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il Rimino - Riministoria

Documenti su Giuseppe Antonio Barbari
e la Nuova Scienza in Emilia-Romagna

2. Tra potere e sapere, aristocratici e cultura da Rimini a Bologna

A Bologna nel Seicento «si privilegia la situazione delle scienze della natura, soggette all’innovazione epistemologica recata dal moderno metodo galileiano, in conflitto con le resistenze di coloro che all’università si professano ancora seguaci dell’aristotelismo».
Così scrive Andrea Battistini precisando: «A rendere più mosso il conflitto intervengono anche i gesuiti nel collegio di santa Lucia e i nobili della città che coltivano la scienza in veste di “dilettanti” colti, atteggiandosi spesso a mecenati che mettono a disposizione le sedi dei loro palazzi e dispensano i mezzi necessari al progresso della conoscenza» [1].
In questo contesto, prosegue Battistini, «operano il matematico Cavalieri, l’astronomo Cassini, il fisico Montanari, il medico Malpighi, tutti “novatori”, gli aristotelici Montalbani e Sbaraglia, i gesuiti Biancani, Riccioli, Grimaldi, i nobili Cesare Marsili, Cornelio Malvasia, Carlo Antonio Manzini».
In questo contesto studia a Bologna Giuseppe Antonio Barbari, sul finire degli anni Sessanta del solo XVII.
Barbari però non appartiene a quella classe nobiliare, il cui ruolo è sottolineato da Battistini, e che interessa anche a noi (per quanto cioè riguarda Rimini).
Nella Bologna del Seicento troviamo vari personaggi che partono da Rimini, e di ritorno portano e proiettano sino a Rimini la loro fama emiliana. Essi appartengono al ceto aristocratico che ha un ruolo politico in Rimini, e che ha forti collegamenti con la società ecclesiastica e quindi con il mondo politico-religioso di Roma.
Barbari è soltanto un borghese. Nardi definisce la di lui famiglia «una delle primarie di Savignano». Agiata e ragguardevole la chiama Giuseppe Ignazio Montanari. Giorgio Faberj ricordando Giuseppe Barbari, lo inserisce in un breve elenco di glorie locali, le cui famiglie «hanno decorato» la loro patria «con le virtù, e cariche sostenute, et con la nobiltà acquistata». Frase generica quest’ultima, che non permette di qualificare «patrizia» la famiglia Barbari (come invece fa il DBI alla «voce» curata da M. Gliozzi).
In calce ad una storia delle chiese savignanesi, si legge che in quella di San Sebastiano c’erano più di «sessanta tombe private delle famiglie più importanti di Savignano», tra cui appunto quella dei Barbari.
Nella stessa storia si cita un notaio Francesco Barberi (Barbari?) che fu segretario della Comunità savignanese.
Ricordiamo che in una società di poveri ed analfabeti, un minimo di sostanze e di dottrina garantiva sic et simpliciter la qualifica di gruppo socialmente superiore, ovvero degno di esser considerato nobile al punto di vendergli relativi diplomi e patacche aristocratiche.
Che i Barbari fossero ricchi e potenti nel loro paesello, lo dimostra il fatto che il Nostro può studiare prima a Rimini e poi a Bologna. Ma il potere della sua famiglia non supera il confine del Rubicone, al massimo arriva sino ad un riconoscimento in àmbito diocesano: dal quale possono essere partite sollecitazioni e raccomandazioni in quel di Bologna, senza per questo permettere al giovane Giuseppe Antonio Barbari di essere cooptato nel circolo riservato, ristretto e geloso dell’aristocrazia felsinea.
Se anche si fosse trattato, pure per il Nostro, di una «nobiltà acquistata», era pur sempre appunto quella di un piccolo paese per cui la sua famiglia non ne riceveva lustro alcuno in un contesto come quello bolognese.
Alla sua famiglia restava soltanto la piccola gloria da spendere in casa, a tutto proprio esclusivo vantaggio nei rapporti con i villici locali.
Barbari non risulta avvicinato dagli altri cittadini nobili di Rimini che operano culturalmente a Bologna. Almeno non ci sono tracce che possano documentare affinità intellettuali fra questo personaggio isolato socialmente e ‘politicamente’ rispetto agli altri conterranei che sembrano non curarsene affatto.
Appare illuminante il dato che uno dei più informati tra gli studiosi riminesi, l’ecclesiastico e nobile ad un tempo, Giuseppe Garampi [2] nel 1757 chiedesse notizie al proprio maestro Giovanni Bianchi (Iano Planco) su «un tal Giuseppe Antonio Barbari di Savignano», di cui non aveva «giammai avuta notizia alcuna», partendo da alcune lettere ritrovate da lui stesso a Roma.
Garampi era allora, come aveva scritto lui stesso a Bianchi il 24 marzo 1751, Prefetto dell’Archivio «Secreto Apostolico Vaticano»: su tale lettera si veda la mia storia dei Lincei riminesi.
Barbari appare legato solamente all’ambiente intellettuale universitario felsineo. Non è per nulla inserito all’interno di quel mondo dei potenti che dalla loro posizione sociale possono trarre garanzie di appartenenza pure alla sfera culturale che quel mondo esprime, costruisce e garantisce. Ogni nobile, anche il più ignorante, poteva contrabbandarsi come dotto grazie alla sua posizione sociale. Non succedeva il contrario, cioè che un dotto povero fosse elevato socialmente al ceto aristocratico. Ovvio, tutto ciò, si potrebbe obiettare. Non tanto, se pensiamo che poi col passare del tempo si cominciano a diffondere le idee dell’eguaglianza naturale fra tutti gli uomini, che sono alla base della cultura illuministica. (L’ovvio è l’oppio del popoli.)
