Antonio Montanari

Galeotto di Pietramala, cardinale "malatestiano"

Premessa e dedica ad Ezio Raimondi.

Queste pagine voglio dedicare, con la gratitudine di antico allievo, alla memoria di Ezio Raimondi (scomparso il 18 marzo 2014), consapevole dei miei limiti e del valore degli insegnamenti ricevuti in anni lontani nel tempo, ma sempre presenti in quella zona che va dalla psiche alla memoria per non dire della coscienza. La quale cerca onestamente di rammentare il valore delle esperienze culturali compiute con Maestri come Raimondi, Paolo Rossi, Gina Fasoli, Giovanni Maria Bertin, Luciano Anceschi, Enzo Melandri.
Era il Magistero bolognese di una grande stagione culturale, nella prima metà degli anni Sessanta, in cui il nostro desiderio di imparare trovava la risposta dialettica e dialogica in quei Maestri.
L'argomento di queste mie pagine riguarda l'ultima stagione del Trecento, la grande e drammatica stagione che avverte gli echi petrarcheschi, ed intravede le immagini di un umanesimo che, al contrario della politica e delle armi, intende unire l'Europa, recuperando l'eredità latina e rilanciandola come occasione di analisi storica e culturale.
In un antico saggio (1956), che resta fondamentale ancor oggi, «Quattrocento bolognese: università e umanesimo», Raimondi va alla ricerca di un'identità specifica dell'umanesimo universitario cittadino, chiedendosi se esso abbia avuto «una fisionomia problematica più o meno individuata», e se sia stato «indipendente dagli organismi della cultura tradizionale».
La risposta che Raimondi offre, va oltre l'aspetto che potremmo definire enciclopedico (come serie di nozioni nuove da diffondere tra studenti e/o studiosi), ma soprattutto s'incentra nella questione metodologica che l'autore compendia in modo aperto, problematico, ovvero non sentenzioso o dogmatico: «Queste pagine sono nate dal proposito di dare una risposta» alla domanda sulle caratteristiche dell'umanesimo universitario bolognese.
Raimondi conclude: «Qualora la prospettiva che è venuta emergendo corrisponda sul serio a una storia di uomini impegnati e quasi costretti a vivere nel loro tempo, è doveroso concludere che quell'umanesimo è esistito…».
Quindi, ecco la lezione di Raimondi, da tener presente quando si legge e soprattutto si scrive. La documentazione raccolta permette di dare risposte a domande mai poste in precedenza, ed obbliga a rimettere in discussione presunte verità pigramente ripetute.
Questo significa soprattutto che nessuno possiede la verità storica in tasca per grazia divina; e che le prospettive si costruiscono attraverso ipotesi di lavoro che non sono stravaganze da salotto, ma strumenti operativi che è facile tralasciare, o vilipendere, se si pretende di sentenziare soltanto in base a quello che si sa tra le proprie mura domestiche, con finestre ridicolmente chiuse sul divenire del mondo e della cultura.
(Cfr. E. Raimondi, I sentieri del lettore, I, Da Dante a Tasso, a cura di A. Battistini, Bologna 1994. Le citazioni sono riprese da p. 240.)

Una postilla.
In un volume di scritti di Ezio Raimondi (Tra le parole e le cose, ottobre 2014, pp. 218-219), dove sono raccolti i suoi interventi per la rivista bolognese «IBC. Informazioni commenti inchieste sui beni culturali», si legge questo passo (pubblicato nel 2010): «... la memoria non è un deposito di oggetti e di immagini ma un processo critico, una volontà di comprendere che sia giudizio, confronto, conoscenza, valutazione. Il passato rivive perché lo si interroga e lo si indaga, perché le sue tracce illuminate dalla ricerca della verità giovino a definire il presente e il suo farsi senso, evento, ragione di vita».
Aggiungo questa citazione per due motivi.
Essa non è strettamente legata al tema di queste pagine, ma rimanda per contrasto alla città in cui vivo, dove lo studio della Storia non è per nulla inteso come «confronto».
E poi perché mi conferma nell'opinione sopra espressa su quanti in questa stessa nostra città pretendono «di sentenziare soltanto in base a quello che si sa tra le proprie mura domestiche, con finestre ridicolmente chiuse sul divenire del mondo e della cultura».


