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il Rimino - Riministoria

«Vaghezza, o follia» d’amore: Caterina Vizzani
da «Contro il volere del padre»
Diamante Garampi, il suo matrimonio,
ed altre vicende riguardanti la condizione femminile nel secolo XVIII

Una vicenda d’amore dai contorni opposti a quelli finora considerati, e dagli esiti drammatici, è narrata nella Breve storia della vita di Catterina Vizzani Romana che per ott’anni vestì abito da uomo in qualità di Servidore la quale dopo varj Casi essendo in fine stata uccisa fu trovata Pulcella nella sezzione del suo Cadavero. Lo scritto è ricordato comunemente tra le opere scientifiche composte dal medico e poligrafo riminese Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775) [vedi nota 1]. La classificazione non è arbitraria, perché in quelle pagine Bianchi racconta un suo interessamento alla vicenda in qualità d’esperto di Anatomia, materia che sta insegnando all’Università di Siena proprio mentre avviene il caso narrato (nel 1743: lo scritto appare l’anno successivo).
Se ricerchiamo però il significato più nascosto dell’intervento di Bianchi, e lo colleghiamo all’impianto strutturale della Breve storia, ci accorgiamo che il testo rappresenta soltanto un’occasione narrativa utilizzata non per compilare una pagina di storia della Medicina, ma qualcosa di diverso che, nella sua essenza, riguarda molto poco le argomentazioni anatomiche; e che ci permette utilmente, invece, di ricostruire alcune costumanze sociali legate al tema della condizione femminile nel secolo diciottesimo.
Bianchi spiega che Pietro Isacchi di Arezzo è l’autore di una prima ricognizione del cadavere della giovane, in base alla quale comunica a Planco di aver rilevato la verginità della fanciulla, dotata di «un imene bellissimo». Bianchi a questo punto chiede che siano asportate alla ragazza «le Parti della Generazione», per inserire l’imene stesso della Vizzani in una sua raccolta la quale ne comprende «diversi altri che in Siena di diverse Vergini di diversa età ho ritrovati». Il suo atto anatomico si riduce a questa semplice richiesta, mentre sul cadavere di Catterina si esercitano «alcuni giovani dello Spedale», che «furtivamente per soverchia curiosità» le aprono il ventre «col pretesto, dissero, che potesse esser gravida».
Tutte le altre spiegazioni presentate nella Breve storia, come contorno a questi dati essenziali, sono più una preziosa fonte di informazioni per i posteri, che materia di analisi autoptica. Di rilevanza documentaria ai fini storici, è l’osservazione che il ritrovamento dell’imene garantisce sulla verginità della defunta, «siccome tutti i valenti Notomisti sanno»; e che la normalità della sua clitoride smentiva quanti ritenevano la cosa impossibile per le seguaci di Saffo.
Sotto il profilo medico, quindi, non c’è nulla di più di questo accertamento obiettivo ed inoppugnabile che la ragazza non aveva mai avuto commercio carnale alcuno con un uomo. La conclusione non è un gran risultato sotto l’aspetto dell’indagine scientifica, non essendo lo scritto di Bianchi una perizia, ad esempio, per una causa di beatificazione. (L’esempio non appaia ardito, come vedremo in appresso.)
Se confrontiamo la Breve storia con altri scritti anatomici di Bianchi, notiamo la grande differenze che intercorre tra questa narrazione e le opere in cui egli esamina problemi ed offre risposte sul piano dello studio delle patologie. Per la Vizzani, i particolari sottolineati da Planco non sono altro che una constatazione di due elementi, la verginità da una parte e l’omosessualità dall’altra, che ineriscono solamente alla psicologia ed all’analisi dei comportamenti sessuali. L’insistito accenno alla verginità della ragazza serve a sottolineare la sua appartenenza alla schiera delle «Donzelle di Lesbo», con un’adesione totale all’amor saffico, e senza alcun tentennamento o pentimento, al punto che l’operetta planchiana potrebbe far la felicità di scrittori dediti alla letteratura erotica.
Se l’Anatomia è la ricerca delle cause delle malattie (e delle loro fatali conseguenze), non credo che fra i dati patologici possa rientrare la verginità come causa di morte, se non in un senso puramente ideale (e direi ‘romantico’). La ragazza passa a miglior vita per un colpo d’arma da fuoco, sparatole a tradimento, a causa del suo tenace schierarsi fra le «Donzelle di Lesbo». La meccanica del fatto nel rapporto tra la causa (amor saffico) e l’effetto (morte della giovane), e la dinamica degli eventi (omicidio per nulla preterintenzionale, stando al racconto di Bianchi), ci portano lontano da uno studio di tipo medico, per cui escluderei del tutto la Breve storia dal catalogo delle opere scientifiche di Bianchi, nonostante le osservazioni che fanno da contorno alla narrazione principale. (Ciò che è secondario, nell’impianto di un’opera, non può ovviamente prevalere su ciò che è fondamentale, nella valutazione critico-storica che se ne dà.)
A confermarmi in questa mia opinione, è il confronto con un altro scritto celebre di Bianchi, la Storia medica d’una postema nel lobo destro del cerebello, anticipata nella dissertazione svolta il 28 maggio 1751 nell’Accademia dei Lincei riminesi [vedi nota 2] rifondati dallo stesso Planco sei anni prima: si tratta dell’esame anatomico riguardante un bambino di nove anni, il contino cesenate Giambattista Pilastri, morto «ex Apostemate in lobo destro Cerebelli». I modi espressivi dei due scritti sono completamente diversi, perché del tutto differenti sono le loro esclusive finalità. La Storia medica relativa al contino Pilastri ha un suo sostanziale interesse scientifico (rilevabile anche attraverso le polemiche che essa suscita). La Breve storia della Vizzani ha uno scopo letterario, dimostrabile chiaramente dalla lettura dell’incipit che riporto per intero:

