Christine

Parte X

Warning!!!

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

Nota all'episodio: Luana tra la fine del dicembre 2005 e l'inizio del gennaio 2006 ha scritto un ipotetico parallelo di questo episodio, Beside Christine - Lei, l'altra...

 

 

Rimbomba un raggio d’arancio e ocra sulle mura e il cielo preme grigio. Piove. Piove troppo spesso. E non smette.

Vorrebbe scorrere via anche lei. Annullarsi nel flusso di acqua, terra, foglie, erba. Pesa nel cuore amare. Sia che le cose vadano bene – e cosa significa, poi, bene? –, sia che presentino problemi, amare è bellissimo e terribile. Anche quando è quotidiano.

Sfiora il vetro freddo col dito, mentre studia il disegno delle gocce. Ha gli occhi stanchi e vorrebbe essere libera, perfino da se stessa, ed andarsene. Senza quel peso nel cuore e dentro di sé.

Altri occhi. Vetri diversi.

La mano scalda il vetro freddo. Si guarda attraverso i riquadri panna. Stringe l’elsa della spada. Bisogna andare avanti. Era proprio come diceva lui. Sopravvivere.

 

La piccola costruzione in pietra sul margine della proprietà. La ex-casa del fattore, ora la sua. La guarda. Certo, hanno dovuto adeguare gli impianti alle tecniche più moderne, ha fatto fare parecchie sistemazioni e modifiche, ma nel complesso può andare. Ne aveva parlato con sua madre, tempo addietro, e avevano iniziato i lavori. Non le dispiaceva l’idea di pensare a qualcosa anche lei. Di avere un obiettivo o, perlomeno, una direzione. Una strana reazione, si dice. Ora che lei sta male… male di cosa, poi…

Uno schiaffo al dolore. Senza rispetto.

Ma il dolore di chi? Suo, di lui, dell’altra?

Non riuscire a non pensarla, in qualche assurdo modo, per loro due, quella casa. E, ora, adattarsi a considerarla per sé.

Come una rivalsa di disperazione. Ripensare all’espressione di lui, quando glielo aveva detto. Come se stesse perdendo qualcosa. L’aria.

Ma, in fondo, si dice, non è poi così male.

Lui sta bene. Le vuole bene. Sa che lei lo ama. E avrà un bellissimo bambino. Orrore… insomma, potrebbe andare peggio… il pargolo importuno e la santarellina ci mancavano, davvero, a complicare la sua strampalata vita…

 

Guarda Oscar, Mme Louise. Di tutte le sue figlie, certamente il suo capolavoro.

La più libera. La più colta. Quella che davanti a sé ha tutte le possibilità. Peccato, riflette, come sia finita. André non ce l’ha fatta a liberarla. Ci ha sperato, Madame. A lungo. Ma Oscar si è buttata a capofitto negli sbagli, trascinando anche lui. Ha avuto paura che la considerassero diversa da come immaginava di dover essere, senza pensare che era proprio quello che sua madre sperava, mettendole accanto André fin da piccoli.

È così strana, la vita. Forse, ora, Oscar saprà trovare una sua strada. Forse è inutile che una madre, dopo aver avuto la boria di schiantare una creatura nel mondo, abbia anche la hybris di consigliarla, dirigerla verso una qualsiasi strada.

Oscar figlio desiderato e figlia non voluta. Ennesima, logorante. Quella che, invece di riconciliarle il marito, gliel’aveva definitivamente rubato. Quante volte, in tutti i modi, aveva tentato di sradicarla da sé, senza esserne capace. E non era stata neppure il maschio che lui voleva o lei sperava per la libertà del proprio letto e della propria vita. Allora, era diventata la sua sfida. La sua duplice ribellione di donna. La liberazione che dovevi darmi, non me l’hai data. E, allora, sarò io a liberare te. E me. “Diamole un’educazione diversa. Non ne sarebbe capace, forse? Io penso di sì”, lo aveva istigato. Oscar, in fondo, era colpa sua. Fino in fondo. Era rimasta incinta altre due volte, dopo. Ma in segreto aveva abortito, forse maschi. Non ne voleva più sapere, non importava più. E così, mentre sperava di proteggere le sue figlie e le ragazze a servizio, informandole e lottando contro l’ignoranza ed il pregiudizio, Oscar era lì, creatura più di sua che di ogni altro, marito compreso.

