ARMANDO ORLANDO

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n.5 - ottobre 2003

 

L'ENIGMA PIU' ANGOSCIANTE DELLA PRIMA REPUBBLICA

 

Un corposo volume ripropone in chiave inedita l'affaire Moro, fase drammatica della nostra storia. Una nuova interpretazione sull'ancora oscura vicenda del grande uomo politico italiano.

Nei venticinque anni che ci separano da quel giovedì 16 marzo 1978, sul "caso Moro" sono state scritte più di un milione di pagine tra libri e riviste. A parte l'occasione celebrativa ed il significato di testimonianza, quale valore può avere un altro libro sull'argomento?

Inserito nella collana "Problemi Aperti", il volume "Aldo Moro. Quei terribili 55 giorni" di Gustavo Selva ed Eugenio Marcucci (Introduzione di Simona Colarizi, pp. 446, € 18,00) è un'opera utile per conoscere - oppure per ricordare - la cronaca di quei giorni, ed il racconto, come recita la quarta di copertina, conserva tutta la drammaticità e le emozioni provate da chi, come Selva e Marcucci, seguì la vicenda momento per momento, il primo con i suoi famosi "editoriali" in qualità di direttore del GR2 ed il secondo come giornalista radiofonico.

Documenti preziosi

Il volume è arricchito da materiale documentario di fondamentale importanza. Per la prima volta, infatti, vengono raccolte le lettere che Moro scrisse dalla "prigione del popolo", comprese quelle mai recapitate ai destinatari, il "memoriale" nel testo parlamentare riordinato dalla Commissione Stragi, i comunicati delle BR ed il discorso del 28 febbraio 1978, pronunciato davanti ai Gruppi Parlamentari della Dc per dare vita al governo appoggiato dal Pci.

Già... Il nuovo Governo Andreotti. Selva scrive che il memoriale ci consegna un Moro ben diverso da quello che la "vulgata" dell'epoca dell'assassinio ci aveva presentato. Secondo il giornalista, infatti, Moro, se fosse uscito vivo dal rapimento, non sarebbe stato affatto quel costruttore della "terza via", che la sinistra democristiana, o forse tutta la Dc, ormai infiacchita agli occhi degli elettori, ha voluto far credere, continuando a identificare il "progetto di Moro" per il futuro politico e per la modernizzazione dell'Italia in una sorta di consociativismo: l'accordo di governo della Dc con i comunisti.

Le difficoltà della Dc

Vediamo di ricostruire il clima politico dell'epoca. Erano i cosiddetti "anni di piombo" delle stragi e dei quotidiani attentati terroristici. Le condizioni della Dc erano tra le più difficili della sua storia. Il partito, sconfitto nel referendum sul divorzio del 1974 e poi nelle elezioni amministrative del 1975, era stato abbandonato anche dal Psi, tanto che Francesco De Martino, con un articolo pubblicato sull'Avanti! del 31 dicembre 1975, aveva detto chiaramente che i socialisti non avevano più alcuna ragione per appoggiare il governo.

Benigno Zaccagnini, nominato segretario politico dello scudo crociato la notte del 25 luglio 1975, consapevole dell'isolamento del partito, aveva dichiarato: "Io penso che si debba dire apertamente che il tempo delle rendite è finito, che ora siamo in campo aperto, dinanzi ad una società nuova, più articolata ed esigente, di fronte alla quale i consensi o ce li guadagniamo per la nostra capacità politica o non ce li meritiamo".

Nel luglio del 1976 era nato il primo monocolore democristiano sorretto dalla "non sfiducia" ed il Pci di Berlinguer si era tuffato nell'avventura del "governo di solidarietà nazionale". Il 17 novembre 1977 Ugo La Malfa aveva incontrato Moro in un corridoio della Camera e gli aveva illustrato la sua idea di inserire il Pci nella maggioranza. "La situazione del Paese - annota La Malfa nei suoi appunti - mi pareva di una gravità estrema e il governo Andreotti assolutamente non in grado di affrontarla".

