Ritrovo, sistemando gli archivi informatici, un vecchio testo («Virgolette sadiche», settembre 2007) in cui ricordo Silvano Cardellini, larticolo a lui dedicato (orribilmente mutilato dal «Resto del Carlino» da dove, prima di pubblicarlo, mi telefonarono per chiedermi se io fossi un amico del povero Silvano), e certi modi classici del giornalismo di provincia. Riprendo qui soltanto il passo relativo al giornalismo di provincia, che ha pure un richiamo autobiografico.
finita in gloria lavventura del «Messaggero», Silvano era rientrato al quotidiano di Bologna, da dove era stato sempre lasciato marcire come il ragazzino apprendista nella cronaca quotidiana ufficiale, quella delle conferenze-stampa: un rito che gli inesperti affrontano timidamente magari facendo domande perché hanno visto che alla conferenze-stampa dei presidenti degli Stati Uniti of America od anche, sia detto con rispetto, del presidente del Consiglio dItalia, usa così: che il giornalista alza la mano, chiede una cosa, e poi aspetta la risposta.
Ma le conferenze-stampa di un comune o di una provincia sono tutta una manfrina diversa, chi parla vuole che gli si chieda quello che lui ha già detto, come se tu dovessi confessare: scusi, sa sono stato poco attento, le dispiacerebbe ripetere, no non è così il giornalismo, ma se tu gli chiede: ma come voi avete deciso una cosa che non è condivisa, eccetera, allora lui, lautorità costituita con fascia invisibile ma onnipresente attorno al corpo a rappresentare il segno del potere, dice: ma che cosa centra lopinione altrui, a noi interessa in nostro programma, dove cerano le cose decise da noi, e quello che è deciso da noi va bene per tutto il popolo, quindi è inutile porsi queste domande.
Silvano queste cose le sapeva, faceva domande di conforto ai politici, scriveva telegrafiche annotazioni che i più giovani copiavano perché non capivano, aveva questo pregio del mestiere imparato con gli anni, era diventato vecchio così, atrofizzato dal commercio intellettuale con il Potere, magari il giorno dopo sul «Carlino» gli sparava quattro righe di derisione, censura o condanna, perché si sa che il mondo è una recita, gli altri giocano nel ruolo degli amministratori, e lui in quello della coscienza critica, ma poi andavano al caffè Vecchi (unistituzione che adesso non cè più nella piazza, davanti al palazzo del sindaco), si scambiavano le confidenze, e quello che la stessa mattina era stato pizzicato sul giornale da lui, gli batteva una mano sulla spalla con la confidenza del «tu» cameratesco, come se avessero fatto il soldato o le elementari assieme.
La sede del «Carlino» fronteggia il palazzo del sindaco, due potestà a confronto. Tra di loro il gioco è sempre stato di una raffinata e consumata eleganza, anche quando in comune cerano i rossi, ed il «Carlino» avrebbe dovuto tuonare contro di loro, anzi fingeva di tuonare, suonava tromboni e tamburi allarmi allarmi, ma adelante con juicio perché poi i padroni del «Carlino», non la proprietà finanziaria, ma quella intellettuale, erano gli industriali grandi e piccoli ai quali faceva comodo andare daccordo con i nemici di classe, onde per cui siccome suole tarallucci e vino erano la ricetta e la modalità conclusiva di ogni fatto civico. Ed il povero cronista del «Carlino» era coinvolto sino ai cappelli, e doveva annuire fingendo di parlare, e parlare fingendo di tacere, questo non lo dico nel caso specifico, ma in generale. Fatto sta che al povero Silvano hanno riservato un funerale pubblico ed ufficiale, in duomo, con il vescovo a celebrar messa, ed unamica di sua moglie che la stessa sera ha scritto in un blog di esser scappata via inorridita.
Più semplicemente al funerale io non ci sono andato, sapevo che sarebbe stata una cosa degna del Palazzo, ma io e Silvano ci siamo conosciuti quando facevamo la fronda al Palazzo, a metà degli anni sessanta e scrivevamo assieme in un giornale locale dove lui ha avuto il battesimo del fuoco, ma questo è già scritto nel pezzo che ho riportato e che è stato massacrato dal «Carlino», ma poi mi è stato integralmente pubblicato dal «Ponte»
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