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il Rimino - Riministoria

LA FILOSOFIA LIBERATA
GIUSEPPE ANTONIO BARBARI (1647-1707)
CONTRO IL DOGMATISMO ARISTOTELICO:
«NON PIÙ COSE ALLE PAROLE, MA LE PAROLE ALLE COSE, SI COME È CONVENIENTE, SI ADDATTANO»

Trascrizione da L’Iride
Giuseppe Antonio Barbari
L’iride, opera fisicomatematica
Manolessi, Bologna 1678

[pp. I-XI]
«Crederemo noi, ch’egli [Aristotele] approvasse che quelli li quali si vantano della di lui famiglia, fermandosi sù le parole de suoi testi, e quietandosi alle ragioni, che ivi si portano, senza dubbitarne punto, senza essaminarle prestassero loro una cieca credenza? Filosofi per certo migliori, anche al giudicio d’Aristotele stimar si devono que’ moderni, li quali per disingannare tanti giurati mantenitori delle opinioni di chi che sia, hanno egregiamente mostrato, come posta sotto il piè ogni minima autorità si può ostinatamente, anzi si deve Filosofar sù l’opere della Natura. Si era in verità à poco à poco, ne secoli andati, ogni scienza ridotta ad un arte di contradire; avevano li professori di quelle degenerato in meri sofismi, essendosi per loro scopo principale previsto il diffendere, ò confutare in qualche maniera, e senza riguardo alla verità del fatto, ogni conchiusione, che loro venisse proposta; intenti, e deliberati di voler sostenere per vero, e condannare, come falso ogni concetto, che tale fosse stato giudicato dal loro maestro, à bella posta gli occhi ben chiusi tenevano per non vedere in Natura cosa, che a’ sentimenti loro ripugnar potesse. Al nostro secolo anche per altri capi memorabile, e glorioso si deve finalmente il vanto di haver restituita la libertà alla Filosofia, e resala di serva, e schiava ch’ell’era dominante, e padrona. Al famosissimo Galileo, e altri bellissimi spiriti Italiani, e stranieri, dobbiamo la gloria di haver liberata e sciolta la Natura stessa da que’ ceppi strettissimi, ne’ quali per l’adulazione, ò più tosto scempiaggine di moltissime delle sentenze d’Aristotele, e d’altri ell’era stata imprigionata, e infelicemente ristretta. Alla natura delle cose adunque, alla verità del fatto, all’esperienze sensate (io dico) resituito il proprio luogo di base, e fondamento d’ogni umano discorso, di già vediamo à quella servir gl’intelletti, e accomodarsi le specolazioni de moderni Filosofanti, di modo che non più cose alle parole, ma le parole alle cose, si come è conveniente, si addattano. […]
Non abbiamo tantosto lasciato di farci condurre ciechi volontarij à colui, quale per nostra guida avevamo eletto, che subbito aperti un pò gli occhi, senza punto esaminare qual cammino intraprendiamo, dovunque ci par vedere qualche vestigio di strada ci vogliamo inoltrare; anzi pure ove non è strada alcuna quivi cerchiamo avanzarci, e allora solamente pensiamo di far buon cammino, quando ò al contrario delle strade tessute da gli altri, ò dove altri non ha già mai posto il piede, intraprendiamo à battere nuovi, e disastrosi sentieri. Mà ben conoscono alcuni più accorti, che l’esperienze sensate, e le apparenze corrispondenti à qual si sia cognizione non possono essere in tanto gran numero, che bastino per conchiuderne la necessità; ove per il contrario un solo accidente, una sola apparenza, alla quale sodisfar non si possa, dà sofficiente motivo, perche resti convinta di falsità. Quindi è, che non ardiscono questi alzar di facile, com’altri, fabriche mirabili di nuovi sistemi in Natura, sconvolgendo, per così dire, l’universo sossopra, ò pure à tali contigenze ridotti, si protestano, che non per verità certe e necessarie, mà come verisimili, e probabili posizioni intendono di spacciare le loro fantasie.