Si avvicinano Dc e Pci

Intanto Berlinguer era tornato da Mosca, dove aveva preso le distanze dal "socialismo reale" in modo netto, ed il primo dicembre i comunisti avevano firmato un documento della maggioranza in cui la Nato veniva indicata come "punto di riferimento fondamentale" della politica estera italiana.

La manifestazione a Roma dei metalmeccanici, che rifiutavano i sacrifici in cambio di niente, e la minaccia di sciopero generale, fatta da Berlinguer in televisione la sera del 15 dicembre 1977, avevano spianato la strada alla crisi di governo, che si era aperta formalmente quando il capo dello Stato Giovanni Leone aveva accettato con riserva le dimissioni di Andreotti presentate il 16 gennaio 1978.

Il 26 gennaio Berlinguer aveva dichiarato: "Bisogna dare al Paese un governo di emergenza per fronteggiare una crisi di gravità eccezionale" ed il 28 febbraio 1978 Moro parlò, finalmente, alla riunione dei Gruppi parlamentari Dc della Camera e del Senato.

Tra Botteghe Oscure e piazza del Gesù era in corso una trattativa che durava da più di un anno; ma sul piano internazionale la piega che stavano prendendo gli avvenimenti in Italia infastidiva l'amministrazione Usa. Il 12 gennaio 1978 il Dipartimento di Stato americano era intervenuto con una dichiarazione secondo la quale "i recenti avvenimenti in Italia hanno accresciuto la nostra preoccupazione". Le parole successive non lasciavano spazio a dubbi: "Noi non siamo favorevoli alla partecipazione dei comunisti ai governi dell'Europa occidentale e vorremmo veder diminuita l'influenza comunista in questi paesi".

Il disegno di Moro

Il leader democristiano, nel discorso del 28 febbraio, aveva affermato che "al sistema delle astensioni, della non opposizione, si dovrebbe sostituire un sistema di adesioni", auspicando una "intesa sul programma, che risponda all'emergenza reale che è nella nostra società". "Perché - spiegò - abbiamo una emergenza economica ed una emergenza politica. Io sento parlare di opposizione, del gioco della maggioranza e dell'opposizione. Sono in linea di principio pienamente d'accordo... Ma immaginate cosa avverrebbe in Italia in questo momento storico se fosse condotta fino in fondo la logica dell'opposizione, se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova da una opposizione condotta fino in fondo? Ecco che cosa è l'emergenza ed ecco che cosa consiglia una sorta di tregua e suggerisce di riflettere su un modo accettabile per uscire da questa crisi".

Era la richiesta di un accordo sul programma nella logica del "non rompete tutto". E l'operazione - è Moro stesso a riconoscerlo - non comportava "la formazione di una maggioranza politica", perché i membri della Direzione Dc erano stati unanimi nel dire no ad una coalizione politica generale con il Partito comunista. Ma per Moro la Dc non doveva essere solo un partito di testimonianza, bensì doveva proporre un'iniziativa coraggiosa e appropriata alla situazione, sconfinando in un terreno ancora inesplorato: Questo terreno nuovo e più esposto c'è già, già ci siamo sopra nella vita politica...in molte articolazioni dello Stato democratico... E ci siamo già con altri, nella vita sociale, nei sindacati, nelle associazioni civili, negli organismi culturali, nelle innumerevoli tavole rotonde alle quali siamo presenti".

Questo disse Moro il 28 febbraio 1978, ma già dieci giorni prima egli aveva espesso gli stessi concetti nel corso di un colloquio con Eugenio Scalfari. Il direttore de 'la Repubblica' tenne riservati gli appunti fino al 14 ottobre 1978, giorno in cui li pubblicò "alla vigilia d'un dibattito parlamentare importante, e mentre sono in molti ad arrogarsi la pretesa d'aver capito il Moro di prima e il Moro di dopo, il Moro libero e il Moro in cattività, costruendo castelli di carta, non sempre di buona lega".

In quell'occasione Moro affermò: "La Dc marcerà sull'ingresso del Pci nella maggioranza subito. Ma poi credo che ci debba essere una seconda fase, non troppo in là, con l'ingresso del PCI nel governo. So benissimo che sarà un momento "stretto" da superare. Bisognerà superarlo... Soltanto dopo che avremo governato insieme e ciascuno avrà dato al Paese le prove della propria responsabilità e della propria capacità, si potrà aprire la terza fase, quella delle alternanze al governo... La società consociativa non è un modello accettabile per un Paese come il nostro... Dopo la fase dell'emergenza si aprirà finalmente quella dell'alternanza, e la DC sarà liberata dalla necessità di governare a tutti i costi".