 

È diventato molto silenzioso, André.

Troppi pensieri che sperava sopiti sono tornati ad agitarsi come spettri. Non riesce a non pensare a quello che ha visto. A considerarne il senso e le implicazioni. Né a quello che è successo dopo. A lei. A loro due.

Non sa o forse neanche vuole sottrarsi. A questo punto, sarebbe l’ennesimo fingere. Peggio ancora che tradire.[1]

Oscar ormai lo avvolge nel suo gioco, un gioco di cui lei stessa sembra inconsapevole. Per qualsiasi ragione stia vedendo quel ragazzo – e chi diavolo sia, poi, dove l’abbia conosciuto, lui, che pensava di sapere tutto di lei, e invece no, non è così e anche questo lo distrugge –, lui ne è disturbato, avvelenato. E Christine, che sta sempre peggio, lo richiama a sé, pur non volendolo. Costretta ad appoggiarsi a lui e lui a non potersene allontanare. Liberare. Perché le vuole bene. E tiene a lei. Alla loro unione. Nonostante tutto.

Torna a casa, la sera, la notte, e la trova sempre più pallida, piegata. Umiliata. Eppure, in qualche modo, dentro di sé sembra ancora trovare una forza.

A volte, però, vorrebbe non accorgersi di lei.

Ha tentato di parlargli, più volte. La sera, quando rientra, disfatto, un’espressione indecifrabile, a tratti svagato, a tratti come riscuotendosi e trovandosi, sorpreso e ancora sereno, tra quelle pareti che non sono sue, in quella piccola tana, con lei che lo circonda d’affetto e sa come farlo sentire il centro del suo mondo. Anche se a lui pesa.

Non si rende conto, Christine, di quanto sia intimamente importante, per lui, anche ora, quello che hanno fatto assieme. Quello che hanno realizzato, creato, la loro unione, negli anni, la terribile sfida di André a se stesso e alla sorte, quell’accettare di lacerarsi per sperare di rinascere. Una sorta di palingenesi. E, anche, quello che li circonda, perché è così non a caso, ma grazie a loro due, al loro impegno, alle loro scelte, ai loro gusti. Non è apparenza. È qualcosa che li rappresenta. Connaturato alle loro due essenze e a quello che, stando insieme, ne risulta di ancora diverso.

Per quanto sia dilaniato, per quanto l’amore di sempre chieda di vivere, in un angolo prepotente del suo cuore, non può fare a meno di amare, con orgoglio misto a tenerezza, con affetto, con un estremo rispetto per quella ragazza che ha travolto, la loro vita, i loro spazi, quel loro piccolo mondo. Lei.

L’ha sempre saputa tranquillizzare, ci hanno creduto entrambi, che non ci fosse niente di strano. Che niente apparisse strano.

Ed era stato così. Fino ad un certo punto.

La terribile finzione inscenata prima da Oscar, poi da loro due, era proseguita.

Ma qualcosa l’aveva incrinata.

Fino a che non aveva confessato ad Oscar del bambino, tutto era filato, più o meno, liscio. Come da copione. E poi… poi non avrebbe saputo dire, se non per intuizioni del tutto irrazionali, cosa fosse scattato dentro Oscar. Gelosia, senso di perdita del loro rapporto, tradimento, non ne era certo, ma lei aveva reagito in un modo talmente forte, svegliando una parte di sé che teneva sopita, che il suo cambiamento era stato palpabile, l’aveva notato, a mano a mano, spaventato, annientato, all’idea di perderla, che fosse di un altro.

Qualcosa con cui non aveva fatto i conti, all’inizio. Era chiaro che, prima o poi, sarebbe successo, ma non era preparato. Ed era stato devastante. Era preparato ad allontanarsi da Oscar. Ma non a sopportare che fosse lei a voltargli le spalle definitivamente. A vivere una vita che non fosse anche sua. Ad avere un altro.

 

 

Oscar stessa ammetteva di averlo trovato assente, pensieroso. A tratti sereno, a tratti tormentato. Temeva di conoscerne in parte le ragioni. Altre sembrava intuirle. Altre, ancora, negarle. Lo scrutava, domandandosi quanto all’esterno trasparisse. Fino a quando avrebbero potuto nascondersi.