1. Introduzione. Per merito del nonno.

A ventidue anni, l'11 settembre 1378, il protonotario apostolico Galeotto Tarlati di Pietramala è nominato cardinale da papa Urbano VI, eletto l'8 aprile dello stesso anno.
Il pontefice ha delegato ai Signori d'Italia e d'Europa la scelta dei candidati alla porpora. Il nome di Galeotto è suggerito da suo nonno materno, Galeotto I Malatesti.
Sua figlia Rengarda Malatesti nel 1349 ha sposato Masio Tarlati di Pietramala, la cui famiglia ha governato Arezzo dal 1321 al 1337. Masio è Magistrato municipale di Rimini dal 1346 al 1347. Nel 1347, sempre a Rimini, Masio è fatto cavaliere dal re d'Inghilterra.
Galeotto I Malatesti è personaggio ben conosciuto nel mondo ecclesiastico, come dimostra la sua visita al nuovo pontefice Urbano VI. Partito da Rimini il 29 maggio, Galeotto I Malatesti si trattiene a Roma sino alla fine di luglio dello stesso 1378. Più che una semplice visita, quella di Galeotto I è una speciale missione presso i cardinali francesi dissenzienti che contestano l'elezione di Urbano VI. E che poi il 20 settembre eleggono l'antipapa Clemente VII, ovvero il cardinale Roberto di Ginevra, che si trasferisce ad Avignone nel giugno dell'anno successivo.
Roberto di Ginevra è ben noto in Romagna. Come cardinal Legato è stato inviato da Gregorio XI, il predecessore di Urbano VI, nel 1376 con un esercito di Bretoni a combattere nel Bolognese. Nel 1377, il 17 gennaio, Gregorio XI torna a Roma e promuove una feroce repressione delle rivolte nei territori della Chiesa: domata Bologna, i Bretoni terribilmente saccheggiano Cesena, dove si registrano quattromila vittime.


2. Urbano VI, nel segno della spada.

Papa Urbano VI, al secolo Bartolomeo Prignano, delegando ai Signori d'Italia e d'Europa, la scelta dei candidati cardinali, dimostra subito la sua linea politica: essere non tanto il successore di Pietro nell'obbedienza al Vangelo, quanto un capo politico che vuole gestire il potere, favorendo non soltanto i potenti ma soprattutto la propria famiglia, in particolare il proprio nipote Francesco Prignano, soprannominato Butillo, che in spagnolo significa «pallido».
Per realizzare il suo progetto non guarda in faccia a nulla, e ricorre ripetutamente all'omicidio di chi considera nemico od ostacolo ai suoi progetti. Di questi tragici eventi spesso ci si dimentica guardando solamente alla nascita del Grande Scisma che domina la scena ecclesiastica tra 1378 e 1418, per porre fine al quale la Chiesa accende i roghi in nome di Cristo.
Il 6 luglio 1415 a Costanza, dove si tiene quel celebre Concilio per dare alla Chiesa un solo Papa contro i tre in circolazione dal 1409, è bruciato vivo Giovanni Huss, seguace di Wycliff e capo di una rivolta autonomistica in Boemia che impensieriva l'imperatore Sigismondo. Huss era stato invitato a Costanza con un salvacondotto dell'imperatore. Fu attirato nella trappola dai padri conciliari che, non paghi del rogo su cui era stato giustiziato, fecero riesumare le sue ceneri per disperderle al vento come ultimo oltraggio.
Il 29 maggio 1416 lo stesso destino è riservato ad un seguace di Huss, Girolamo da Praga. Ne scrive Poggio Bracciolini in una celebre lettera a Leonardo Bruni. Girolamo è vissuto per 350 giorni «in durissimis carceribus, in sordibus, in squalore, in stercore, in compendibus, in rerum omnium inopia». La sua reazione costringe ad ascoltarlo: era venuto al concilio spontaneamente per scolparsi: «Addiderat inseuper se sponte venisse ad concilium ad se purgandum».
Girolamo difende Giovanni Huss. Nulla egli aveva sostenuto contro la Chiesa, dichiara: «ait nihil illum adversus Ecclesie Dei statum sensisse». Secondo Girolamo, Huss aveva soltanto lottato contro l'abuso dei preti, contro la superbia, il fasto e la pompa dei prelati: «sed adversus abusus clericorum, adversus superbiam, fastum et pompa prelatorum». La descrizione della morte di Girolamo tra le fiamme si sintetizza in queste parole: «vir praeter fidem egregius».