Strani veramente e incredibili oltremodo sono talora gli appetiti umani massimamente ne’ fatti d’Amore; per la qual cosa niuno meravigliar si debbe, se altri per sola udita d’amoroso foco talvolta cotanto siasi acceso, che per varie e rimote contrade sia andato vagando per vedere di giugnere in fine al possedimento della disiata cosa. Così non è meraviglia, se talora di questo medesimo foco per tante vie altri resti così gagliardamente che ne a condizione, ne a parentado, ne a sesso perdoni, sì veramente che a quello appetito che più in grado gli è possa soddisfare.

Il racconto impostato da Bianchi con queste parole, sembra introdurre ad una novella degna della giornata quarta del Decameron, ove «si ragiona di coloro li cui amori ebbero infelice fine». Ma il tono usato da Bianchi non ha nulla di doloroso, come incontriamo invece nei versi cantati alla fine della stessa giornata da Filostrato («Lagrimando dimostro...»). Il registro è differente, anche se lo scopo è lo stesso rispetto a quello dichiarato nell’introduzione della medesima giornata quarta, dove con la citazione della vicenda di Filippo Balducci e del figliuolo, si fa consistere l’Amore in una «forza di natura». Su questa stessa linea è anche il prologo alla prima novella della giornata terza, relativo agli «appetiti» sessuali che non possono esser soffocati ponendo sul capo di una giovane la benda bianca ed indosso una nera cocolla.
Bianchi non poteva non ricordare anche l’ammaestramento che, da una vicenda dell’Inferno dantesco ambientata proprio in Romagna [vedi nota 3] , gli arrivava direttamente attraverso le parole di Francesca, «Amor, ch’a nullo amato amar perdona», dove si mostra quel legame con la morte che troviamo pure nel racconto della Vizzani. Catterina è vittima essa stessa, e quasi eroina di una vicenda simile a quella che Dante, pur con gli accorgimenti compassionevoli del caso (il suo svenimento nella parte finale del canto quinto), ambienta nel luogo della dannazione eterna. Nello stesso luogo, il Decameron colloca la vicenda di Nastagio degli Onesti dalla quale, con l’apparizione nella pineta di Classe, la «ravignagne donne» traggono l’ammaestramento ad essere «più arrendevoli a piaceri degli uomini», come in realtà «furono, che prima state non erano».
Il ritratto della ragazza che Bianchi delinea, sembra proprio ispirato dalla lezione di Boccaccio, che invita a considerare il «piacere» come componente irrinunciabile dell’esistenza. Planco fa del suo personaggio una creatura che «grandi disastri ha sofferti, e in fine la morte medesima crudelmente ha incontrata», a dimostrazione «di quanto mai strani siano gli appetiti umani».
Accantonerei per un attimo la questione dell’omosessualità che Planco compendia in quell’aggettivo «strani» con cui definisce «gli appetiti umani», e prenderei in considerazione soltanto la fedeltà ad Amore di Catterina, così come Bianchi la espone, per vedere nella ragazza morta a Siena qualcosa di più di un semplice oggetto da sezione anatomica, come solitamente si fa.
Per completare il ritratto della Vizzani, Bianchi dice di voler fare «vedere non piccioli segni di costanza, i quali con moltissima follia in questa Fanciulla andavano congiunti». Viene da osservare che la «moltissima follia» di cui egli parla, non si presenta a noi come un concetto di carattere medico, ma semplicemente quale espressione indubbiamente popolare e nello stesso tempo dotata di letteraria dignità usata come dotto richiamo alla tradizione narrativa o poetica, per compendiare tutta la vicenda della ragazza, dalla prima scoperta della sua tendenza alla decisione di travestirsi da uomo, perseverando sino alla fine che le giunge per colpa di un prete, con la cui nipote Catterina era fuggita. Il prete aveva posto sulle loro tracce dei messi che, ritrovata la coppia, ingaggiano un duello: Catterina depone la propria arma da fuoco, ma viene egualmente colpita.
