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il Rimino - Riministoria - Tama 970-977 del 2006

970. Vecchie zie
Francesco Caruso, fresco deputato rifondarolo dal lungo corso extraparlamentare, ha spiegato il suo voto favorevole all'indulto con il concetto di «scambio di prigionieri» fra «migliaia di poveri Cristi chiusi nelle celle per un niente» ed uno «sparutissimo gruppo di criminali in giacca e cravatta» legati a Forza Italia. Non siamo in grado di quantificare dal punto di vista scientifico il «niente» di cui dice il deputato belligerante a tempo pieno. Se la memoria non c'inganna, in quel «niente» rientrerebbe pure qualche caso di omicidio. Per la precisione sui giornali tra l'altro si è parlato di un signore che uccise entrambi i genitori, di un altro che fece fuori cinque donne, di una giovane che massacrò mamma e fratellino. La santa battaglia di Caruso a favore dei derelitti (che veramente esistono e non sono una sua invenzione di comodo), in questo caso è diretta più contro la logica che contro la Politica in genere. Che lui considera responsabile di tutti i mali sociali.
Caruso ha una di quelle facce simpatiche che avrebbero fatto liete le vecchie zie d'un tempo, sempre pronte a giustificare il male commesso dai loro nipoti in virtù d'una attenuante: sono inesperti del mondo. Ma oggi non esistono più le vecchie zie, e soprattutto pretendiamo che anche i giovani parlamentari come Caruso conoscano la differenza fra una guerra (in cui è importante lo «scambio di prigionieri») e lo Stato di Diritto in cui il primato della Legge (con tanto di iniziale maiuscola come nelle lapidi dei tribunali) non permette di considerare una condanna come la cattura d'un combattente da parte d'un esercito avversario. Se l'on. Caruso è legato a questa idea, forse ha sbagliato indirizzo entrando a Montecitorio. Anche se la sua frase è semplicemente frutto di un'esagerazione ideata al solo scopo di esprimere un sentimento di vicinanza a tanti derelitti, Caruso dovrebbe essere invitato a darsi una calmata. Purtroppo non sappiamo da chi. (Il presidente della Camera è del suo stesso partito.) Come capo storico dei «disobbedienti» italiani, Caruso si trova nell'imbarazzante posizione di legiferare, ovvero di imporre delle norme che lui stesso dovrebbe rifiutare per principio come ribelle in ferma permanente. Anche la disobbedienza può essere in tanti casi una virtù. Se diventa vizio, neppure le vecchie zie riuscirebbero a cancellarlo. La Giustizia dev'essere rapida per essere giusta, ma a troppi fa comodo così come è oggi. [970]

971. Prudenti
Manager incarcerati per una serie di reati che vanno dalla criminalità vera e propria a «miseri imbrogli legali». Diffidenza e sfiducia diffuse ovunque. Costose nuove regole. Il quadro si riferisce agli Usa, ed è delineato in un volume scritto dal sociologo Daniel Yankelovich (classe 1924), «Profitto con onore», Yale University Press. Da una sua pagina presentata ne «Il Sole-24 ore» del 20 agosto, ricaviamo un passo illuminante per qualsiasi Paese: «Leggi e regolamenti non assicurano la buona condotta», infatti «uno studio legale prospera solo quando i suoi avvocati sanno consigliare i clienti su come aggirare la legge».
In Italia di recente si è tentato di salvaguardare l'onore degli studi legali, risparmiando ai loro avvocati la fatica di studiare i modi «su come aggirare la legge». Ci hanno pensato direttamente alcuni onorevoli, per caso anche legali delle parti interessate ai provvedimenti approvati dalle Camere. Ma questa è ormai acqua passata. Nei giorni scorsi il tema delle nuove regole è stato affrontato da alcuni ministri della Repubblica in relazione alla questione fiscale. Come è ben noto, pagare le tasse è ritenuto in Italia un'impresa disonorevole, per cui molti elogiano gli evasori quali eroi degni di stima, ammirazione ed imitazione. Resta celebre la battuta di un presidente del Consiglio, pronunciata mentre era in carica: «Chi è? Ah, siete dei ladri? Per fortuna, temevo che fosse la Guardia di Finanza».
Questa non è acqua passata, anche perché il governo Prodi, a corto di voti e di fiato, dovrà prima o poi fare i conti con quell'ex-presidente, al quale sul tema delle tasse sta dando una mano la stessa maggioranza. Il ministro di Clemenza e Giustizia, Clemente Mastella, ha inventato uno di quei giochini estivi che furoreggiano sui giornali, «prendi un cognome e storpialo». La discussione verteva su come stanare gli evasori, e sulla necessità di un'anagrafe dei contribuenti per controlli incrociati (che ci illudevamo fossero stati già realizzati da trent'anni, come promesso). Mastella è intervenuto dichiarando che «Visco fa rima con fisco», per cui quando parla deve essere più cauto. Sarebbe come sostenere che il ministro alla Difesa Parisi potrebbe essere spinto dalla rassomiglianza con la capitale della Francia, ad infastidire Chirac per l'invio di truppe Onu in Libano. E che Prodi sarebbe più efficace nella sua azione di capo dell'esecutivo se si chiamasse soltanto onorevole Prudenti. [971]