Quello che venne dopo lo sanno tutti: l'agguato di Via Fani del 16 marzo 1978, l'uccisione degli uomini della scorta, il rapimento e poi l'assassinio di Aldo Moro. E la politica del compromesso storico continuò, tra discussioni e aggiustamenti, fino ad esaurirsi nel 1980.

Un'analisi difficile

Quale pensiero politico di Aldo Moro dobbiamo ricordare oggi? Vale il disegno a tappe, oppure - come scrive Selva - gli studiosi devono rivedere il clichè che fa di Moro un "cattocomunista", esaltato a sinistra e detestato a destra?

Il libro è ricco di materiale che consente di approfondire gli argomenti. Esso, inoltre, risveglia ricordi che erano assopiti, specialmente nelle persone che seguirono da vicino gli avvenimenti. Nel leggere gli editoriali sembra di udire ancora alla radio la voce di Selva, e ritornano vicinissimi l'annuncio flash dato da Cesare Palandri alle nove e venticinque del 16 marzo e la successiva diretta radiofonica da via Fani con la voce di Franco Bucarelli. I lavoratori romani si dettero appuntamento in Piazza San Giovanni, quel pomeriggio, e noi stessi siamo stati testimoni dello sventolio di un mare di bandiere bianche con lo scudo crociato, che per la prima volta abbiamo visto accanto alle bandiere rosse del Pci e a quelle del Sindacato.

Selva mostra di non credere ai collegamenti internazionali e Simona Colarizi, nell'introdurre il lavoro, sottolinea il fatto che gli assassini di Moro abbiano sempre rivendicato con forza la matrice tutta italiana del crimine, respingendo con fermezza ogni sospetto di essere stati manovrati dall'esterno. Ma la vicenda è ancora aperta.

Il giudizio della famiglia

Alla conferenza stampa di presentazione del film sulla vicenda, "Piazza delle Cinque Lune" - nel corso della quale il regista Renzo Martinelli ha dichiarato che "Moro fu minacciato dagli Stati Uniti per il suo progetto politico di apertura a sinistra; poi provarono a tirarlo nello scandalo Lockeed; infine passarono alle vie di fatto" - c'era anche Maria Fida Moro. Queste le sue parole: "Chi mente su mio padre? Tutti. Basta prendere l'elenco di chi stava al governo nel '78, della Dc, del Pci e di buona parte di altri partiti". Sempre in merito al film, la famiglia ha parlato di una ricostruzione "ben fatta".

Infine, per Giovanni Moro il "mondo politico, lo Stato, le istituzioni presero la decisione di non trattare in alcun modo la liberazione del prigioniero. Si determinò una situazione di carenza delle indagini" e "purtroppo non siamo ancora arrivati ad una verità credibile".

Nella premessa al volume Selva scrive che "il rapimento e l'assassinio di Moro sono stati una vittoria delle Brigate Rosse. Ma la guerra la deve vincere lo Stato, cioè tutti noi; e la conoscenza del nemico durante questa operazione è l'elemento indispensabile per ottenere la vittoria finale. Questo è lo scopo del libro".

Ma oggi, venticinque anni dopo, chi conosce veramente quel nemico? E chi può dire che lo Stato ha ottenuto - o si avvia ad ottenere - la vittoria finale?

 

 

 

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R notes

febbraio 2004

 

LA SFIDA MULTIMEDIALE, RISORSA PER IL MEZZOGIORNO

 

L'avvento di internet ha cambiato in maniera profonda il modo di relazionarsi, ma anche i rapporti economici. Un libro spiega perché il Sud dovrà adeguarsi a questa importante rivoluzione.