Durante il ricovero allo Spedale, la Vizzani confida il suo stato di «femmina, e pulcella» alla Castalda delle Monache della Concezione di Siena, suor Maria Colomba, alla quale era stata affidata. Catterina chiede che il segreto sia rivelato soltanto dopo la propria morte, «acciocché in abito femminile» la vestissero, ponendole sul capo una ghirlanda come era costume per le «Pulcelle». Quando la ragazza spira, a venticinque anni circa di età, e dopo otto «impiegati in abito da uomo sempre vestendo», il suo corpo è esposto in Chiesa: il popolo, scrive Bianchi, «da tutta la Città accorreva per vederla, massimamente ancora perché alcuni d’ordine religioso pretendevano che per aver serbata con tanta costanza castità con gli uomini fosse Santa».
E’ inevitabile pensare al ser Ciappelletto del Boccaccio: «Il santo frate che confessato l’avea [...] fatto suonare a capitolo, alli frati ragunati in quello mostrò ser Ciappelletto essere stato santo uomo». Così come il trasvestimento di Catterina, può richiamare una scena delle giornata seconda, novella terza: «Alessandro, posta la mano sopra il petto dell’abate, trovò due poppelline tonde e sode e dilicate, non altramenti che se d’avorio fossono state, le quali egli trovate e conosciuto tantosto, costei esser femina, senza altro invito aspettare, prestamente abbraciatala, la voleva basciare».
Il travestimento di Catterina coinvolge due piani. Quello psicologico, con «un maschile portamento, e un libero parlare». E quello fisico: «Anzi per parere uomo da vero un bel Piuolo di Cuojo ripieno di cenci s’era fatto, che sotto la camiscia teneva, e talora, ma sempre coperto a suoi Compagni per baldanza di soppiatto mostrava». L’aspetto parossistico della vicenda di Catterina, è che con un Cirusico per due volte si dichiara affetta da un mal venereo, e finge ovviamente di assumere i rimedi consigliati. In sintonia con questo atteggiamento, alle lavandaie che invece le interrogavano perché vedevano le sue camicie imbrattate «come quelle delle Giovani Donne a certa stagione», Catterina rispondeva che ciò procedeva «da piccolo male, che per amor di donne gli si era appiccato».
Nel riassumere la confessione della giovane alla Castalda delle Monache di Siena, Bianchi adopera un tono di leggerezza e tolleranza (quasi di complicità narrativa), proprio per completare il divertimento letterario di una novella, e non per comporre un trattato scientifico.
Catterina aveva voluto sempre amare donne, e non aveva mai ceduto a nessun uomo, «come pare, che la natura delle Giovani Donne inclini». La natura: essa, in questo caso, come nella vita comune, sembra consistere nel gioco dialettico fra l’intelligenza (che qui porta al mascheramento di Catterina), e quelli che Bianchi definisce gli «appetiti umani» in fatto d’Amore, sulla scia di Boccaccio il quale nel Decameron parla di «naturali», «carnali» e «concupiscibili appetiti», oltre che ricorrere talora al nudo sostantivo senza l’accompagnamento di alcun aggettivo per indicare lo stesso concetto.
Commentando che non doveva «destar meraviglia» il comportamento tenuto da Catterina a causa del suo «amoroso foco», Bianchi dimostra di considerare lecito ogni atto erotico, compreso quello di chi come Catterina si dichiara seguace di Saffo, e delle altre «Donzelle di Lesbo», in contrasto con i dettami della Religione. Non «giudica e manda», non condanna al fuoco eterno, come l’ossequio alla legge morale della Chiesa avrebbe richiesto.