972. Gobbi e dritti
Racconta la poetessa Alda Merini che da giovane nel dopoguerra fu licenziata dallo studio legale dove lavorava perché scoperta a scrivere liriche in ufficio («Lei non ha idea dell'avarizia degli avvocati»). Tra i suoi primi versi alcuni riguardavano il leggendario banchiere Enrico Cuccia, che per ovvi motivi chiamava «il gobbo». Una mattina Alda Merini (si era nel 1948, lei era nata nel 1931) fermò Cuccia e gli disse: «Io ho fame». Lui rispose: «Buon segno», e «tirò dritto». Il ricordo è esemplare per tanti motivi, tra cui quello che riguarda il rapporto fra le generazioni. Giovani che chiedono, vecchi che non rispondono a tono, facendo finta di non capire.
L'argomento è stato trattato anche in un seminario organizzato da politici che appartengono alla «generazione del 1966» o giù di lì, e che avendo quindi soltanto più o meno quarant'anni sono visti negli austeri ambienti di Senato e Camera come debuttanti in attesa di formarsi un'esperienza sul campo. Un latinista «di prima grandezza» (Alessandro Schiesaro) definisce l'Italia un Paese di corporazioni chiuse, vecchie, poco innovative e poco ricettive ovvero, traducendo in lingua corrente, per nulla aperte a chi non ne fa parte. Lo stesso discorso è stato fatto da Enrico Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con una formula elegante: in Italia sia in politica sia nell'università sia nelle professioni sia nel giornalismo, c'è un problema, «la logica della cooptazione», ovvero la scelta dall'alto, aggiungiamo noi, la chiamata da parte di chi comanda, per cui come dice Letta «per andare avanti devi avere un capofila che ti tira su».
Le cronache del seminario dei quarantenni che bene o male contano qualcosa (ed hanno buone speranze di migliorare le loro posizioni già invidiabili), si sono incrociate con una polemica avviata da una rubrica della «Stampa» curata da Massimo Gramellini. Il quale ha definito «la molle gioventù» quella di oggi che non riesce a staccarsi dalla casa paterna, non frequenta le facoltà scientifiche perché troppo impegnative, si laurea comodamente dopo anni di «fuoricorso», e poi per non affrontare ostacoli va a far la fame nei call center (come oggi chiamano i centralini telefonici). Una tal Luisa gli ha scritto che i vecchi non incoraggiano le nuove idee dei giovani. Per me ha ragione lei. Da antico insegnante preferisco frequentare i giovani. I miei coetanei (peggio se più anziani) sono insopportabili saccenti. [972]