3. Il grande macello di cardinali.

Se non scandalizza tuttora la vicenda di Girolamo da Praga, ancora più orribile in punta di Diritto di quella del suo maestro Huss, certo si può omettere di ricordare come essa nasca da uno spirito di intolleranza che pone le sue salde radici proprio nell'operato di Urbano VI.
Il quale nel luglio 1385, si legge in Gregorovius, fa uccidere a fil di spada il Vescovo dell'Aquila Stefano Sidonio, poi abbandonato come un cane lungo la via.
Lo aveva fatto torturare per sapere qualcosa circa una congiura che gli era stata descritta come progettata contro di lui, dal cardinale Tommaso Orsini di Manoppello. Le ferite subìte e l'età rallentano Sidonio nel viaggio a cavallo da Nocera verso Salerno, che il Papa ha intrapreso portandoselo dietro, per rifugiarsi a Genova. Urbano VI sospetta che il suo procedere lento sia una simulazione per un tranello.
Ed Urbano VI non ascolta la voce della coscienza neppure dopo l'omicidio, lasciando Sidonio senza una sepoltura.
Altre vittime indirette della politica di scontro del Papa con il re di Napoli, sono quelle provocate da quest'ultimo, ai danni di quei sacerdoti che, obbedendo al Pontefice, dovettero credere nell'interdetto di quest'ultimo ai danni del sovrano.
Nel giugno 1383 Urbano VI aveva lasciato Roma per muovere contro il nuovo re di Napoli Carlo III d'Angiò Durazzo.
Il cardinale Bartolomeo Mezzavacca, Vescovo di Rieti, giunto a corte invitato dal re ormai da un anno (assieme ad altri due religiosi…), cerca di impedirgli l'ingresso nel Regno di Napoli. Per questo il 15 ottobre successivo è privato dal Papa del titolo cardinalizio, e sottoposto a processo. Il 7 gennaio 1384 Mezzavacca è trasferito a Napoli con una galera, con altri tre cardinali, Donati, Cogorno e Altavilla. I primi due finiscono uccisi a Genova
Urbano VI il 24 maggio 1384 è a Nocera presso il nipote «Butillo». A Nocera in estate arriva anche Mezzavacca che poi torna a Napoli con alcuni cardinali. Il 21 gennaio 1385 Mezzavacca confessa sotto tortura le colpe sue e di altri avversari del Papa.
Nella primavera seguente Mezzavacca prepara un documento contro Urbano VI, firmato anche da Pileo da Prata (arcivescovo di Ravenna), Landolfo Maramaldo (che non si muoverà da Napoli), Luca Gentili e Pancello Orsini.
A Genova nella notte del 15 dicembre 1386 sono cinque le sentenze di morte eseguite per gli accusati di quella congiura. Sono gli Arcivescovi di Taranto (Marino del Giudice) e di Corfù (Giovanni d'Amelia), ed i cardinali di Genova (Bartolommeo di Cogorno), San Marco (Ludovico Donati) e Santo Adriano (Gentile di Sangro), «personaggi tutti de' più dotti e cospicui del sacro Collegio», osserva Ludovico Antonio Muratori.
Soltanto il loro collega inglese Adam Easton si è salvato, grazie all'intervento del proprio re Riccardo II che ne aveva chiesto la liberazione.
Molti anni dopo, morto Urbano VI, un testimone racconta che essi «in carcere iugulati, et in stabulo equorum clam noctu sepulti fuerint», come riferisce Gobelino Persona (1358-post 1418, autore del «Cosmodromium» edito nel 1559 a Francoforte), a cui era stata fatta la confidenza.
Dietrich von Niem, scrittore della cancelleria pontificia, «presente non poté reggere a quell'orrendo spettacolo. Niun d'essi secondo lui confessò. Furono rimessi nelle carceri coll'ossa slogate, a patir fame e sete e gli altri malori della prigionia». Così leggiamo in Muratori.
Tanta ferocia del potere papale nasce pure dal fatto che i cinque cardinali uccisi hanno tentato una fuga da Genova, come racconta Gregorovius.
Quella ferocia rispecchia il clima in cui viveva la Chiesa. La fine della cattività avignonese avviene nel 1377 con il predecessore di Urbano VI, Gregorio XI (Pierre Roger de Beaufort, eletto il 30 dicembre 1370, incoronato il 5 gennaio 1371). Trasferitosi a Roma il 17 gennaio 1377, muore il 28 marzo 1378.
Appena giunto in Italia Gregorio XI promuove una feroce repressione delle rivolte nei territori della Chiesa. Domata Bologna, dai Bretoni è terribilmente saccheggiata Cesena, dove «circa quattromila persone rimanessero vittima del barbarico furore», come si trova negli «Annali» muratoriani. Il massacro di Cesena è opera del Cardinal Legato Roberto di Ginevra, capo di quei feroci Bretoni che, guidati da John Hawkwood (Giovanni Acuto), agiscono in Romagna, per reprimere la ribellione popolare provocata dalle prepotenze dei suoi soldati. E Roberto di Ginevra il 20 settembre 1378 diventa l'antipapa avignonese Clemente VII.
La fine della cattività avignonese è però soltanto un fatto formale che non modifica una struttura ampiamente segnata da quella che Franco Gaeta definisce «la degenerazione burocratico-legalista» che allora si manifesta come avidità, fiscalità e «la pressoché diabolica mondanizzazione dell'istituto ecclesiastico».
La contestazione in nome della verità evangelica è affrontata a Costanza non con un collettivo «mea culpa» ma con quei roghi che restano simboli di un indirizzo non soltanto religioso ma pure culturale.
Negli anni successivi al Concilio di Costanza (1414-1418), la «coscienza di una decadenza politica e religiosa inarrestabile», come scriveva Cesare Vasoli, nutre la ribellione culturale che approda all'Umanesimo, con «un rifiuto radicale del passato cui doveva corrispondere l'instaurazione di altre forme di moralità».
Ma sul lungo periodo s'intravedono le fiamme in risposta alla predicazione di Tommaso Müntzer che ordinava di usare la forza «finché il fuoco arde», per non lasciar raffreddare il sangue sulla spada. L'esito è nel massacro dei contadini compiuto dall'artiglieria del cattolico duca di Sassonia.
Prima di quelle di Müntzer, ci sono le tragiche parole di Martin Lutero «Contro le bande brigantesche ed assassine dei contadini» (1525), con l'invito ai principi feudali ad usare spada e collera contro di loro: «Ammazzate, scannate, strangolate quanto potete…» (F. Gaeta, 1975). Prima ancora, il 23 maggio 1498, ci sono state le fiamme fiorentine per Girolamo Savonarola. Poi verranno quelle romane per Giordano Bruno, il 17 gennaio 1600.
Alla scheda: P. G. Fabbri, «3 febbraio 1377. Il sacco dei Bretoni».