Libera adunque da ogni inconveniente, e ottima per ogni capo sarà una terza maniera di filosofare, se non ributtaremo, ne [né] approveremo alla cieca le speculazioni, e le fatiche degli antichi, mà facendone essame diligentissimo, cimenteremo li loro detti qualche volta falsi, con l’opere della Natura sempre veritiera. In tal guisa avverà, che e quelli, e queste insieme serviranno alle nostre inquisizioni, mentre ci mostraranno le sentenze de Filosofi precedenti d’onde abbiamo a prender le necessarie esperienze, e a qual uso servir ci dobbiamo delle già trovate al nostro proposito; e le sperienze vicendevolmente ci appriranno molte volte li sensi più chiusi, e ci faranno perfettamente intendere le sentenze più oscure di quei Savij, e in oltre ci assicuraranno della verità, e falsità di esse.
Propostoci un quesito cercaremo, che cosa ne abbiano determinato li migliori Filosofi; osservaremo sopra quali ragioni, sù quali esperienze sian le loro opinioni fondate, indi conforme, che le trovaremo ben assodate, e stabilite, ò pur al contrario di poca sussistenza, e fermezza, concordi, ò pur discordi da altri naturali esperimenti, liberamente giudicaremo della verità, e falsità di quelle; e simili, ò vero contrarie alle loro poneremo le nostre conchiusioni; succederà in questa maniera, che noi con utilità nostra indicibile verremo ad haver per compagni, e come aggiutanti de nostri studii quegli uomini dottissimi; e facendo delle loro dottrine con accuramente essaminarle, quel conto, che siamo tenuti, arrichiremo di preziose cognizioni il nostro intelletto, senza che prestiamo loro quella ferma credenza, o cieco assenso, che à gli oracoli divini solamente si deve.
E quanto al nostro vero fine sopranaturale, e chi non vede, che una tale Filosofia toglie di mano il coltello, leva l’occasione del precipizio à quei pazzi furori, e empij insieme, de quali, altri perche troppo credono à Platone, ad Aristotele, à Democrito, ad Epicuro, non credono à sufficienza à Christo, e al Vangelo; altri prorompono in qualche bestemmia, allora che pensando aver molto bene inteso tutto ciò, che v’hà possibile à sapersi in Natura vogliono troppo temerarij divisare, giusta quello, che portan li loro poco sani intelletti de gli arcani astrusissimi di nostra Fede? Se leviamo ogni momento, ogni forza all’autorità di qualsivoglia Filosofo; se riduciamo tutta la nostra scienza à riconoscere non solo il suo principio, ma il progresso, e l’avanzamento ancora dalle apparenze sensate, vi sarà chi non capisca, che da tali principij, e da tale scienza non possono aver gli uomini argomento alcuno, e molto meno dimostrazione perfetta circa le cose insensibili, e sopranaturali, quali solo sono ogetto della Fede; e che però alle verità rivelateci, e a forza di miracoli massimi, e inumerabili a noi persuasi, col sangue di tali, e tanti Martiri, e con l’approvazione d’infiniti uomini per la prudenza, integrità di vita, e dottrina inarivabile confirmate, dobbiamo divota soggezione, che le creda, e non una temeraria curiosità, che la ricerchi?