973. Piazzisti
Una delle regole d'oro del giornalismo italiano, è che le migliori opinioni pubblicate sono quelle di scrittori o di intellettuali stranieri. I connazionali si trastullano solitamente con dispute astiose e banali, facendo perdere tempo prezioso ai lettori. Quelli esteri, educati a dire molto in poco spazio, arrivano al nodo dei problemi senza gli inutili giri di parole che noi abbiamo ereditato da una deteriore cultura barocca che nascondeva la sottomissione al potere nelle nuvole colorate di frasi inutili ma d'effetto. Quella stessa cultura (bagnata come un biscottino gustoso negli avanzi di certa baloccona filosofia ottocentesca), è utilizzata dai nostri intellettuali per parlarsi addosso e per attribuirsi un ruolo di giudici supremi, colloquiando tra pochi colleghi con fastidiose strizzatine d'occhio. Con le quali essi fanno sapere a tutti di essere i sapienti indispensabili senza i quali noialtri poveri ignoranti non comprenderemmo nulla.
«Un mondo ricco con tanti poveri» è il titolo di un articolo pubblicato non da un giornale di Sinistra più o meno radicale (come si dice oggi), ma dal quotidiano (conservatore) della Confindustria, a firma di Joseph Stiglitz, americano, classe 1943, premio Nobel 2001 per l'economia. Vi si legge questo passo: «Stiamo diventando sempre più Paesi ricchi con gente povera», soltanto «i Paesi scandinavi hanno dimostrato che esiste un'altra via. Investimenti in istruzione e ricerca e una forte rete di sicurezza sociale possono dare come risultato un'economia più produttiva e competitiva» nella realtà della globalizzazione. Della quale si passano in rassegna i fallimenti come le malattie nei Paesi poveri, a causa del sistema dei brevetti sui farmaci.
Se l' articolo del prof. Stiglitz, tratto da un volume in prossima uscita negli Usa, portasse una firma italiana, sarebbe oggetto di infamanti accuse di estremismo. L'autorità di Stiglitz in campo scientifico (è stato vicepresidente della Banca mondiale) non può essere discussa. Grazie ad essa i suoi pareri sono materia di studio. Se confrontiamo il contesto in cui Stiglitz lavora con quello in cui viviamo noi, c'è da mettersi le mani nei capelli. Qui non si parla con cognizione di causa, si offrono pregiudizi anziché giudizi fondati sulla realtà, si urla, si offende. Ci si aggrappa alla ridicola arte dei piazzisti che frequentavano una volta i nostri mercati ambulanti: «Non per cento, non per cinquanta, ma vi regalo tutto». [973]

974. Pronto, chi paga?
Il telefono, la tua voce. Era uno slogan pubblicitario. Adesso lungo le linee della Telecom viaggiano parole agitate, che non sono le nostre soltanto per il fatto che esse contano niente. Sono le solite voci dei padroni. La storia ha un risvolto tutto comico, frutto di quella bonomia emiliana che ispira Romano Prodi quando si fa la barba, culla i nipotini e parla davanti ai microfoni della tivù. Il suo consigliere economico Angelo Rovati ha predisposto un piano per Telecom senza che lui ne sapesse nulla, ma su carta intestata del governo. Il capo dell'opposizione ha definito l'operazione come frutto di «dilettanti allo sbaraglio». Ci consenta, a noi sono più apparsi «dilettanti allo sbadiglio». Ci spieghiamo. Rovati suggerisce a Tronchetti Provera di adottare certe linee d'azione. Berlusconi interviene bollando l'iniziativa (che presuppone autorizzata da Prodi) quale ennesimo e stralunato esempio di statalismo. Ha dimenticato di aggiungere: sovietico.
Dalla Cina dove Prodi si trovava in viaggio di lavoro con Rovati, il capo del governo dice che non sapeva nulla del piano incriminato. Lo stesso Rovati non può smentire il suo capo. Anzi confida a giornalisti amici che, per non imbarazzare Prodi, sarebbe disposto a dichiarare che neppure lui stesso sapeva nulla della lettera inviata a Tronchetti Provera. Ma il professore gli ha detto che Rovati deve saperlo per forza, dato che il capo del governo ignora l'episodio. A questo punto Rovati guardandosi in giro ha «realizzato» (come dicono i benparlanti) che quel signore è lui, e che quindi non può non sapere. Vedete quali profondi abissi raggiunge l'intelletto dei politici.
A questo punto lo sbaraglio è diventato lo sbadiglio. Dietro il cancan di Berlusconi contro Prodi spunta una dichiarazione del suo fido Confalonieri (Mediaset): facciamo una bella cordata italiana per acquistare Tim che Telecom vuol sbolognare dopo averla comprata due anni fa. Il ministro Antonio Di Pietro brontola. Il giornale della Confindustria lo definisce «interventista senza limiti». Lui risponde: sì, è vero e me ne vanto. Perché «negli ultimi anni, anche grazie alla copertura dell'informazione, si è assistito a un continuo degrado economico e industriale dell'Italia». Francesco Cossiga è andato in aiuto di Confalonieri proponendo: Berlusconi per il centrodestra e Carlo De Benedetti per il centrosinistra si alleino e salvino Telecom. Il telefono, dunque, soltanto la loro voce. [974]