4. Due ribelli in fuga.

Per F. A. Becchetti [«Istoria degli ultimi quattro secoli della Chiesa», I, Fulgoni, Roma 1788, pp. 119-121], l'ideatore della congiura contro Urbano VI è Pietro Tartaro, Abate di Montecassino e cardinale di Rieti.
Il comitato dei ribelli ad Urbano VI, secondo Muratori, è più vasto di quanto solitamente si racconta, e comprende altri personaggi, oltre i cinque cardinali uccisi a Genova ed il loro collega inglese liberato dal Papa.
Di certo due ribelli particolari sono il nostro Galeotto da Pietramala e Pileo da Prata, il ricordato arcivescovo di Ravenna: «amendue conoscendo, a che pericolo fosse esposto, chi solamente cadeva in sospetto presso un Pontefice sì violento, se ne fuggirono da Genova…», scrive sempre Muratori.
Eugenio Gamurrini, nell'«Istoria genealogica delle famiglie nobili toscane et umbre», definisce Galeotto di Pietramala «ornato di una finissima prudenza, e di un coraggio incomparabile, per il che si era reso in posto di gran stima, e desiderabile a tutti i Principi».
Pileo da Prata «era savio, e malizioso, e ardito molto», si legge nella «Cronica» di Piero di Giovanni Minerbetti, dove di Galeotto si sottolinea che «era molto giovane».
Il Cardinal Galeotto non compare sulla scena. È troppo saldo il legame politico tra la Chiesa (fosse essa di Avignone o di Roma) ed i Malatesti, per procurargli fastidi. È troppo acuto il giovanissimo porporato per fare mosse avventate e pericolose non soltanto nei riguardi della sua persona fisica, ma pure per la famiglia a cui apparteneva la madre.
Pileo e Galeotto scappano perché il papa li accusa d'averlo voluto uccidere, avvelenandolo: «E questo disse Papa Orbano in Consistoro in loro presenza, essendovi tutti gli altri cardinali, e molti altri uomini presenti. Laonde li detti cardinali si fuggiro da Genova per paura della furia sua».
Il papa li scomunica, privandoli del cappello e di ogni beneficiio, «e fece questo predicare in tutte le Terre d'Italia, e altrove». Saputo questo, i due cardinali partono dalla Savoia e vanno ad Avignone da Papa Clemente, «e fu fatto loro grande onore da lui, e da tutti gli altri cardinali, che con lui erano».
Secondo Panvinio, Urbano VI aveva restituito il cardinalato a Galeotto «in gratiam sororis suae», moglie del proprio nipote Francesco Frignano.
Di questa moglie, sorella del cardinale, non si hanno tracce. Tre sono le sorelle di Galeotto di Pietramala: Elisa morta nel 1366, Taddea che si sposa nel 1372, e Caterina che s'accasa (forse) nel 1393. Quindi potrebbe essere Caterina ad esser coinvolta nella vita sentimentale di Francesco «Butillo». Il quale però poi prende per moglie Raimondina del Tufo, mentre Caterina va a nozze con Nicola Filippo Brancaleoni.
Per Francesco Prignano si legge pure che a Napoli rapì da un monastero «una Monaca professa, di nobile condizione, e la tenne seco nel suo appartamento» («Storia universale», XIII, p. 210).


5. «Il sanguinario cardinal di Ginevra Roberto».