 

Il mondo moderno sta correndo ad una velocità talmente forte che nessuno è in grado di fare previsioni stabili nel lungo periodo. Siamo entrati a pieno diritto in quel periodo storico che molti definiscono postindustriale, una fase dove le regole del gioco e della vita sociale non sono più dettate soltanto dai ritmi dell'industria ma tutto è influenzato dalla "rete". Nel campo nella net economy l'Italia ha un ritardo di due anni rispetto alla Germania e al Regno Unito e superiore di due anni rispetto ai paesi del nord Europa, pur essendo passati da un tasso di penetrazione di Internet del 6% nel 1998 al 16% nel 2000 e al 24% nel 2002.

Una grande squadra

Ed ancora: l'era di Internet è caratterizzata da una conoscenza diffusa, dalla possibilità di accedere a uno sterminato numero di risorse da parte di chiunque e di qualsiasi ceto sociale; la libertà d'informazione non è mai stata così grande; il Mezzogiorno può, per sua tradizione storica e culturale, e deve, pena l'emarginazione dal contesto europeo, puntare al contesto competitivo delle iniziative ad alto valore aggiunto ed in particolare deve evolvere verso un modello di sviluppo ad alto valore aggiunto basato sull'economia della conoscenza.

Sono questi i concetti fondamentali che emergono dalla lettura del volume "La Net Economy e il Mezzogiorno: Una grande squadra" di Nicola Barone (Prefazione di Giuseppe De Rita, pp. 88, € 6,00), che ha come sottotitolo "Un ponte verso la società dell'informazione e della conoscenza".

Per l'elaborazione del testo Nicola Barone si è avvalso di un punto di osservazione di tutto rispetto. In qualità di presidente del Piano Telematico Calabria (un progetto avviato nel 1997 dal Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica allo scopo di portare l'economia del territorio calabrese nel contesto della competizione globale attraverso la cosiddetta economia della rete)l'autore si inserisce nel solco dell'iniziativa politica "eEurope" (nata per mettere i vantaggi della società dell'informazione alla portata di tutti i cittadini europei) e mette a frutto l'esperienza maturata in una posizione di privilegio per elaborare concetti di forte attualità.

Interventi per il Sud

Concetti che si legano a quanto dichiarato recentemente da Carlo Trigilia, ordinario di Sociologia economica all'Università di Firenze e studioso che ha analizzato in profondità i limiti dello sviluppo del Mezzogiorno, individuando in uno sforzo maggiore in termini di comunicazioni e di infastrutture il modo per poter consolidare i segnali di dinamismo che sono venuti negli anni Novanta dall'economia del Sud.

Alla domanda "Cosa si auspica per il Mezzogiorno d'Italia" Barone risponde che le regioni del Sud devono iniziare a pianificare a medio-lungo termine, utilizzando i finanziamenti europei prima che questi si esauriscano con l'ingresso nell'Unione dei paesi dell'Est, ed uno dei settori d'intervento prioritario deve essere individuato nelle infrastrutture, materiali ed immateriali, finalizzate a valorizzare una comune funzione del Mezzogiorno nel contesto del mercato globale. Più beni collettivi e meno incentivi direbbe Trigilia, e Barone, nel suo libro, spiega che alla rete delle infrastrutture immateriali devono essere collegati interventi trasversali di supporto che creino infrastrutture materiali quali vie di comunicazione aerea e marittima, telecomunicazioni, ecc.

Dall'analisi dello sviluppo economico delle altre realtà europee e mondiali - scrive l'autore - sembra ormai chiaro che, per migliorare la competitività del Mezzogiorno ed essere al passo con l'economia dei paesi sviluppati, è necessario aprirsi al mercato globale attraverso i servizi in rete. Nella sfida della net-economy il Mezzogiorno parte avvantaggiato perché qui la vecchia economia non è mai stata competitiva e, quindi, si può partire da zero senza necessità di convertire una cultura imprenditoriale ancorata a vecchi principi.