975. Al lettore-padrone
Aveva ragione Indro Montanelli. Quando si scrive sopra un giornale, occorre ricordarsi che l'unico padrone è chi ci legge. Il resto non conta. Questa rubrica entra nel suo venticinquesimo anno di attività. L'insegnamento di Montanelli è duro da rispettare. Le due direzioni de «il Ponte» lo hanno accettato, mi hanno lasciato ampia libertà di argomentazione perché il «lettore» (un ipotetico lettore) gradiva incontrarmi settimanalmente. Di questo «lettore» mi sono fatto una vaga idea statistica. All'ottanta per cento consente o dissente senza protestare. Un quindici per cento ritiene che tra le assurdità impensabili di questo mondo, c'è anche quella di una rubrica affidata al sottoscritto. Un cinque per cento, infine, ha protestato intensamente perché certe cose non si dicono neppure per ischerzo.
Aggiungo alla statistica un'osservazione ambientale. Una cosa è scrivere con la firma di Indro Montanelli sopra un giornale «grosso» di una metropoli. Un'altra è vivere senza essere nessuno in una città da dove partono viaggi per tutto il mondo, ma dove sembra di trovarsi in una dimensione da «borgo selvaggio» o provinciale come si diceva un tempo. Dove tante sono le ire che vagano per l'aria contro questo o contro quello per il semplice fatto che essi non sono nel coro degli eletti e dei potenti. Spesso, troppo spesso, viviamo la realtà della favola in cui dire che il re è nudo, provoca scandalo verso la persona che racconta la verità, non verso chi gira senza vestiti.
Dunque, grazie a tutti. E adesso permettetemi un bilancio che non riguarda l'inutile cronista che vi si presenta in questo angolo di pagina, ma un po' il paesaggio che ci circonda tutti, favorevoli, contrari, astenuti o facinorosi avversari di queste righe. In venticinque anni come è cambiata l'Italia? La lettura delle ultime vicende politico-industriali legate alle intercettazioni illegali, dovrebbe farmi cambiare la domanda: ma l'Italia è cambiata? Dalle storiacce del Sifar e della P2 all'ultimo scandalo in casa Telecom, il passo non è lungo. Ecco, fa spavento questa Italia immobile per la quale s'invocano (tre volte al giorno prima dei pasti) mutamenti radicali, riforme fondamentali, giri di boa epocali. Tutto invece resta fermo ad un concetto truffaldino di gestione del potere che non è quello esercitato in nome del popolo italiano dal governo, dal parlamento e dalla magistratura. Ma è quello di quanti si fanno gli affari loro, spacciandoli per nostri. [975]