Nel dicembre 1386 papa Urbano VI se ne va da Genova a Motrone, nel litorale di Pietrasanta. Alla vigilia di Pasqua 1387 entra a Lucca, restandovi sino al 22 settembre 1387. Con lui sono dieci cardinali.
Nel frattempo a Genova, in una stalla da cavalli, sono rivenuti nove cadaveri, cinque dei quali sono dei cardinali che il papa «avea tenuti lungamente e in misera prigione» per i contrasti, mentre gli altri quattro sono di grandi prelati. Questo leggiamo nella «Cronica volgare di Anonimo Fiorentino già attribuita a Piero di Giovanni Minerbetti» riedita nel 1915.
Dall'esame dei corpi, pare emergere che Urbano VI prima li fece imbavagliare, e poi sotterrare ancora vivi. Secondo altre testimonianze, li avrebbe fatti uccidere prima di farli sotterrare. Il papa si difende: volevano uccidermi.
Sulla famiglia a cui appartiene Bartolomeo di Pietramala, si legge nella stessa «Cronica»: «Aveano quegli da Pietramala, cioè quella famiglia lungo tempo signoreggiata con le loro ladronaie tutte quelle contrade, e molestate, e rubate, e guaste. Ma la verità era, che tutte le Castella, che tenevano, erano del Comune di Arezzo, e però le vollono i Fiorentini».
Un'altra notizia va sottolineata: nel 1385, «Bartolommeo di Mess. Magio di Pietramala a Firenze liberamente e se e le sue terre nelle mani del potere di Firenze rimette». I Tarlati nel 1335 avevano perduto il governo di Borgo San Sepolcro. Galeotto I Malatesti, il 7 luglio 1371, compra per 18 mila fiorini lo stesso Borgo San Sepolcro. Galeotto I versa la somma al fratello del papa Urbano V, quell'Anglic de Grimoard divenuto popolare come «Cardinale Anglico» quando è Legato pontificio in Italia tra 1368 e 1371, con il vicariato generale su Bologna e la Romagna dal primo marzo 1368, dopo aver retto il vescovado di Avignone (1362) e guidando dal 1367 quello di Albano.
Anglic de Grimoard compone nel 1371 la celebre «Descriptio civitatis Bononiensis eiusque comitatus». A fianco dell'Anglico a Bologna il 5 gennaio 1368, quando prende possesso della carica legatizia, troviamo proprio Galeotto I e suo nipote Pandolfo II Malatesti, figlio del di lui fratello Malatesta Antico Guastafamiglia.
Morto Urbano V nel 1370, l'Anglico segue il partito dell'antipapa avignonese Clemente VII (Roberto di Ginevra, 1342-1394), eletto il 20 settembre 1378, e passato alla storia per il massacro di Cesena con quattromila vittime, compiuto nel 1377 come Cardinal Legato (dal 1376) e capo dei feroci Bretoni che, guidati da John Hawkwood (Giovanni Acuto), agiscono in Romagna, per reprimere una rivolta popolare provocata dalle prepotenze dei suoi soldati.
«Il cardinale cominciò con l'arruolare al servizio della Chiesa le bande dei mercenari bretoni di Jean de Malestroit e di Silvestro Budes, che, rimaste senza ingaggi per la stasi nel conflitto franco-inglese, minacciavano allora di devastare la valle del Rodano e la stessa Avignone (maggio del 1376)» spiega il suo biografo M. Dykmans (DBI, 26).
Il fenomeno dei mercenari riguarda allora anche i Pietramala: «i capitani fiorentini di Arezzo si trovarono poi a dover fronteggiare le scorrerie e i saccheggi nei territori del vecchio contado da parte di bande di briganti coordinate e protette dalle stirpi signorili dell'Appennino, prima tra tutte quella dei Tarlati di Pietramala, ancora restie ad accettare l'egemonia fiorentina in quell'area» [A. Zorzi, p. 193].