Un altro riminese invece è notissimo in Bologna, negli stessi anni in cui vi arriva Barbari. Si tratta di Lodovico Tingoli (1602-1669).
Nelle Memorie imprese e ritratti de’ Signori Accademici Gelati di Bologna (Manolessi 1672), alle pp. 308-313 si legge la biografia di Lodovico Tingoli (che citiamo non seguendo l’ordine espositivo originale).
Suo padre Pompeo era cavaliere «e concorse la nobiltà materna ad ornarlo di luce». La madre Maddalena Rossi apparteneva ad una famiglia «tra le più cospicue» di Rimini.
«In Bologna e nel Collegio de’ Nobili [3] succhiò il primo latte delle lettere umane. Adulto apprese in Roma gli studj delle Scienze, e della Filosofia, e della profession legale».
A Roma si trovava allora suo zio mons. Cipriano Pavoni (maestro di camera di Paolo V), che diventa vescovo di Rimini alla fine del 1619 (20 novembre). Quindi il soggiorno romano di Lodovico è anteriore a questa data.
«Il genio libero, che lo portò agli studi, e alle muse, l’allontanò cresciuto negli anni dalla servitù della Corte. E’ fama che sotto il Pontefice Urbano perdesse la congiuntura dell’onor della Porpora, ricusando l’impiego di Cavaliere inviato nell’Inghilterra, a cui lo destinava il Pontefice. […] Il Genio dei suoi studi medesimi non lo distrasse però in guisa ch’ei non si vedesse seguace di Pallade, ancorché armata, e ch’ei non facesse comparir uniti que’ sì discrepanti attributi di letterato, e guerriero».
Tra i commilitoni «s’acquistò il titolo del Santo, e del Cappuccino dell’Armata».
«In Rimini non giunse forestiere, che non volgesse il piede verso la soglia della casa del Tingoli».
«Amò poco la prosa: ma sormontò il grado commune nell’eccellenza della Poesia». (A proposito di Tingoli poeta, Carlo Tonini scrisse alle pp. 187-188 della sua Storia di Rimini dal 1500 al 1800, VI, parte seconda: «Peccato, che non si tenesse esente dai difetti del secolo corrotto!».)
Fu aggregato alle più importanti accademie, tra cui quella degli Incogniti di Venezia, fondata nel 1630 da Gian Francesco Loredano [4].
Ed appunto ne Le glorie degli Incogniti (Venezia 1647) leggiamo di Lodovico Tingoli: «[…] negli arringhi pacifici assiso nel seno delle prime Accademie d’Italia coltivando gli Allori di Pindo n’ha riportato la fama d’uno de’ più eccellenti Poeti di questo secolo» (pp. 317-318). Si ricorda anche che, nelle «ultime turbolenze di guerra», Tingoli ha «dato altissimi saggi non meno d’ardimento, e di coraggio, che di prudenza, e di giuditio», mostrando «la virtù Civile congiunta alla Militare nel più sublime grado di perfettione, che si possa desiderare da’ Mortali in un soggetto degno dell’amore di tutti i cuori». (L’esemplare de Le glorie esistente in Gambalunghiana, proviene dalla biblioteca personale di padre Francesco Maria Banditi il quale lo lasciò a quella dei Teatini riminesi.)
Tra gli Incogniti c’è un altro riminese, Sebastiano Bonadies, medico e naturalista, la cui biografia leggiamo (pp. 400-403) nelle ricordate Glorie veneziane [5].
Lodovico Tingoli fu autore con Filippo Marcheselli, de I cigni del Rubicone (Bologna 1673).
Filippo Marcheselli (1625-1658), figlio di una sorella di Tingoli, fu principe dell’Accademia riminese degli Adagiati.
Questo Filippo Marcheselli (1625-1658) va detto seniore per distinguerlo dal Filippo Marcheselli juniore che era figlio di Ginevra a sua volta figlia di Lodovico Tingoli e di Lucretia Belmonti.
Ginevra Tingoli era moglie di Giovanni Battista Marcheselli.
Filippo Marcheselli juniore fu vice Custode della Colonia arcadica del Rubicone, come recita un testo in sua memoria (1711, Biblioteca Gambalunghiana segn. 11.MISC.RIM.XII.4).
Torniamo a Lodovico Tingoli. Circa la sua famiglia, dopo aver detto che suo padre Pompeo (morto nel 1616) era figlio di un Giulio Cesare scomparso nel 1582, precisiamo che Lodovico ebbe un fratello Carlo defunto nel 1668, a sua volta padre di Pietro Maria (+1674) e Domenico (+1716). [6]
Passiamo infine al ruolo di Lodovico Tingoli nella società culturale felsinea.
A. Nelle Memorie dei Gelati, a pag. 216 a proposito di Giovan Francesco Bonomi si legge che questi fu amico di Tingoli. La figura e le idee di Bonomi richiedono un discorso a parte che facciamo nella pagina n. 3. Il patrocinio d’Epicuro (1681) di Giovan Francesco Bonomi.
B. Nel 1668 esce a Bologna presso Giovanni Recaldini un volume intitolato «Il Giornale de Letterati di Bologna», con dedica a Lodovico Tingoli («fò lecito di dedicarlo a V. S. Ill.ma, che è un gran Letterato, così vengo a conformare il Dono a Personaggio cui lo Presento», scrive l’editore-tipografo Recaldini). Il volume contiene i primi otto numeri dell’omonimo «Giornale» romano. Anche questo argomento obbliga ad un discorso a parte (vedi pagina n. 4, Il «letterato» e la Scienza).



