Sul bambino molto piccolo

della relatività... assoluta

 

- Il primo postulato della teoria della relatività ristretta afferma che "l'introduzione nella teoria fisica di uno spazio di fondo (etere) corredato di particolari proprietà è superflua" ("l'etere non esiste") (1)

 

Ma delle tre "particolari proprietà" dell'etere di Maxwell (teoria elettromagnetica) (2):

- "elasticità" (epsilon-zero),

- "densità" (mu-zero) e

- "conducibilità elettrica" (sigma-zero),

solo quest'ultima è stata posta uguale a zero "per definizione conseguente al primo postulato einsteiniano".

 

L'arbitrarietà e l'infondatezza di questa "definizione conseguente al primo postulato einsteiniano" - scrive Roberto Monti (in "Scritti di critica alla Teoria della Relatività (1984-1987)", a cura di Paolo Brunetti, Ed. Andromeda, 2018, pag. 18) «è evidente tanto a livello microcosmico quanto a livello macrocosmico. Per esempio in fisica nucleare si procede con l'idea di "polarizzazione del vuoto", cioè con un "vuoto", assimilato ad un mezzo materiale isolante (dielettrico), mentre sembra ormai certo che nelle vicinanze di nuclei artificiali superpesanti, il "vuoto" si comporta, appunto, come il normale dielettrico di un condensatore: se il campo elettrico è sufficientemente intenso, si ha un passaggio di corrente elettrica (3) che viene chiamato "decadimento del vuoto"». E sottolinea che: «Sul fatto che questo "decadimento" sia una contraddizione del primo postulato della relatività di Einstein si è sorvolato con la stessa "logica della servetta" (alla padrona che le rimprovera il frutto appena sfornato di un amore illegittimo, la servetta replica che in fondo si tratta di un bambino molto piccolo) normalmente usata per il principio di indeterminazione (4): in definitiva il decadimento del vuoto avviene "molto in piccolo"...» (ibid.).

 

Questa contraddizione (che preferisco chiamare col neologismo di SCIENZIAGGINE) del primo postulato della relatività di Einstein è comunque normalmente usata nel principio di indeterminazione come cosa buona e giusta, dalla quale scaturisce ovviamente tutto un cumulo di molte altre cose "buone" e "giuste" dovute a questo modo superficiale di osservare, dato che se nei "brevi istanti" concessi dal principio di indeterminazione si può violare praticamente la connessione intuitiva con la vita reale, ci si può poi concedere tutto e il contrario di tutto, e infatti in questa peste culturale ne succedono poi - letteralmente - di tutti i colori.

 

Allo stesso modo in astrofisica - sottolinea Roberto Monti - anche se le informazioni relative al "redshift" (spostamento verso il colore rosso delle immagini osservabili al telescopio) delle galassie suggeriscono in modo evidente l'esistenza di un mezzo dispersivo con conducibilità elettrica finita e calcolabile sulla base di un'equazione molto semplice (l'"equazione dei telegrafisti") (5) e ciò sulla base di dati sperimentali disponibili, si preferisce - per non porre alcuna alterazione o violazione nel cielo di Einstein - credere che l'oggetto osservato (vale a dire l'Universo) sia in espansione (6).

 

- Il secondo postulato della teoria della relatività ristretta afferma che: "la luce nello spazio vuoto si propaga con una velocità determinata V indipendente dalla velocità del corpo emittente" (7). Ora, di queste "velocità V" ce ne dovrebbero essere due: quella "elettromagnetica" (caratterizzata dalle equazioni di Maxwell e misurabile accoppiando in modo opportuno un condensatore e un induttore) e quella "cinematica" (consistente nel rapporto tra la lunghezza di un percorso di andata e ritorno ed il tempo che dovrebbe essere impiegato dalla luce per percorrerlo).

 
Einstein non specifica tuttavia di quale "velocità V" sta parlando. E con ciò assume "valida per definizione" un'identità (quella tra le misure elettromagnetiche e quelle cinematiche della presunta velocità della luce) che dovrebbe essere stabilita solo sperimentalmente.
Ma - fino a prova contraria - l'esperienza, mostrò invece fino al 1905, anno della relatività (e ancora oggi) discrepanza tra queste due misure (infatti periodicamente e in modo costante le informazioni mediatiche annunciano nuove velocità superluminali, sempre ovviamente seguite da "tranquillizzanti" smentite della "comunità scientifica"). Ed è notorio che dal 1905 ad oggi le misure elettromagnetiche non furono mai più state effettuate... grazie all'"influenza" di Albert Einstein (cioè la proposizione "l'ha detto Einstein" è divenuta una specie di password per il divieto a qualsiasi percezione e intuizione in merito). Più precisamente questa identità fu accettata nel 1932 sulla base di considerazioni astratte, conseguenti alle teorie della relatività ma prive della benché minima connessione con la vita reale! In effetti la teoria einsteiniana della relatività è - sempre fino a prova contraria - la prima teoria fisica, che non fu mai tenuta a rispondere della validità sperimentale dei propri postulati.