Torniamo alla pagina di Dykmans: «I contingenti di venturieri, che il cardinale di Ginevra passò in rivista a Carpentras, ricevettero per due mesi uno stipendio di 31.000 fiorini complessivi; un nuovo contratto, stipulato nell'estate del 1376, prevedeva una condotta di sei mesi ed un soldo di diciotto fiorini mensili per ogni "lancia". Preparata in tal modo la spedizione, il legato mosse quindi dalla Provenza, attraversò il Delfinato, le Alpi, la Lombardia, e si presentò nell'Emilia alla testa del suo corpo d'esercito forte di circa 10.000 uomini, preceduto da una fama di selvaggia ferocia e di efficienza militare».
Nelle cronache bolognesi del tempo, si legge: «Come la cità de Zexena fuo metuda a sacomano e vituperata. 1377. Nota che del mese de febraro fuo comenzato uno romore in la cità de Zexena tra gli Bertoni e 'l popolo, i quali Bertoni erano soldati della Ghiexia. El chardenale de Ginevera [Roberto di Ginevra] era nella murata della dicta citade. Per la quale cosa fuoron morti de li Bertoni circha 400 huomeni e gli altri se ne fugino nella murata e mandono a Faenza per gli Inghelese che igli li desseno secorso. Ancora mandono per lo conte Alberigho da Barbiano, ch'era a Chunio con 5 lanze, a posta del marchese da Ferara. La qual zente, andata a Zexena, entrarono dentro per la murata e ucciseno molti huomeni, e molte femine sforzaron e puti picholi, e robaron tuta la citade. El popolo fugì alle mure e butavanse zoso del muro per schampare sua persona. E per questo modo remase la cità de Zexena vituperada».
Un'altra «Cronaca», questa volta riminese, è riassumibile in questo drammatico passaggio: «Chi uccideva, chi rubava, chi vituperava, e le belle femmine ritornava dentro, e tenevasele. Sicché non rimase né uomo, né femmina in Cesena. E pigliarono più di mille mammoletti, e mammolette, e poson loro la taglia. Poi si posero a rubare la Cittade, e con le carra mandavano a Faenza tutto il miglioramento, che lì era. Poi vendevano a i Forlivesi, a i Ravignani, agli Ariminensi, a i Cervesi tutto l'altro mobile. In breve a dì XV d'Aprile non vi era rimasto né grano, né vino, né olio, se no quanto vi addicevano i montanari. […] E così fu disfatta tutta la Terra; tutti i Religiosi e Religiose furono morti, presi e rubati. E vennero in Arimino circa otto mila tra piccoli e grandi, e tutti andavano mendicando per limosina…».
Osserva L. Tonini (IV, 1, pp. 205-206): se «Rimini rimase illesa» dalla tempesta politico-militare, lo so deve «alla prudenza, al potere, ed al merito di Galeotto». Dalla critica storica contemporanea, il sacco dei bretoni a Cesena è invece imputato a Galeotto I che «si trovò, isolato, in prima linea a difendere gli interessi ecclesiastici contro la lega fiorentino-viscontea. L'ospitalità alle truppe bretoni e il sostegno continuo garantito alla curia avignonese attirarono su di lui la pubblicistica avversaria che nel presentare la guerra contro i cattivi pastori della Chiesa come lotta di liberazione nazionale dal giogo della servitù straniera, finiva col dipingere il signore di Rimini come “gallicae tyrannidis defensor et pugil”».
Così scrive Anna Falcioni nella premessa al volume «La signoria di Galeotto Belfiore Malatesti (1377-1400)» (1999, p. XIII).
La sintesi più efficace di quel momento storico è in una frase che introduce il racconto degli eventi nella «Cronaca» riminese: «Odi la gran crudeltade de' Pastori de la Santa Chiesa». È lo stesso giudizio che esprime Muratori: per tutto quanto accadde, fu un «grande sparlare» contro i Ministri della Chiesa.
