (mai toccati finora); dalla vendita del patrimonio pubblico inerte; dalla riduzione della spesa pubblica (e degli sprechi); da una amministrazione pubblica resa efficiente. Monti dice addirittura che entro i primi 100 giorni di attività del nuovo governo dovrà essere lanciata una consultazione per identificare le 100 procedure da eliminare o ridurre con priorità assoluta.

Monti riprende qui il programma dell’ultimo governo Prodi: allora il debito era al 103% del Pil e Prodi proponeva una ridusione annua del 3%, cioè a partire da circa 30 milioni, per dieci anni. Programma  totalmente disatteso poi dal governo seguente.

Segue il problema delle imprese. Riduzione degli oneri burocratici, riduzione dei ritardi di pagamento da parte dell’amministrazione pubblica (uno dei punti più scandalosi e più dolenti, da parte di un governo che esige dal cittadino il pagamento puntuale, salvo caricarlo di ammende; e poi tarda anni a pagare lui il cittadino). Qui Monti omette di fissare i tempi: i trenta, i sessanta giorni; e le gravi penalità conseguenti; per infrangere un malcostume burocratico che mette in ginocchio le imprese.

Poi gl’incentivi, l’aumento dei fondi per ricerca e sviluppo, l’invocazione di una situazione che favorisca gl’investimenti dall’estero, 50 miliardi l’anno.

Direi che su questo punto non vi sono novità. Ad esempio come passare dal prevalente tessuto di piccole imprese ad imprese maggiori, magari attraverso il consorzio d’imprese omologhe; o comunque. Un problema che non è piccolo per l’Italia, anche e proprio per gl’investimenti stranieri che vengono invocati.

Segue l’agricoltura. Qui anzitutto la tutela del terreno agrario dalla  cementificazione e dalle infrastrutture; un punto che richiederebbe più attenzione e forza. Poi la tutela degli agricoltori e del valore della loro produzione, un punto dolente perché il prodotto agricolo alla fonte è malpagato e il suo valore cresce poi con l’intermediazione.

Segue le formazione e la ricerca, la scuola e l’università in particolare, che il malgoverno precedente ha ridotto in condizioni pietoso. Si vedano le statistiche Ocse. Taglio selvaggio di fondi, decenni senza concorsi, centinaia di migliaia di precari. Monti forse non conosce bene questa situazione. Parla soprattutto di valutazione del rendimento d’insegnanti e dirigenti, e di un premio economico annuale ai migliori. Ma è anzitutto il livello degli stipendi, nella scuola in particolare, che dev’essere alzato.

 

Del lavoro Monti parla solo a proposito dei suoi costi. Pensa forse di averne risolto i problemi con la disgraziata riforma Fornero di lavoro e pensioni. Certo il lavoro è legato alle imprese e alla loro ripresa dalla crisi.; ma v’è tutta una serie di problemi che lo concernono e di cui urge l’affrontamento. Anzitutto il lavoro dev’essere stabile, la dignità e il diritto della persona (e della famiglia) lo esigono, oltre che la soddisfazione del bisogno al livello storico. Quindi l’abbattimento del lavoro precario, la riforma della legge Biagi. Poi i salari, che in Italia sono del 30-50% inferiori a quelli delle maggiori nazioni europee; un divario perverso e scandaloso, e che dev’essere recuperato; tra l’altro manca ancora una legge sul “salario minimo garantito”, una legge presente in una sessantina di stati. E bisogna anche cominciar a parlare pure in Italia di Mitbestimmung, cioè di partecipazione del lavoro alle decisioni dell’impresa, e di partecipazione agli utili; come in Germania e in altri stati. C’è qui un’arretratezza che, in un paese dalla forte tradizione sindacale, stupisce.

Sulle pensioni c’è un’azione analoga da fare, una legge sulla “pensione minima garantita”, che elimini gli attuali minimi di pensione da fame.

 

 

 

 

 

 

 &ref=&sr=sr1024x768:cd32:lgit:jey:cky:tz2:ctna:hpna" width=1 height=1>