 

“Che cosa gli succede…” Lo sguardo accorato, che spicca sulla pelle candida. “Non lo riconosco più…” Quegli occhi su di lei. Senza apparenti accuse.

E il trasalire, mentre le parole che sente trovavano forma, le ha fatto serrare le dita attorno alla tazza di tea, in un gesto nervoso. Anche lei, sì, aveva provato le stesse sensazioni. Ma non può confessarglielo.

“Non lo so…”, scuote la testa, in un gesto vigliacco. E spera che davvero sembri che non ne sa niente. “è un periodo così duro per tutti…” una mezza verità. “Cerca di avere pazienza…” e qui parla contro il proprio interesse. Anzi, se la moglie lo mettesse alle strette, forse lei – l’altra – avrebbe di che guadagnarne. Ma Oscar non è una stratega dell’amore. E non si rende neppure conto di agire d’istinto e di stare giocando neanche poi male. Oscar è onesta, per quello che può, dell’amore per lui e dell’affetto per lei. Potrebbe solo allontanarsi, scappare lontano, magari in quella vecchia tenuta in Normandia, quella sul mare, che a loro piaceva tanto, a rinnovare il dolore e la solitudine, a togliersi dagli occhi di lui, ché, almeno soffra meno, senza di lei… alla larga da lei…

Vorrebbe stringerle una mano e dirle che è tutto a posto. Vorrebbe non averle fatto così del male. La guarda e si sente il suo carnefice. E poi pensa che in fondo anche Christine lo è, per lei. Vili compensazioni nella nostra personalissima ed arbitraria interpretazione della vita. Ma come può essere altrimenti, se si vive una singola vita, non farlo da un determinato punto di vista, per quanto ci si sforzi di assumere quello dell’altro – quelli degli altri?

“Sei stanca, forse vedi le cose peggio di quello che sono…” altra vigliaccheria, altra ipocrisia. Che nessuno di loro merita, ma che al momento sembra salvarli tutti. Basta evitare di parlarne, in fondo…

La osserva nel viso bello e triste dallo sguardo basso. Quasi in una carezza, le porta la mano ai capelli. Sono morbidi. Si perde in quella sensazione. E capisce lui. Più ancora, quando sfiora quella pelle fresca, e il leggero strato di cipria che la rende più vellutata.

“Sei così bella…” Vorrebbe proteggerla. E la sta distruggendo, invece.

Lei sembra come illuminata per un attimo. “Lui dice che ti somiglio”, confessa così, semplicemente, quasi con imbarazzo. “Ma a me pare impossibile… tu sei bellissima… e forse neanche te ne rendi conto…”

Oscar si sente malissimo. Ferita. Investita dalla realtà di quel lui e di quelle parole confidenziali. Poi, annaspando in quell’onda di sensazioni, cerca di non affogare chiosando silenziosamente che anche a lei l’ha detto, tanto tempo fa. Si domanda, alla deriva in quei pensieri, se sia stato, anche con Christine, nello stesso periodo. Se, guadagnando terra e la realtà, quel disgraziato mettesse a parte tutte e due di qualcosa dei suoi pensieri. E, questo, gliela fa sentire immensamente vicina, in quel momento – lui, lo ammazzerebbe volentieri. E sente l’imbarazzo crescere. Per i complimenti, inattesi. Per il sentimento di empatia che prova, ora. E per il ricordo delle parole di lui, quando le aveva detto che si somigliavano. O, forse, è solo solidarietà contro il comune nemico – cosa sia comune e cosa nemico resta tutto da capire…

Urge cambiare discorso. E cosa domandare ad una futura madre per scelta??? Poi, il colpo di genio, non per niente cinque sorelle maggiori di esperienza, sia pure marginale, e svariati nipoti: ”Avete deciso come lo chiamerete? O la chiamerete…”Giustamente…

Funziona, e il feeling si dissolve, piano, mentre Christine, animata, risponde “Beh, se fosse un maschietto, mi piacerebbe Daniel… come il figlio di un’artista che ammiro molto…”

“Bello”, approva Oscar pensosa. “Un nome biblico”, dice, come tra sé.