 

Anzi, messi di fronte ai dati astrofisici, gli "esperti" rispondendo con originali varianti della sopracitata "logica della servetta" ("l'Universo è un bambino molto grande), finiscono col riconoscere che "resta pur sempre da fare una misura". Vero. Ma a rigor di logica ciò significa, appunto, che la relatività non può ritenersi, a tutt'oggi, una teoria sperimentalmente fondata.

 

Inoltre, secondo Roberto Monti (ed anche secondo il mio modesto parere), il primo postulato appare decisamente compromesso, dato che, indipendentemente dai risultati della verifica del secondo, bisogna comunque dimostrare che l'evidenza sperimentale che ne dimostra l'invalidità è sperimentalmente infondata.

 

Infine, per ciò che riguarda il secondo postulato, "l'onere della prova" è tutto "a carico" della relatività. Poiché secondo i dati disponibili, anche se sono ancora oggi quelli "tecnologicamente arretrati" del 1905, questo postulato risulta sperimentalmente infondato.

 

Se poi si vogliono osservare spregiudicatamente le cose, si può davvero dire che la relatività di Einstein parte non solo con postulati che non le permettono di stare in piedi ma che è perfino nata col nome sbagliato: da molte parti è stato osservato che il nome più appropriato di questa teoria avrebbe dovuto essere (a causa del ruolo di "limite assoluto", insuperabile, assegnato alla velocità della luce): "teoria dell'Assolutività". Giustamente, Erasmo Recami, fisico einsteiniano, si chiedeva infatti quali sarebbero state le reazioni di letterati, filosofi, artisti, di fronte ad una "parola-chiave" più appropriata ("Assolutività") ma indubbiamente molto meno seducente di "Relatività" (8).

 

Ma ci sono altri due aspetti dell'influenza esercitata dalla teoria einsteiniana nell'arco del secolo passato che, secondo Roberto Monti, meritano di essere sottolineati: «Il fatto, ad esempio, che i numerosi "avvistamenti" di "oggetti volanti non identificati" (UFO) non turbino soverchiamente l'opinione pubblica non è tanto dovuto alla cura con la quale ogni Stato copre, tramite segreto militare e apposite leggi, le prove materiali di queste "presenze", allo scopo di tutelare la quiete dei propri cittadini. Molto più efficacemente di questi provvedimenti opera, in favore della quiete pubblica, l'universale "autorevolezza" di Albert Einstein. Qualsiasi "uomo della strada" sa con certezza che "l'impossibilità di superare la velocità della luce" rende estremamente improbabili e poco credibili avvenimenti di questo genere. La teoria della relatività ha funzionato molto meglio e più elegantemente del rogo di Giordano Bruno» (Roberto Monti "Scritti di critica alla Teoria della Relatività (1984-1987)", a cura di Paolo Brunetti, Ed. Andromeda, 2018).

 

Inoltre, la teoria einsteiniana della relatività costituì di fatto una barriera massimamente efficace, in ambito scientifico e tecnologico, contro ogni indirizzo di ricerca le cui premesse fossero "in contraddizione" con la relatività. Fin dal 1846, ad esempio, Laplace dimostrò che la stabilità dei moti planetari era compatibile solo con l'ipotesi che la velocità dell'interazione gravitazionale fosse milioni di volte superiore alla velocità della luce. Il calcolo di Laplace compare in tutti i testi di meccanica celeste dell'800, e non fu mai confutato. Ma a partire dal 1905 fu, prima accantonato insieme alle "teorie dell'etere" e, dopo il 1932, scomparve definitivamente, sempre in considerazione della nota "autorevolezza" di Albert Einstein e delle teorie della relatività. Tra l'indifferenza di fisici teorici indaffarati ad inseguire il sogno einsteiniano di racchiudere l'intero Universo in una sola teoria.