Ah che non si ritrova, e non si è già mai trovata quella scienza, che orgogliosamente deffinita abbiamo per una cognizione certa, e evidente delle cose, per mezzo delle loro cause ottenuta. Quei dottissimi ancora de quali doppo tanti secoli vive gloriosa memoria, se penetraremo al fondo li sentimenti loro, evidentemente ci apparirà, che una sola minima conchiusoncella non hanno saputo, non hanno potuto veramente dimostrare. In somma egli è verissimo, che Iddio Mundum tradidit disputationi eorum, ut non inveniat homo opus quod operatus est Dominus. Anzi io credo a punto, che a gl’huomini sia stato nelle Matematiche concesso un tal saggio della vera scienza, perche resti abbattuta, e rintuzzata la superbia di coloro, quali non conoscendo il pochissimo, ò niente, che sanno, si persuadono di possedere una ben distinta cognizione de secreti più reconditi della Natura, e dell’Autore di quella. Un saggio solamente, come dissi, e questo ben imperfetto della vera scienza, anche nelle Matematiche noi abbiamo, e non è da dubitarne; poiche oltre ogn’altra opposizione, che addur si potrebbe, ecco, che se delle astrazioni loro proprie le ritogliamo per congiungerle à qualche ogetto degli esistenti in Natura, perdono tantosto quella loro necessità, e seguendo la parte più debole alla incertezza delle naturali nelle scienze medie declinano. Mà, vaglia il vero, la Filosofia, e in particolare la naturale, cioè quella, che tratta degli enti sensibili, e delle affezioni, e cause loro; non hà già cominciato a questi tempi ad esser trattata a forza d’esperimenti sensati, perche se bene quelli li quali ultimamente hanno professato tale scienza avevano perduto insieme l’essercizio, e l’uso delle sperienze; nulladimeno li più antichi, e li Principi delle Sette quali di proprio capo filosofarono, e sopra quelle posero il fondamento delle loro opinioni. Anzi, se io non m’inganno, la sola Analogia, che scontrarono paragonado gli effetti men cogniti, e l’opere di Natura più astruse con altre più manifeste, dirà loro in tutto, ò per la maggior parte il modo di sciogliere ogni quistione, e render qualche ragione di ogni accidente sensato.
Et in ciò forsi consiste tutto il più profondo di ogni nostra scienza, e non è rimasta a noi altra maniera d’investigare le incognite cagioni, e di essaminar le già trovate ragioni di qual si sia effetto di Natura, se non ricorriamo all’Analogia di qualche altro simile accidente più cognito. Applichiamo allora (anche senza avvedercene alcuna volta, perche questo è un metodo innato in noi, e inseritoci nell’animo dalla Natura) con qualche proporzione al primo caso men noto, e se troviamo, che da quella posizione posta per vera ne sieguono gli effetti quali si sperimentano in Natura, concludiamo d’haver trovata una buona ragione, e per il contrario siamo certi d’haver malamente filosofato allora quando non s’accordano con quello, che il senso ne mostra le conseguenze le quali sieguono necessariamente la nostra posizione. In tal caso però andiamo investigando ancora, ò in quel medesimo sogetto, ò pure in altro una qualche simile Analogia, e alcune volte ne componiamo, quando ci torna commodo, di avolte insieme sin tanto, che ci troviamo aver fabricata una posizione, che sodisfacia a tutti gli accidenti, e sensate apparenze. Vero è, che anche questo metodo non è bastante per procacciarsi una cognizione scientifica, e infallibile di quello, che ci habbiamo proposto, perche sarebbe necessario dimostrare, provar concludemente, che in nisuna maniera diversa da quella, che noi proponiamo salvar si potessero tutti gli accidenti, e apparenze di quel sogetto. Mà una tal dimostratione è impossibile, già che infinite sono le posizioni imaginabili quali tutte potrebbero servire a tal effetto, e di quì aviene che molte volte ne incontriamo diverse, le quali perfettamente sodisfanno al nostro bisogno, e però il nostro intelletto dubbioso allora, e irresoluto più che mai, non avendo onde appigliarsi più all’una, che all’altra di tali posizioni, riconoscendole tutte per possibili, si avede, che di quel sogetto aver non puote scienza alcuna, ne meno probabile. Che se mi sarà richiesto perche non essendo ne meno questo modo di filosofare, abile a farci conseguire una cognitione certa, e scientifica delle cose, lo preponiamo nulladimeno a quello delli Aristotelici d’oggi dì; dirò, che almeno in una tal maniera si cerca di dimostrare alcune cose men note, e più dubbie per mezzo d’altre più cognite, e più certe, e non aviene a noi, come à quelli, che le premesse sono sempre ò più, ò egualmente incerte, e incognite, come le conchiusioni espresse alquanto differentemente, in modo, che ogn’uno, che dubbita delle conchiusioni, hà ragione di dubitar maggiormente delle premesse. Vedasi il Chiaramonti gran Filosofo Peripatetico nella sua Fisica Risolutiva, ecc.
