Abbiamo già visto («Il sanguinario cardinal di Ginevra Roberto»), con Anna Falcioni (1999), che dalla critica storica contemporanea, il sacco dei bretoni a Cesena è imputato a Galeotto I che «si trovò, isolato, in prima linea a difendere gli interessi ecclesiastici contro la lega fiorentino-viscontea». In Pier Giovanni Fabbri, si legge: Galeotto Malatesti «fu accusato di non avere impedito la strage per ricavarne un vantaggio. Infatti agì poi come intermediario, ottenendo dal papa la sua fiducia e Cesena in vicariato apostolico». Fabbri ricostruisce accuratamente la vicenda (che inizia il 3 febbraio 1377), partendo dal «Caos» di Giuliano Fantaguzzi (1453-1521), «solerte raccoglitore di storia patria», oltre che ricco mercante cesenate. Fabbri contesta la versione dei fatti fornita da Fantaguzzi, secondo cui Cesena «fu la sola città che, in tutta la Romagna, accolse con reverenza ed animo lieto, e nutrì il cardinal da Ginevra, legato della Sede apostolica, insieme con tutto l'esercito dei Bretoni» («Hec sola urbs, in partibus Romandiolae, reverendum patrem dominum cardinalem Gebenensem, appostolice sedis legatum, cum homni exercitu Britonum reventer accepit, benigne fovit et letissimis animis acceptavit», p. 16). La fonte di Fantaguzzi è la «lettera che, qualche giorno dopo la strage [21 febbraio 1377], Firenze spedì alle dominazioni italiane per penna di Coluccio Salutati». Osserva Fabbri: «È difficile che una popolazione che vede arrivare sulle proprie terre un esercito, anche se amico, sia animata da contentezza e rinunci volentieri alle proprie risorse alimentari, ma a Coluccio premeva mettere in risalto la sorte toccata a chi aveva accettato di ospitare delle truppe sul proprio territorio. Secondo lui, i cesenati sopportarono quella presenza di buon animo [...]. Naturalmente non andarono proprio così le cose e fu certamente preceduto da segni di insofferenza lo scoppio di violenza che avvenne il primo febbraio 1377, quando i capi dei Bretoni si lamentarono presso il cardinale dell'aumento dei beni alimentari. Essi non avevano forse ancora ricevuto la loro paga e il cardinale, dimentico dei favori ricevuti dalla popolazione cesenate, diede licenza ai propri uomini di procurarsi gratis le cose a loro necessarie e dove più sembrava opportuno. Era come dichiarare legittimo il saccheggio ed i Bretoni si gettarono sulla preda. Che doveva fare quello sventurato popolo - si domandava il cancelliere fiorentino - se non prendere le armi e combattere in difesa dei propri famigliari e delle proprie sostanze? Si combatté per due giorni, da una parte per la brama del bottino, dall'altra per salvare le proprie cose. Poiché la schiera dei Bretoni non riuscì ad avere la meglio, fu chiamata da Faenza la truppa inglese, alla quale il cardinale da Ginevra procurò l'accesso nella città: il terzo giorno i cesenati furono vinti e per tutta la città trucidati come pecore, mentre i più forti resistettero, uccidendo e rimanendo uccisi». Ecco il testo di Fantaguzzi relativo al passo di Fabbri: «Quid facere miser populus? Quod ultimum erat: arma summit, et pro foris, famulis domi et fortunis suis potentissime dimicat. Biduoque continuo illi spe prede accensi, hii vero suarum defendendarum studio, ferociter pugnant, cumque Brittonum manus parum proficeret, nec tam atroci incepto aliquid occurrere conaretur, vocatur ad consumationem flagitii misera Faventia et Anglica cohors, quibus cum britonibus agregatis per opportunum locum, ad eodem domino Gebenense prebito accessu, dubium devotior an miserior populus die demum tertia superatur, passimque per totam civitatem peccorum more trucidantur. Dumque fortiores in ultima despectatione atrocissime pugnam conserunt, occidunt et occiduntur» (pp. 16-17). Aggiunge Fabbri: «Salutati non ricostruì lo svolgimento puntuale di quelle vicende belliche o perché non ne era ampiamente informato o perché gli interessava insistere sulla