 

Considerando che tra i macabri reperti del secolo passato, c'è anche il cervello di Einstein tenuto sotto formalina ("Resto del Carlino" del 17 settembre 1984), Roberto Monti scrive: «Provo a immaginare quali motivi possono averlo spinto a consentire lo scempio del proprio corpo. Ad adempiere quel macabro rito di un culto della personalità neolombrosiano. E all'idea di un ultimo irrefrenabile sussulto di megalomania preferisco questa: il 4 aprile 1955, a pochi giorni dalla sua morte, Einstein si trovò costretto a constatare in una lettera il fatto che "dopo cinquant'anni di relatività siamo molto lontani dal possedere una base concettuale della fisica alla quale poterci in qualche modo affidare". Un'amara lezione. Ma, come direbbe Galileo, "sono stati i suoi seguaci che hanno dato l'autorità ad Einstein e non egli che se la sia usurpata o presa". Quale miglior lezione, a questo punto, per uomini ai quali "è più facile coprirsi sotto lo scudo di un altro che comparire a faccia aperta e temono né si ardiscono d'allontanarsi un sol passo", della dimostrazione di come un uomo solo possa raggirare il mondo intero per 80 anni lasciandoci per di più - beffa suprema - a conservare il suo cervello... sotto spirito!" (R. Monti, "Il grande bluff: dopo le teste di Modigliani, il cervello di Einstein?" in "Scritti di critica…", op. cit.).

 

 

Rock demenziale in dialetto (ho immaginato di essere Einstein e sono perciò

caduto nell'orto dello "Spaccio della bestia trionfante" di Giordano Bruno)

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NOTE

 

(1) "L'etere non esiste e di conseguenza non può essere dotato di proprietà speciali" (A. Einstein, Ann. Phys. 17, 891, 1905); la teoria einsteiniana della relatività ristretta (o relatività speciale) si basa su due postulati: 1°) Meccanica, Elettromagnetismo ed Ottica avrebbero le stesse leggi in qualsiasi sistema di riferimento inerziale; 2°) la luce si propagherebbe nel vuoto a velocità costante, indipendentemente dallo stato di moto della sua sorgente o dell'osservatore.

(2) J. C. Maxwell, "Teoria elettromagnetica della luce" in "Trattato di elettricità e magnetismo", Vol. II, Ristampa integrale dell'edizione del 1891, Dover 1954.

(3) J. Rafelsky, L. P. Fulcher, W. Greiner, "Phys. Rev. Letters", vol. 27, n. 14, 4/10/1971, pag. 958.

(4) Nella fisica classica il concetto di vuoto evocava ed evoca semplicemente il vuoto, cioè spazio privo di materia e di energia. Nella fisica teorica invece può evocare tutto e il contrario di tutto. Per es., in meccanica quantistica il principio di indeterminazione (di Heisenberg) prevede un limite alla misurabilità delle particelle elementari, che sarebbe dato dalla limitata capacità umana di misurare il soprasensibile, cioè l'invisibile o determinate caratteristiche immateriali della materia (sic!), cosicché in questo ambito le posizioni e le velocità delle particelle non si possono stabilire con assoluta certezza ed allo stesso tempo. Ne consegue che ogni descrizione della fenomenologia quantistica può solo essere di natura statistica e probabilistica, esattamente come quella delle exit pol nelle previsioni politiche di voto! Perciò si arriva ad accettare e a proporre idee irrazionali, come quella di onde che, per es., sono anche non onde ma corpuscoli, nonché principi su principi, quali il principio di complementarità di cose contrarie, e così via.

(5) Nel 1857 Weber e Kirchoff ottennero l'''equazione dei telegrafisti" che descrive la propagazione dei segnali elettromagnetici lungo i fili, con "velocità V", in A. K. T. Assis "The meaning of the constant c in Weber's electrodynamics" e «Proceedings of the International Conference "Galileo Back in Italy II"», Inediti n. 134, Andromeda, Bologna, February 2000, pp. 23-36.

(6) Faccio notare che nel 1984, quando Roberto Monti diceva queste cose non era ancora uscito il volume del resoconto di Halton Arp, che le conferma: "Seeing Red. L'Universo non si

espande - Redshift, Cosmologia e Scienza accademica", Ed. Jaka Book, Milano 2009, "Seeing red. L'universo non si espande"; su H. Arp, cfr. anche https://youtu.be/13IexuDaaWk.

(7) A. Einstein, Ann. Phys. 17, 891, 1905.

(8) E. Recami, "Astronomia", giugno 1984; "essa avrebbe ben potuto chiamarsi "Teoria dell'Assolutività" (e chissà quanto diverse sarebbero state le reazioni di tanti letterati o filosofi o artisti solo orecchianti!): e in effetti Einstein l'aveva chiamata Teoria degli Invarianti" (E. Recami, «2005: anno internazionale della fisica. Centenario del 1905, "annus mirabilis"»).