“E se fosse una bambina…”

“Sai che non lo so… a me vengono in mente solo nomi classici…” Un sorriso, “André” – è strano sentirglielo nominare, di solito usa il pronome e un brivido corre – “dice che lui ha una gran confusione in testa, sull’uso dei nomi maschili e femminili, quindi è meglio che ci pensi io…”

Ridono entrambe. “Eh, già…”

“Insomma, come fai a chiamare un bambino Oscar, d’ora in avanti? Passerà la vita ad odiare i genitori dicendo che è un nome da donna…” Un’occhiata disarmante.

“Gli abbiamo rovinato la piazza, sì…” concede Oscar.

“Se sento il nome Oscar, io penso a te, non ad un uomo, capisci…”

“In effetti… anche io…” logico.

 

E così, almeno, abbiamo distratto la nostra Christine, rimugina, la testa incassata, le mani in tasca. E la povera Oscar, chi la distrae, si domanda, scornata. E quel martire del Grandier, perso tra due fere donne, due furie atroci? Solleva la testa, in un sorriso triste, a scrutare il cielo. Tra poco pioverà, si dice, e non ha nessuna voglia di andare…

 

 

Piove ancora.

La pioggia sembra avvolgere tutto. Anche loro.

Anche i loro corpi di amanti infedeli.

Copre i loro respiri. I gesti.

Che li annienti. Li nasconda. Li benedica. O li danni. Che protegga quel loro amore.

 

Le cinge i fianchi con le mani, seguendo il suo movimento.

Oggi sembrano non avere freni.

Le percorre l’arco della schiena, con i capelli che ricadendo lo sfiorano, e lo fanno impazzire. Gliel’ha detto, che adora che li porti così lunghi. Eppure, la guarda ogni volta ammirato, quando li taglia, e si diverte a trovarla diversa. Ed uguale. Rassicurante ciclicità di lunga data.

Le cerca i seni, tesi. Li serra tra le dita.

È migliorato, dall’ultima volta. Annota, burrascosa, che dev’essersi dato parecchio da fare, con l’innominabile santarellina. Si domanda se non debba ringraziarla, la prossima volta che la incontra, per il comodo svezzamento che, da quella prima volta, le è stato risparmiato.

Fanculo. Avrebbe voluto viverli lei, quei momenti. E non ritrovarsi uno scopatore folle nel letto. Non che sia spiacevole. Questione di gelosia e di primordiale ius primae noctis, tutto sommato. Anche una donna lo prova, perché no?

Stronzo, se sei così esperto, fammi godere. Mentre cerca di scacciare quei pensieri folli.

Gli sfiora le mani, e se le porta sul ventre, come a sentirlo dentro di sé. E le sembra di impazzire, mentre lo avvolge e lo percorre ancora più intensamente. Perché le pare di sentirlo pulsare, dentro di sé, ma non le basta, non le basta. E lo vuole di più, di più.

In quei momenti rubati a tutto.

 

Avrebbero dovuto essere a corte, un ballo, una lunga serata.

Al tramonto, l’ha raggiunto sulla sponda, l’ha trovato lì, seduto, nonostante la pioggia, le dita intrecciate.

“Cosa ci fai qui, con questa pioggia…”

“…” Si gira a guardarla, un po’ triste.

“Ho mandato a dire che non andrò, stasera…”

Le è sembrato come se si riscuotesse dai pensieri.

“…”

“Cosa c’è?” si abbassa un po’ verso di lui. “Vieni in casa…”

“Niente, avevo detto che non sarei rientrato…” Poggia una mano a terra, fa per alzarsi, in un sospiro. Non ha voglia di tornare a casa, soprattutto di lasciare ad Oscar una serata libera, vuota, aperta, in cui cercare distrazioni altrove.

“No.” Si sorprende di quel tono. “No”, si raddolcisce. “Aspetta, allora…” gli tende una mano, lui si alza, accanto a lei.

“Dai, rientriamo…” Un sorriso timido. “Approfittiamone, allora…” un’esitazione. “E’ tanto che non parliamo…” Precisa. A scanso di equivoci. Peccato, però…

 

E ora il caminetto li scalda. Lui, bagnato come un pulcino.