Tale comportamento guida Catterina alla morte, a cui arriva senza alcun eroismo, ma soltanto per la viltà d’un sicario che la colpisce mentre lei si era già volontariamente disarmata. Forse questo è il particolare più commovente, da cronaca popolare, tra quelli assemblati da Planco nella Breve storia che, per acquistare dignità di testo scientifico, presenta alla fine un’aurea massima di Bianchi stesso: «nella Notomia, nella sperimentale Filosofia, siccome in ogni altra scienza di fatto non con l’autorità, ma col far vedere le cose in realtà si dee procedere».
Forse è questo breve passaggio, oltre alla prognosi azzeccata sulla morte di un altro innocente ragazzo ferito nella sparatoria, che ha convinto gli studiosi a considerare lo scritto sulla Vizzani un testo scientifico. Che il suo autore considerava un’«operetta [...] ripiena di osservazioni particolari, e non così ovvie» [vedi nota 4].
Di recente, il dottor Stefano De Carolis dopo aver attribuito alla Breve storia il significato di «importante esempio del modus operandi planchiano», ha osservato infine (con perfetta intelligenza del testo) che «l’insistita curiosità con cui Planco ricostruisce la storia di Catterina Vizzani ricorda la sua poco nota attività giovanile di scrittore di novelle boccaccesche» vedi nota 5].
Sembra possibile considerare prorogata nel tempo questa attività giovanile, davanti agli esiti letterari della Breve storia che non è beninteso una novella, ma ne ha soltanto la struttura, nella quale Bianchi poi inserisce i dati oggettivi finora considerati, sul piano medico ed anatomico: ciò dà all’opera il carattere di exemplum anomalo rispetto a tutta l’altra produzione sia letteraria sia scientifica di Planco. (Al suo tempo, l’attività giovanile di Bianchi come autore di novelle, non fu sottovalutata: un suo tenace avversario che si nascondeva sotto lo pseudonimo di Tiburzio Sanguisuga Smirneo scriveva infatti nell’Utile Moni-torio, Lugano 1748, che il Boccaccio stesso non le avrebbe «conosciute dalle sue diverse», anche se poi Planco «le ha giudicate degne di fuoco», cfr. pp. 28-29 e 54.)
A De Carolis va poi il merito di aver studiato per primo gli interventi censori esercitati sullo scritto planchiano. A Firenze, l’autorità ecclesiastica si oppone alla sua pubblicazione (p. 55), «a cagione della parola piuolo che si mentova, e della descrizione che si fa del mal francese che quella donna diceva d’avere». Bianchi si difende sostenendo che non poteva togliere «una cosa di fatto, ed essenziale alla storia, e che non era né contro la religione, né contro i buoni costumi». A Venezia, il Revisore per l’Inquisizione contesta ancora quel «piuolo». Bianchi decide di stampare a Firenze, ma stavolta sorgono altri ostacoli (è sfavorevole anche il Nunzio apostolico). A questo punto Planco rinuncia alle autorizzazioni, e affida al tipografo Andrea Bonucci un’edizione alla macchia, su consiglio di Giovanni Lami, l’editore delle Novelle letterarie.
Il fatto strano che è la Breve storia esce sì con una «falsa data» (cioè il falso luogo) come tutte le opere clandestine che si rispettino, ma reca pure il nome di un tipografo realmente esistente a Venezia, Simone Occhi. Dalla documentazione restataci degli archivi personali di Bianchi, non è possibile ricavare altre notizie: le uniche lettere di Simone Occhi conservate da Planco sono di un periodo successivo (1759-63). Ma, a confermare l’ipotesi che il nome di questo tipografo veneziano sia stato apposto a sua insaputa, ci sono il Catalogo delle opere planchiane (dove la Breve storia è l’unico testo di cui siano precisati soltanto luogo e data, senza il nome dello stampatore), ed un’epistola di Antonio Cocchi [vedi nota 6].