Note
1 Cfr. A. BATTISTINI, Aldrovandi a Cappellini: quattro secoli di cultura a Bologna, «Quadricentenario della parola "geologia". Ulisse Aldrovandi 1603 Bologna», a cura di G. B. Vai e W. Cavazza, Argelato (BO), 2004, p. 63. Questo testo è già cit. in altra pagina del sito «Riministoria», nel testo della relazione presentata agli «Studi romagnoli» 2004: cfr.
http://www.webalice.it/antoniomontanari1/studi/2004/barbari.sr.2004.rel.997.html.
2 Questa parte su Giuseppe Garampi si legge estesamente nella pagina http://digilander.libero.it/antoniomontanari/lui/937.barbari.html.
3 Il Collegio dei Nobili era retto dai Gesuiti.
4 Cfr. A. Montanari, Rapporti culturali e circolazione libraria tra Venezia e Rimini, «Riministoria», http://www.webalice.it/antoniomontanari1/arch.2004/arch4/spec/936.venezia.html.
5 Nel profilo di Bonadies, che si era laureato a Padova in Filosofia e Medicina «con meravigliosa felicità d’applausi», e che è detto «poeta di molto grido» (p. 402), si definisce Rimini «Città nobilissima della Romagna» (p. 401). Si annunciano tra gli altri scritti «Vari Discorsi e Lettioni Accademiche». Bonadies fu anche accademico degli Adagiati riminesi. La biografia di Bonadies è cit. da G. Mazzuchelli nei suoi Scrittori d’Italia, II, III, 1762, pp. 1538-9. Mazzuchelli ricorda anche il matrimonio di Bonadies con Faustina Ippoliti, e la morte avvenuta il 18 maggio 1659. Di quest’ultima notizia, Mazzuchelli si dichiara debitore con Giuseppe Garampi. Sebastiano Bonadies era figlio di Girolamo e di Violante Battaglini.
6 Questi dati sono ricavati da carte dell’Archivio di Stato di Rimini, AP 731, Archivio Storico Comunale, Famiglia Tingoli. Per altre notizie, cfr. il testamento di Lodovico Tingoli del 14 luglio 1743, notaio Nicolò Righetti, in copia ms. in due fogli del 5 novembre 1646, in Fondo Gambetti, Miscellanea manoscritta riminese, fasc. 2041, e relativa scheda Gambetti n. 30, fascio 92.

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