Il cognac li ha un po’ rianimati.

Sarebbe quasi contenta, lei. Se non fosse quel disagio. Quel silenzio di lui.

“Che ti prende?”

Lo osserva, restare lì, muto.

Solo la pioggia, ancora. Che batte sulle lastre dei vetri e scorre. Sulle pietre. Sui rami e ricade, piccoli tonfi. Potesse arrivare sui cuori e lavare via tutto…

Anche quelle parole che non arrivano. A lungo. In un silenzio pesante.

“Allora…”

Si gira verso di lei, infine. “Tu…” poi si ferma. Un’espressione indecifrabile.

È un po’ sorpresa. “Dimmi…”

“No, niente…”

Non ha idea di cosa voglia dirle, o forse se lo aspetta, ma non le importa e neanche le va di parlarne. Sa che ogni attimo diventa prezioso. Con una mano gli stringe il braccio. Lo vede trasalire. “Avanti…”

Forse è quel contatto a dargli la forza. Forse si macera da troppo tempo. Un sorso. Due. Esita, poi, non più.

“Sei stata con… quel ragazzo…” non è neppure rabbia, e neppure disperazione. È dolore. Un dolore immane che non si spiega. Come accettare di rinunciare ad un braccio.

Lei accusa il colpo. Le dita si serrano sulla stoffa.

“Quella volta… quando ti ho vista…”

Un respiro trattenuto. Fosse solo quella volta, si dice… Poi, la voce, chiara.

“Mi dispiace…” riesce solo a rispondere. E, davvero, le dispiace, perché quella che è la sua personale vendetta deve servire a lei, non fare altro male a lui.

“Perché… perché l’hai fatto…” Una domanda senza senso. Lo sanno entrambi.

“E tu?” Se vuole, sa ferirlo. Sa che non c’è bisogno di dimostrarglielo e le dà quasi fastidio che lui insista nel farsi fare del male. Eppure, c’è solo pena nelle sue parole.

“Tu non mi hai fermato…” anche lui sa colpire.

“Tu non ti sei fermato.” Un altro duello. L’ennesimo di una vita. Abbassa un attimo lo sguardo, poi lo fissa negli occhi. Senza attendere una risposta. Perché la rabbia preme da troppo tempo. E ti devasta. “Cosa dovrei fare? Restare ad aspettarti? Guardarti vivere un’altra vita? Sapere che scopi con lei e sopportarlo senza reagire?”

“Parla piano, per favore…”

Si alza in piedi. Mettendo della distanza tra loro per non schiaffeggiarlo. Si rende conto di stare parlando come se avesse il diritto di chiederglielo. Ma decide che è così. “Davvero è questo che vuoi farmi?” Ora la voce è bassa.

Troppo comodo, troppo comodo, ragazzo. Io, non sono come lei… Lo domina dall’alto, il respiro alterato, i pugni serrati.

“No…” lui sembra mortificato per averla costretta a quella reazione. Però… “è solo… io… non tradirmi più…”

Non capisce che è la disperazione, e non l’egoismo, a farlo parlare così.

“Ma come ti permetti?” è pazzesco. “Tu tradisci me...” Si sente ferita a morte.

“No… io volevo solo sopravvivere…” E lui è scoperto. Sconfitto. Può solo ammetterlo.

è a pezzi, lei. Quella frase che la perseguita da così tanto… ma non gli concede niente. “Ognuno sopravvive come crede…” Fa per andarsene, poi, torna sui suoi passi. “E, comunque, con lui non l’ho fatto.”

Magnanima. O sommamente infida, con quell’inciso sottolineato, lui – e ipotetici altri? –, i passi svelti, per sfuggirgli lontano. Che lo sappia! Che sappia fino a che punto l’ha ridotta. Fino a che punto è arrivata. E quando ha saputo fermarsi, lei. Glielo getta in faccia, così, come una sfida. Per sorprenderlo, per l’ennesima volta. Come a dirgli che lei, sì, sa fin dove può arrivare, ma lui? Perché capisca che lei lo rispetta, ma lui?

Sembra improvvisamente sollevato “Che cosa…”

Si alza, la segue.

Il cognac si spande per terra. I calici rotolano e riflettono le fiamme.

