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    Otto Rosemberg "La lente focale - Gli zingari dell'olocausto" Marsilio Editore
    Recensione di Gabriella Bona
     
     
    “Finché i leoni non avranno i loro storici, le storie di caccia continueranno a magnificare i cacciatori”, recita un proverbio africano. 
    Qualche cosa di molto simile si può dire anche per gli zingari, la cui storia è ignorata, le cui pene patite nei campi di concentramento nazisti sono state trascurate e dimenticate. 
    Nel volume “La lente focale – Gli zingari nell’Olocausto”, edito da Marsilio, Ulrich Enzensberger raccoglie il racconto di Otto Rosenberg, uno zingaro sinti nato nel 1927 nella Prussica orientale e che ha vissuto gli anni drammatici del nazismo e le torture del campo di concentramento. 
    Figlio di un commerciante di cavalli e di una casalinga, tedesco da diverse generazioni, Rosemberg viveva dall’età di tre mesi a Berlino con la nonna e in questa città ha frequentato regolarmente la scuola. La sua vita e quella della sua famiglia si svolgevano quasi normalmente: vivevano in carrozzoni in un grande accampamento e qualche volta dovevano subire discriminazioni o insulti. Ma “verso sera veniva acceso il fuoco e le donne più anziane ci si sedevano intorno e si raccontavano vecchie storie”. 
    “Non eravamo ricchi”, racconta Rosenberg, “avevamo lo stretto necessario [ma] eravamo sempre puliti e ordinati”. 
    Fino al 1936, l’anno delle Olimpiadi di Berlino, quando “l’ufficio di Polizia criminale del Reich istituì la ‘centrale per la lotta contro la piaga zingara’” e i sinti vennero trasportati a Marzahn in stato di arresto, i loro lavori tipici vennero proibiti e vennero privati della nazionalità tedesca. Il campo accolse zingari provenienti da varie zone della Germania e da altre nazioni, diventò sempre più affollato e invivibile e le malattie cominciarono a decimarne la popolazione. Nel 1938, le persone accolte vennero destinate nei vari campi di concentramento, in base all’età e ai lavori a cui erano destinati. 
    Otto Rosenberg comincia a lavorare all’età di tredici anni, durante la guerra, in una fabbrica di armi. E anche qui la discriminazione nei confronti degli zingari è pesante: niente latte né carne per loro e“neanche a colazione potevo sedermi a tavola con gli altri, no, dovevo andare fuori in cortile”. In seguito dovette sopportare anche alcuni mesi di carcere e a sedici anni è ad Auschwitz dove perde il proprio nome e ogni diritto. E’ semplicemente Z6084, il numero che gli viene tatuato sul braccio. Passerà, in seguito, in vari altri campi, conoscerà orrori indescrivibili, dove “i cadaveri ormai appartenevano alla quotidianità […] e la cosa assurda è che ormai non mi veniva neanche più da dire: ‘Povera gente!’”. 
    La fame, la fatica, le percosse, la paura, il contatto con la morte provocano la scomparsa dei sentimenti: “in un lager la capacità di ‘sentire’, di provare pietà per gli altri dopo un po’ si perde”. E chi riesce ad uscire vivo, a continuare a vivere in una Germania devastata dalla guerra e dagli odi e dove gli zingari continuano a vivere una realtà di discriminazione, ci metterà molto tempo a recuperare l’equilibrio e la capacità di parlare di ciò che ha vissuto. 
    “Otto Rosenberg non si sofferma molto a raccontare di questa macchina di sterminio né ci fornisce statistiche complete”, scrive Klaus Schütz nella prefazione ma, con un linguaggio semplice e suggestivo, ci narra i lunghi anni trascorsi in mezzo a migliaia di sinti e di rom, la maggior parte dei quali è morta per gli stenti, le malattie o nelle camere a gas, tra famiglie smembrate, donne violentate e sterilizzate, fame, freddo e tantissimo dolore. Nelle pagine del libro troviamo anche bellissimi momenti di solidarietà, le piccole astuzie per continuare a vivere, i commoventi incontri con persone conosciute. 
    Oggi Otto Rosenberg è sposato, ha sette figli e diversi nipoti e vive una vita serena. “Il numero che mi avevano tatuato sul braccio nel lager l’ho fatto coprire con un altro tatuaggio. Al posto di quell’infamia adesso c’è un angelo”. E finalmente è riuscito a trovare la forza per raccontarci questa storia. 
       
    gabriella bona

 
 
 
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