In fine, che questo e non altro sia stato il metodo, col quale hanno filosofato Platone, Aristotele, Democrito, Epicuro, e gli altri migliori Filosofi, oltre à quello, che essi hanno lasciato scritto in diversi luoghi dell’opere loro, e ciò che ne ha detto Galeno, gran fautore di questa dotrina, basterà per conoscerlo evidentemente, e restarne pienamente persuasi, considerare con diligenza, qual ci sia delle quistioni, che hanno trattate, e andar investigando, onde abbiano dedotti li principij fondamentali, sopra de quali si reggono quelle smisurate fabriche delle loro specolazioni, e trovaremo per certo, che la sola Analogia predetta ha prestato tutto il fondamento.
Cercavano li Peripatetici, (e sia per modo di essempio) quali si fossero le cause di quell’accidente, che è comunissimo à tutti gli enti sensibili, dico della mutazione, che tuttogiorno in quelli scorgiamo, e incontratisi ad oservare nelle cose artificiali un simile accidente, mà di natura più cognita, perche la mutazione di tale dipende da gli uomini, quali ora le fabricano, ora le distruggono, notorno, come al farsi delle dette cose artificiali vi concorrono, primo l’artefice, che le fabrica, cone il Fabro, lo Scultore; secondo, la materia, della quali si fanno, come ferro, pietra, ò legno; terzo, la forma, ò figura della cosa da fabricarsi, e questa à apunto è cagione, che questo pezzo di legno sia una Statua, mentre il rimanente dell’altro nella figura solamente differente resta un tronco, ò pure un Scanno per quanto in somma, e per ultimo vi concorre il fine, cioè, ciò che muove l’artefice à far qualunque opera, come per ornamento delle case, e de tempij, si fanno le Statue, per sedere aggiatamente lo Scanni. Applicarono adunque li Peripatetici tutto ciò che nelle cose artificiali avevano osservato alle naturali, e trovando, che non ripugnavano in modo alcuno, mà più tosto mirabilmente concordavano li conseguenti di una tal posizione con gli effetti, che sperimentiamo in Natura, conchiusero, che per render ragione della mutazione delle cose naturali si dovessero assegnare per cause esterne l’efficiente, e il fine; e per interne, e costituenti due cose componenti li sogetti medesimi, delle quali per similitudine sudetta, una chiamarono materia, e forma l’altra.
E per à punto di qui è, che nelle quistioni più difficili, che circa questa materia, e queste forme vanno gli Aristotelici tutto il giorno facendo, come per ispiegare la dissidenza, che dalla materia hanno esse forme, e la deduzione di questa dalla potenza di quella (come dicono) sono forzati ricorrere alle mutazioni accidentali, e alla dipendenza, che hà dal marmo la forma della Statua, da ferro la forma della Spada. Anzi Aristotele medesimo nel settimo della Metafisica, volendo sciogliere la contradizione, che trovava frà il suo assioma ex nihilo fit, e la generazione delle forme (le quali è pur necessario si faccino di niente, altrimenti s’incorrerebbe in un processo in infinito) conchiuse con una similitudine delle cose artificiali, dicendo, che non fit aes neque sphera, sed aenea sphera.
Insomma à me pare, che tutta la nostra scienza, e più evidentemente quella parte, che naturale si addomanda, sia sopra tali Analogie, e similitudini fondata; e che il sapere consiste nel poter dar ad intendere à se stesso, ò spiegar ad altri con qualche essempio ben noto, e sensate esperienze, ciò che occultamente si fà in Natura; e che in sostanza non abbiamo altra certezza, ne altra evidenza, che vere siano tali posizioni, se non quella, che loro si deve, perche sodisfano à tutte le apparenze proprie del proposto soggetto, e non ripugnano à niuno di tanti altri accidenti, che si osservano in Natura.»
[p. 31]
«Chi non fosse à pieno sodisfatto di questa dottrina, e vi trovasse cose da apporre veda di questa materia Renato des Chartes, e il Gassendi nelle Meteore, e il P. Grimaldi Giesuita nella sua Fisicomatesi De Lumine Coloribus et Iride».

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Giuseppe Antonio Barbari


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