Sui feroci Brettoni leggiamo negli «Annali» muratoriani: «... un troppo orribile fatto succedette nella città di Cesena, che gran discredito diede all'armi pontificie. Avea quivi messa la sua residenza il sanguinario cardinal di Ginevra Roberto; la sua guardia era di Brettoni. Nel dì primo di febbrajo perché uno di questa mala gente volle per forza della carne da un beccajo, si attaccò una rissa. La disperazione avea preso quel popolo, perché i Brettoni, dopo aver consumato tutto il distretto, erano dietro a divorar anche la Città. Trassero a questo rumore i cittadini in ajuto del lor compatrioto, e gli altri Brettoni a sostener il loro compagno. Divenne perciò generale la mischia, e più di trecento di quegli stranieri rimasero uccisi. Il Cardinale pien di furore si chiuse nella Murata, e mandò per gl'Inglesi dimoranti in Faenza, che tosto corsero a Cesena, ed ebbero ordine di mettere a fil di spada quel misero popolo. Con dugento lance vi arrivò ancora Alberico conte di Barbiano, che era al servigio della Chiesa. Corsero costoro per la terra, e fecero ben quei cittadini disperati quanta difesa poterono, ma soperchiati dall'eccessivo numero di que' barbari, non poterono lungo tempo reggere all'empito, loro. Non vi fu allora crudeltà, che non commettessero i vincitori; fecero un universal macello di quanti vennero loro alle mani, senza risparmiare vecchi decrepiti, fanciulli, religiosi, ed anche donne pregnanti. Dalla loro sfrenata libidine niun Monistero di sacre Vergini andò esente; tutto in fine fu messo a sacco Chiese e case. Fu creduto che circa quattromila persone rimanessero vittima del barbarico furore; fuggirono quei che poterono; e l'Aucud, per isgravarsi alquanto da sì grave infamia, mandò un migliajo di Donne scortato fino a Rimini, ritenendo quelle, che più furono di soddisfazion di que' cani. Circa ottomila di que' miseri fuggiti si ridussero a Cervia e Rimini limosinando, perché spogliati di tutto. Grande sparlare che fu per questo de' Ministri della Chiesa. Ma né pur collo spoglio di Faenza e Cesena si saziò l'ingordigia di questi diabolici masnadieri».
Muratori ricorda che Bernabò Visconti «per maggiormente assodare nel partito suo e de' Fiorentini, Giovanni Aucud, e il Conte Lucio Tedesco da Costanza, diede a cadaun di loro in Moglie due sue Figliuole bastarde»
Di fondamentale importanza per comprendere l'evento cesenate e collocarlo nel contesto politico italiano, resta questa pagina di Gina Fasoli (1975): «Preoccupava particolarmente l'affermazione dell'autorità papale in Romagna; la formazione di un potere unitario e solido proprio in quei territori a cui da tempo si indirizzavano le aspirazioni politiche fiorentine e che comunque, finché erano divisi e discordi, offrivano molte possibilità di penetrazione e di sfruttamento. I timori ed i sospetti crebbero quando si profilò come imminente il ritorno della S. Sede da Avignore in Italia […]». Prima c'è l'alleanza tra Firenze ed i Visconti, poi l'opera per far ribellare la Romagna: «la repressione guidata dal cardinale Roberto di Ginevra al comando di reparti bretoni e francesi si scatenò e culminò nel massacro di Cesena (1377)».

[Continua.]

Antonio Montanari
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