 

La raggiunge nell’anticamera. Si chiude alle spalle la porta.

La prende per un polso, la costringe a girarsi.

“Ti voglio.” Mentre le sfiora il collo e le solleva i capelli. Gli occhi dentro i suoi.

“Sei mia…” di nessun altro, amore, solo mia… Mentre le si avvicina, in un bacio diverso da ogni altro che le ha dato, un bacio pieno di passione che la fa sua, davvero. Che la piega. La eccita. La prende. La possiede. Come un preludio al dopo. Un inizio, e non la solita fine.

“Saliamo da me…”

 

È l’urgenza che li guida.

In fretta, le scale, le porte, la stanza, la chiave. I gesti nel cercarsi, quasi nuovi – quelli di sempre. I vestiti sul pavimento. Gli stessi ambienti, che si conoscono, e stupirsi a viverli, ricordarli, in una luce diversa. Quasi in silenzio.

La sensazione bruciante e liquida di averlo dentro subito. Quella, impossibile, di volerlo di più, ancora. Quando i movimenti sembrano non bastare. La forza non essere sufficiente a serrarlo in sé. Gli spasmi ad avvolgerlo e trattenerlo. Il corpo, che sembra diventato improvvisamente più sensibile.

La pelle sotto i polpastrelli. Le strisce delle unghie.

Poi, percorrerlo, fino a quasi farlo urlare. Labbra. Lingua. Dita. Respiro. Che ricordi quello che lei sa fargli. Che ne voglia ancora. E, dopo, poggiargli, dolce, le dita sulle labbra, perché faccia piano, ché non li scoprano.

Le dita, che le serrano i seni quasi da farle male. E le piace.

Preme ancora le mani di lui contro di sé. “Ancora”, gli sussurra roca.

E quelle mani che stringono, che la fanno arcuarsi, in una scarica bagnata sotto l’ombelico, tra le gambe, a chiedere di più in movimenti febbrili. Contrarsi dal piacere. Che le tendono il ventre, al contatto con quello di lui. Di lui contro di lei. Lungo lei. Bagnata. Calda. Tutto.

“Non m’importa se sei suo, amore. Io ti voglio. So solo che ti voglio.” Gli dice, infinita. Sicura, in quei momenti soltanto loro. Su di lui, muovendosi sul suo corpo, possedendolo, trascinandolo con sé, prendendo da lui tutto, ancora ed ancora.

Ed è la prima volta che osa chiamarlo così. Se ne stupisce, come lui. E l’eccitazione cresce, a conoscere il potere di queste parole, a scoprire l’effetto che fanno su di lui, che la prende con più intensità, gli occhi pieni d’amore, la guancia di lei contro la sua spalla.

 

 

Si gira a guardarlo, nudo, accanto a sé.

Con una carezza gli percorre la schiena, con uno sguardo lo sfiora, ammirata, un sorriso lieve – è suo, ed è così bello –, mentre lui pare riscuotersi, ed abbracciarla con gli occhi. “Amore…” le dice, piano. Dolcissimo. E con un braccio le cinge la vita, in un gesto di tenerezza, possesso, consuetudine, e le si fa più vicino. Come a scaldarsi. Come a scaldarla da quel brivido che prova al contatto, all’idea. La stessa mano che ha stretto e sfiorato tante volte, sulla sua vita. Attorno a lei. Lui, la persona a cui più vuole bene. Loro due. Insieme.

Gli si rannicchia contro. Attenta alle sensazioni dei loro corpi, vicini.

Forse non era neanche sesso, riflette, ma il loro particolare modo di sentirsi vicini da una vita. Forse. O forse era sesso, anche. E neanche poi male.

 

Rimane lì, in silenzio, a studiarla. Percorrerla. Giocare coi suoi seni. Sfiorarle i capelli intrecciati tra le dita. È forse la prima volta che possono rubare del tempo. Senza rimorsi. Solo loro due. Davvero. E nessun altro. E ne approfittano. Amanti silenziosi, innamorati. Dolci e disperati.

Ma ora niente può più dividerli.

 

Laura, 2002, autunno 2005-gennaio-novembre 2006, gennaio-febbraio 2007, revisione marzo 2007, pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2007

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

Continua

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[1] 8-1-2007, solo questa frase.