strage, il che fece seguendo i moduli classicheggianti delle mogli piangenti e moribonde sui corpi dei mariti uccisi ma anche insistendo su particolari che sapeva quanto toccassero i cuori, come la sorte toccata ai bambini. I lattanti erano strappati dalle braccia dei genitori e uccisi davanti ai loro occhi o con la spada o dopo essere stati lacerati o sbattuti contro le pareti o i sassi. Le madri gravide furono trafitte nel ventre con le spade dalla disumanità di quei barbari». Ecco il testo relativo di Fantaguzzi: «Scimus enim [...] uxores in piis lacrimis super virorum corpora, suum effundendo sanguinem, moribondas occubuisse, nec non in maxima crudelitate pueros lactantes a parentum miserorum sinu cum furore detractos et aut gladio, aut membrorum laceratione, aut abscixione ad parietes vel lapides factos, genitorum in occulis occidisse. Quis crederet pregnantium mulierum viscera plurimos, immanitate barbarica, ferrum in crudeliter impegisse?» (p. 17). Torniamo a Fabbri: «Le spose e le fanciulle furono violentate e fra di loro tante si diedero la morte per sfuggire quella vergogna. Chi si salvò, grazie al beneficio offerto dalla notte e dalla foreste vicine (la strage avvenne infatti al tramontar del sole), nudo, povero, aggravato dalle ferite, spogliato di tutte le proprie sostanze, andò a mendicare aiuto. Le donne che prima del tempo partorirono i loro figli fra luoghi impervi e sotto la violenza del freddo diedero alla luce bambini che dopo pochi vagiti morirono [Fantaguzzi, pp. 17-18]. Sedicimila furono i cesenati in fuga e cinquemila gli uccisi [«Voluit ac miser populus per circumstantia loca numero ultra quam sedecim - XVI - milia animarum in nuditate, luctu atque miseria suae devotionis ac obedientie sero penitus invidensque ultra quam quinque milibus occisorum» (p. 18)]». Prosegue Fabbri: «A quel punto, il cancelliere fiorentino introdusse un altro argomento e cioè che a Roberto da Ginevra, il due febbraio, secondo giorno di guerra dentro la città, era stato richiesto di cercare di concordare la pace fra la popolazione ed i soldati bretoni. Egli chiese ed ebbe cinquanta ostaggi, li rimandò indietro ingannando i cittadini con quel gesto e con le sue parole di pace [«Nec obmitere volumus quod, secunda die tam infelicis et infesti certaminis, miseri Cesenates eidem domino cardinali humiliter supplicarunt quod ad concordandum populum cum britonibus intendere dignaretur. Ipse autem benignum prebens auditum, quinquaginta civibus in obsides pro pacis firmitudine postulavit. Quibus confestim exhibitis, idem dominus cardinalis obsides restituit, sibique cure futuram pacem affirmans, hos infelicissimos cives verbis fuit ortatus. Qua spe deluxi, mox, die sequenti, in tam orrendum excidium incauti et nil tale verentes miserabiliter inciderunt» (Fantaguzzi, p. 18)]». Infine, osserva Fabbri, «Coluccio Salutati commentò che i responsabili dell'eccidio stavano cercando di dare alla popolazione cesenate la colpa di tutto quello che era successo, accusandola di ribellione, ma come avrebbero potuto - egli diceva - quegli sventurati cittadini organizzarsi in tal senso, quando vedevano che sulla loro città sovrastava il presidio inespugnabile che i Bretoni e gli altri mercenari avevano posto nelle due rocche?». «Sedicimila cesenati in fuga e cinquemila uccisi sono una cifra superiore alla realtà del tempo, nel quale è stato calcolato che la città ed il contado avevano una popolazione complessiva di quattordicimila abitanti, una parte lievemente maggiore dei quali residente in campagna». Qui Fabbri rimanda ad un saggio ai A. I. Pini [«L'economia di Cesena e del Cesenate in età malatestiana e postmalatestiana (1378-1504)», in Storia di Cesena, II. Il Medioevo. 