Strategie di sviluppo

Internet si è trasformato in una vasta fiera-mercato. Il commercio elettronico, che nel 1998 registrava scambi per soli 8 miliardi di dollari, oggi supera i 350 miliardi di dollari. Ma il recupero dei ritardi sull'uso di Internet non significa che stiamo utilizzando al meglio la net-economy per la crescita dell'economia o del sistema dei servizi. "Telcal era cosciente che lo sviluppo di un territorio non potesse essere risolto solo con una buona strategia realizzativa della net-economy" osserva Barone. Per questo va prima identificato lo scenario competitivo dove collocare una efficace strategia di sviluppo del Mezzogiorno. E tutte le componenti legate al sistema sociale, istituzionale ed economico (e qui troviamo pure l'istruzione e la giustizia) devono essere esaminate ed affrontate in maniera organica, finalizzandole ad obiettivi di sviluppo in precedenza già individuati.

Una volta deciso lo scenario, la "rete" consente di uscire dal localismo e può aiutare a porre in competizione aree a basso sviluppo con aree ad alto sviluppo. Ecco perché il libro di Barone ha associato Net-Economy e Mezzogiorno anche nel titolo ed ha riempito di contenuti la definizione di "ponte" verso la società dell'informazione e della conoscenza.

Un'appendice dedicata alle tappe più significative del Consorzio Telcal chiude il volume ed elenca le principali opere realizzate in Calabria, a partire dal Centro Servizi di Lamezia Terme, al quale sono collegati, attraverso una rete Intranet Regionale, nove Cantieri Territoriali, otto Centri Polifunzionali del Lavoro, nove Aule Multimediali, sette Aule di Teledidattica e centinaia fra clienti e utenti Enti Locali e Imprese. Ed infine il portale "CalabriaWeb", definito il più recente veicolo attivato per la promozione della Calabria, della sua storia, delle sue tradizioni, dei suoi prodotti tipici, ed il giornale on-line "Calabria Ecclesia Magazine", lanciato ufficialmente nel 2001 nel corso della Conferenza Episcopale Calabra.

Il capitale intellettuale

Nella Prefazione Giuseppe De Rita, segretario generale del Censis, ha scritto che la centralità del capitale sociale per lo sviluppo di un territorio è oramai riconosciuta anche dagli economisti più ortodossi, i quali puntano proprio sulla valorizzazione delle conoscenze e dei saperi locali, sulla collaborazione e sulla progettazione comune per poter competere nel mercato globalizzato. E Nicola Barone, nel libro, scrive che nell'era dell'informazione la più importante fonte di ricchezza è il "capitale intellettuale", cioè tutto quel sapere, informazione,creatività ed esperienza che gli uomini possono mettere a frutto; aggiungendo che nell'ambito del Piano Telematico Calabria sono stati esaminati oltre 4000 govani, ne sono stati formati 169 e alla fine del corso circa cento giovani son stati assunti a tempo indeterminato e utilizzati come agenti di sviluppo del Piano stesso; sono stati erogati corsi per formare il personale degli Enti Locali e delle imprese alle nuove tecnologie e sono state favorite forme associative sia delle PMI che degli EE.LL. per ottimizzare i servizi.

Tutto ciò ha contribuito a creare una nuova cultura di fare impresa e di dare servizi ai cittadini, scrive Barone. Peccato, però, che la classe dirigente politica e imprenditoriale calabrese non sia preparata, nella sua maggioranza, a questo cambiamento, aggiungiamo noi. Dov'è, infatti, lo scenario competitivo individuato per dare attuazione a questa strategia di sviluppo? D'altra parte lo stesso autore, in una pagina del libro, auspica che il progetto possa essere accolto e rilanciato in tutte le istanze istituzionali "per dare speranza ai tanti giovani che si sono formati con grande profitto e competenza nelle aule del Piano".

Se la Calabria non prendesse questa direzione di marcia sarebbe tagliata fuori da ogni ipotesi di sviluppo, per l'oggi e per il domani, sostiene Barone. Non bisogna dargli torto. Sappiamo che l'Italia ha attualmente un terzo in meno dei ricercatori per popolazione attiva della media europea, e meno della metà degli Stati Uniti, e nei laboratori mancano all'appello 50 mila ricercatori. E se per frenare la "fuga dei cervelli" è intervenuto persino il presidente della repubblica Ciampi, vuol dire che il problema esiste, ed è serio. Questo vale per l'intero territorio nazionale. Figurarsi per il Meridione e, quindi, per la Calabria, da tutti ormai considerata il Sud del Sud.

 

Armando Orlando