976. Finanziaria
Pure Gianni Morandi non è più lui. Gli autori del suo spettacolo tivù gli hanno imposto un cambiamento assurdo. Da sempre era il ragazzo di Monghidoro che aveva chiesto alle coetanee di farsi mandare dalle mamme a prendere il latte. Ora è diventato la brutta copia del ragazzo della via Gluck. Come Celentano pure lui l'ha buttata in politica. Si è presentato con un'aria spaesata che contrastava con il copione da recitare. Gli hanno inventato una parte che cominciava dicendo che anche lui sarebbe «sceso in campo» perché sa cantare come Berlusconi e corre come Prodi. Già questo doppio gemellaggio avrebbe dovuto consigliare i suoi collaboratori a lasciar perdere.
Gli italiani hanno le tasche piene di «questa» politica. Di Berlusconi per motivi che conoscono bene anche i suoi sostenitori. Aldilà delle canzonette duettate con Apicella, c'è stato molto fumo e poco arrosto. Glielo ha detto con grazia Giuliano Ferrara dal «Foglio», glielo ha gridato inutilmente Vittorio Feltri da «Libero», glielo ha suggerito con cautela Paolo Guzzanti dal «Giornale» che è cosa loro, nel senso che appartiene alla famiglia di Arcore. Prodi ha vinto la maratona delle elezioni primarie con quattro e passa milioni di voti. Dopo di che ha fatto del suo meglio per perdere consensi alle politiche dove quel risicato margine di 23 mila schede gli è stato rimproverato dall'opposizione, incapace di vedere (anzi di prevedere) che il professore avrebbe fatto del suo meglio per offrire agli avversari grande quantità di argomentazioni a proprio sfavore, come è successo dal viaggio in Cina al ritorno alle Camere.
Pensate se anche gli autori che circondano Prodi tentassero di trasformarlo in una pallida imitazione di quel Celentano che sembra esser diventato il metro di paragone di tutto. Al punto che la gente molte volte, assistendo a discussioni poco convincenti, s'interroga: gli argomenti di fondo sono forniti dal capo dello storico Clan o da Maurizio Costanzo Sciò? Avremmo un Prodi alla Gianni Morandi che imita Celentano. Altro che Romano, sarebbe un Romagnolo per via degli accenti. E nella sostanza ripeterebbe quello che ha già mostrato a Pechino, con quel «Ma siamo matti?» detto a chi gli chiedeva se fosse andato in Parlamento a parlare del caso Telecom, non sapendo che avrebbe poi dovuto fare retromarcia. Questo Prodi celentanizzato spiegherebbe che anziché di 24 mila baci (eccessivi per la finanziaria) si accontenterebbe di alcune carezze. [976]

977. Ad Orvieto
I due giorni di sciopero dell'informazione ci hanno garantito una visione ottimistica del seminario per il Partito democratico. La ricomparsa dei quotidiani ci ha riportato alla consueta realtà. Ad Orvieto non era cambiato nulla. Non so se ricordiate quei problemi che davano una volta alle elementari. Prodi direbbe che non si può rispondere alla domanda se prima non si precisa di che si tratti. Berlusconi spiegherebbe che per lui non esiste il problema dei problemi, perché è abituato a risolverli tutti, anche quelli che non sappiamo di che tipo siano, perché lui ricorre ai sondaggi e ciò è già di per sé un problema che non ammette soluzione diversa da quella che lui stesso ha in testa. Ovvero se io penso, pensa Berlusconi, che gli italiani in maggioranza (56%) sono ancora con me, anche gli altri la debbono pensare con me, perché se non lo pensano questo è il vero problema.
Comunque il problema delle elementari di una volta è questo. Data una vasca di 50 metri cubi e dato un rubinetto che vi versa 2,5 metri cubi all'ora, quanto tempo deve passare prima che la stanza in cui si trova la vasca si allaghi completamente? Ad Orvieto è stato formulato un problema che ridotto all'osso suona così: data la presenza di 120 persone, e data la possibilità che venti persone non sappiano offrire suggerimenti, e che le altre cento ne offrano ciascuna uno e mezzo, quanti suggerimenti alla fine si raccolgono in media per non mettersi d'accordo? La risposta ve la forniamo direttamente noi. Ogni persona presente usufruiva di 1,25 suggerimenti offerti dal seminario. Ammesso che per arrivare ad una ipotesi di decisione occorresse come minimo essere a quota uno o sotto di essa, Orvieto ha dimostrato che per colpa di quello zero virgola 25 non si poteva arrivare a nessun accordo.
Nella piccola quota dopo la virgola si sono inserite opinioni illustri ma non per questo meno traumatizzanti. Da quella di D'Alema («Non si fa nascere un partito nuovo in un gazebo»), ovviamente espressa come richiamo alla necessità di un confortevole grand hotel; a quella di un sottosegretario (Gigi Meduri) sostenitore della teoria che i vecchi partiti non si possono far sciogliere nell'acido muriatico. Gavino Angius si è schierato per il silenzio: «È meglio che non si sappia quello che penso». De Mita, noto filosofo della Magna Grecia, ha chiuso con solennità: «Un partito si fa con gli atti di governo che compie». Prodi ha chiesto: ma quale governo? [977]

Antonio Montanari


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