Il Catalogo è costituito da vari articoli apparsi nel 1758 sulle Novelle letterarie di Firenze. Lo stesso Catalogo ha una piccola differenza rispetto a quegli articoli. Infatti, se nelle Novelle (col. 379) leggiamo che la Breve storia «fu però per verità stampata in Firenze», nel successivo Catalogo questa frase è stata cancellata. Sia l’articolo sia il Catalogo rimandano al numero 44 delle Novelle letterarie del 30 ottobre 1744 dove appare una notizia dell’operetta, in cui se ne sottolinea la «vaghezza dello stile», e si scrive: «Questa Relazione è scritta dal Signor Bianchi in istile Toscano assai Boccaccevole». La notizia sottolinea il «caso raro» di questa «Fanciulla Romana, la quale per sola vaghezza, o follia» aveva amato «altre fanciulle sue pari».
Divagando dall’Anatomia alla letteratura erotica, Planco tratta sì del tema della libertà sessuale, ma non riesce tuttavia a fare di Catterina Vizzani una figura capace di reggere da sola tutto il peso della sua vicenda senza la esclusiva, quasi ossessionante, annotazione relativa alla sua verginità ed alla sua «costanza» e «follia» d’amore. Planco, nelle sue pagine, racconta e riassume i vari aspetti della vicenda della giovane romana con una visione morbosa, sia riferendo i primi approcci anatomici di Pietro Isacchi (con le sue osservazioni sull’«imene bellissimo» della poveretta), sia citando quella «soverchia curiosità» dei «giovani dello Spedale» che «furtivamente» le aprono il ventre «col pretesto [...] che potesse esser gravida».
C’è tutto un universo narrativo, in questo scritto, che dipende da qualcosa d’altro che dalla vicenda personale (e storica), dalla dignità umana e sociale della ragazza. Ci sono i presupposti anatomici, c’è la diversione letteraria. Si va dal cadavere nella sua freddezza ed immobilità, al personaggio da commedia teatrale, l’Innamorata stravagante che corre verso la morte, e la raggiunge per errore. Il che non ne fa un’eroina da romanzo, così come l’eccessiva Scienza medica che si accanisce contro di lei, le toglie oltre alle pudenda anche il pudore, cioè il rispetto del suo decoro femminile, facendone quasi una fonte non direi di riso, ma di sorriso ironico, soprattutto con quel particolare del «piuolo», innocente in sé rispetto alla malizia dei censori, ma capace di rovesciare nell’economia del racconto tutto il senso del dramma che avvolge i sogni di Catterina, le sue avventure giovanili e la morte precoce.
L’imitazione letteraria fa dimenticare a Bianchi il senso del tragico insito nella narrazione stessa. La persona diventa personaggio, perdendo quei requisiti di verità che appartengono al suo essere reale. Tuttavia, lo scritto ha un suo segreto significato eversore, rispetto alla morale religiosa corrente, che forse fa guardare con sospetto all’attività di Iano Planco, il quale qualche anno dopo, nel 1749, pubblica un altro trattato che nega le armonie del sistema aristotelico-tomista, parlando dei mostri esistenti in natura [vedi nota 7].
Sia la storia della Vizzani sia questo trattato attirano su Bianchi le ostilità del clero riminese, che culminano in un episodio del 1752, legato ad un’altra dissertazione accademica dei Lincei planchiani, dedicata all’Arte comica. E’ l’ultimo venerdì di Carnovale. Prima di leggere questo suo discorso, Bianchi fa esibire una giovane e bella cantante romana, Antonia Cavallucci. Anche la sua piccola storia può insegnarci qualcosa sulla condizione femminile del tempo.