2 (secoli XIV-XV), 1985], che «calcola 14.350 abitanti, 6640 in città e 7710 in campagna»]. «Sulle cifre dei morti e dei fuggitivi», prosegue Fabbri, «le opinioni dei cronisti del tempo sono contrastanti». Dal confronti della varie fonti, Fabbri trae questa conclusione: «[...] troviamo confermata nei mercenari la volontà di non lasciare nessuno vivo («intorno alla terra stavano a uccidere quelli che fugiano»), secondo gli ordini che gli inglesi avevano ricevuto e secondo il furore vendicativo dei Bretoni». Poi Fabbri scrive: «La cronaca malatestiana non si sofferma sulla crudeltà delle uccisioni: dice che furono uccisi tutti quelli che furono trovati. Parla delle morti per annegamento provocate nel tentativo di oltrepassare i fossati; come la cronaca senese dice che i mercenari inseguirono i fuggitivi, poi si diffonde sull'atteggiamento dei vincitori quando non avevano più da temere. Violentarono le donne, misero le taglie sui bambini, rubarono per la città. E qui la distinzione fra i beni saccheggiati di pregio e inviati a Faenza e quelli di minor qualità venduti alle città vicine di Forlì, Ravenna, Rimini e Cervia, ci dice che gli inglesi di John Hawkwood fecero il loro dovere di assassini, come aveva richiesto il cardinale, ma pensarono soprattutto a ricavarne un vantaggio. Il cronista non volle nascondere che, anche se gli abitanti delle città vicine furono affranti per la sorte toccata a Cesena, alcuni di loro non si fecero scrupolo di acquistare i beni saccheggiati». Possiamo concludere, per quanto riguarda Galeotto Malatesti da cui siamo partiti, con due passi di Fabbri. Ecco il primo: «Ottenuto da Galeotto Malatesti il denaro che i bretoni pretendevano secondo gli accordi di ingaggio, e che lo Stato della Chiesa non era stato in grado di corrispondere, i militari se ne andarono e la vita a Cesena ricominciò con il ritorno degli esuli. Possiamo immaginare le difficoltà di ripresa di una città ferita così profondamente. In quel momento Galeotto Malatesti poté presentarsi ai cesenati come il loro salvatore, perché il suo intervento finanziario aveva determinato l'allontanamento dei bretoni, e fu l'ultimo anello di una catena di eventi contrassegnata da una presenza forte dei Malatesti nella vita politica cittadina. Fino ad allora Cesena era stata in bilico continuo fra le varie possibili forme di assoggettamento alle potenze esterne, mentre dal 1377 ebbe inizio un periodo che si assestò di lì a pochi anni nella sostanza di una signoria concessa in vicariato ecclesiastico e che durò fino al 1465». In nota Fabbri elenca le fonti: il saggio di I. Robertson in «Cesena: governo e società dal sacco dei Bretoni al dominio di Cesare Borgia» (in «Storia di Cesena. II. Il Medioevo. 2 (secoli XIV-XV)», 1985, pp. 8-9 e pp. 23-25); P. G. Fabbri, «Una città e una signoria: Cesena nell'età malatestiana (1379-1465)», Roma, 1997, pp. 23-25. Ecco il secondo passo di Fabbri: «Nella cronaca quattrocentesca di Sozomeno da Pistoia i morti francesi erano ottocento ed era accreditato l'intervento pacificatore di Galeotto Malatesti, che avrebbe convinto il cardinale da Ginevra a perdonare i cesenati». Ovviamente Fabbri, nell'analisi delle fonti disponibili, esamina acutamente altri passaggi in cui appare la figura di Galeotto Malatesti, discutendo della sua politica nei confronti di Cesena. Merita di esser riportato questo passo dalla cronaca cesenate di Antonino Pierozzi: «Dominus autem Galeotus Dux Exercitus Ecclesiae haec fieri sinebat quasi non curans, quasi sperans Civitatem vacuam remanentem ad eius dominium pervenire, sicut postmodum accidit» [in S. Chiaramonti, «Caesenae Historia», Cesena, Carlo Neri, 1641, p. 660].
Il testo di P. G. Fabbri, «3 febbraio 1377. Il sacco dei Bretoni» è ne «Le vite dei Cesenati», IV, Cesena 2010, pp. 169-193. Ringrazio Fabbri per avermene cortesemente inviato una versione aggiornata ed ampliata (datata 7 marzo 2010), da cui ho attinto per questa scheda. Il testo, come tutti i volumi de «Le vite dei Cesenati». È disponibile sul web. Studi sui Malatesti, indice generale |
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