NOTE AL TESTO

1. Su G. Bianchi, cfr. A. MONTANARI, Modelli letterari dell’autobiografia latina di Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), «Studi Romagnoli» XLV (1994, ma 1997), pp. 277-299; ID., Giovanni Bianchi (Iano Planco) studente di Medicina a Bologna (1717-19) in un epistolario inedito, «Studi Romagnoli» XLVI (1995, ma 1998), pp. 379-394; ID., Due maestri riminesi al Seminario di Bertinoro. Lettere inedite (1745-51) a Gio-vanni Bianchi (Iano Planco), «Studi Romagnoli» XLVII (1996, ma 1999), pp. 195-208. Cfr. pureID., «Lamore al studio et anco il timor di Dio», Precetti pedagogici di Francesco Bontadini commesso della «Spetiaria del Sole» per Iano Planco, suo padrone, «Quaderno di Storia n. 2», Rimini 1995.

2. Cfr. la mia comunicazione (di prossima pubblicazione), svolta nel Convegno forlivese su Le Accademie in Romagna dal ‘600 al ‘900 (maggio 2000), ed intitolata Tra erudizione e nuova scienza. I Lincei riminesi di Giovanni Bianchi (1745).

3. Resto generico, in questa affermazione, non scrivo che la vicenda è «ambientata a Rimini», per non dover accennare alle rivalità di campanile, inutili ai nostro scopi, sul luogo dove si ipotizza sia accaduto il fattaccio di sangue narrato da Dante.

4. Cfr. gli anonimi Recapiti del dottore Giovanni Bian-chi di Rimino, Pe-saro 1751, p. IV. Sulla paternità dei Recapiti, cfr. le Novelle letterarie di Firenze (tomo XIX, 28 lu-glio 1758, col. 480). La parola «recapito» ha il significato di considerazione, reputazione, stima.

5. Cfr. S. DE CAROLIS, La produzione pubblicistica su questioni mediche, in «Giovanni Bianchi, Medico Primario di Rimini ed archiatra pontificio», a cura di A. TURCHINI e dello stesso S. DE CAROLIS, Verucchio 1999, p. 57. L’argomento di tali novelle è affrontato in A. MONTANARI, La Spetiaria del Sole - Iano Planco giovane tra debiti e buffonerie, Rimini 1994, dove è riportato «un suggerimento per una no-vella boccaccevole», inviato a Planco dal fratello frate Girolamo (pp. 41-44); si veda ib. anche alla p. 50 (per la biblio-grafia sull’argomento). La Spetiaria del Sole è il negozio del padre di Giovanni, Girolamo Bianchi, farma-cista (1657-1701). Sulla fortuna del genere letterario delle novelle boccacciane nel 1700, con in particolare riferimento alla loro circolazione a Bologna ad inizio di secolo, cfr. U. M. OLIVIERI, La novella, «Manuale di Letteratura Italiana. Storia per Generi e Problemi», a cura di F. BRIOSCHI e C. DI GIROLAMO, Torino 1995, p. 467. (Grazie al gentile suggerimento del cit. dottor De Carolis, posso ricordare che Planco incaricò un corrispondente romano, il collega Francesco Antonio Marcaccini, di procurargli «la fiameta del Bocaccio», il che avviene, ed un’introvabile «vita di Dante», che ritengo di poter identificare nel Trattatello in laude di Dante, sempre del Boccaccio: cfr. lettere del 29 aprile e del 24 maggio 1724, FGLB.)

6. Nella lettera di Antonio Cocchi a Planco del 17 ottobre 1744, da Venezia (indicatami dal cit. dottor De Carolis), leggiamo: «Con mio sommo piacere ho ricevuto il bel dono della sua leggiadra Istoria in questa città ove io l’aveva molto cercata indarno dall’istesso Occhi che nega averla stampata, onde tanto più ho piacere ammirando la potenza di V. S. Ill.ma che sa superare tutti gli ostacoli». In precedenza, il 2 giugno dello stesso anno, Cocchi aveva scritto a Bianchi: «Ho avuto molto piacere di sentire dalla lettera di V. S. Ill.ma de’ 25 maggio che ella sia per pubblicare l’istoria molto rara della vergine fintasi uomo per tanti anni con singolare ardire e costanza, il cui cadavere avventurosamente cadde sotto il coltello tanto sagace di V. S. Ill.ma» (FGLB). Simone Occhi stampa nel 1777, l’Orazion funerale in onore di Iano Planco, composta dal suo allievo Giovanni Paolo Giovenardi, e da questi recitata a Rimini nel Palazzo pubblico il 5 dicembre 1776. Secondo Domenico Paulucci, la Breve storia fu tradotta in inglese e pubblicata a Londra nel 1751. Cfr. in Memorie di uomini illustri, SC-MS. 356, BGR.

7. Cfr. De monstris ac monstrosis quibusdam, Venezia 1749. E’ una dissertazione lincea (28 febbraio 1749). Di essa tratto ampiamente nella cit. comunicazione Tra erudizione e nuova scienza.

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Antonio Montanari


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