Il Prezzo dell'Ignoranza
Gideon Levy, Ha'aretz, 28 dicembre 2003

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Il movimento per i diritti del popolo palestinese e per la pace in terra di Israele

Prefazione di Fiamma Bianchi Bandinelli, autrice della mail che conteneva il testo sottoriportato.

Cari amici,
in tutto il mondo spesso l' "informazione" è - più o meno volutamente - disinformazione. Israele naturalmente non fa eccezione, anzi! E proprio le notizie su quel paese sono spesso, sia là sia da noi, deformate e tendenziose.
Lo denuncia, e allo stesso tempo fa considerazioni interessanti sulla realtà israelo-palestinese, il giornalista israeliano Gideon Levy nell'articolo che segue, pubblicato sul quotidiano israeliano Ha'aretz il 28 dicembre 2003. Buona lettura! Fiamma


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articolo di Gideon Levy su Ha'aretz, 28 dicembre 2003
Traduzione di Aviram Levy e David Calef
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IL PREZZO DELL'IGNORANZA

di Gideon Levy

Shehad Hanani, il kamikaze che ha colpito a Geha Junction (l'attentato
suicida del 25 dicembre scorso, NDT), veniva da Beit Furik uno dei
villaggi più rigidamente segregati nei Territori, circondato com'é da
sbarramenti da tutte le parti. È un posto in cui donne incinte e malati
devono arrischiarsi a camminare attraverso i campi per arrivare
nell'ospedale della vicina Nablus. Almeno una donna - Rula Ashatiya - ha
partorito al check-point di Beit Furik e ha perso il bambino. Pochi
israeliani sono capaci di immaginare come si vive a Beit Furik:
disoccupazione quasi universale, povertà, un assedio che non conosce
soste e le umiliazioni di una vita vissuta dentro una prigione. Un
giovane di 21 anni come Hanani non aveva alcuna ragione per alzarsi al
mattino se non quella di affrontare un altro giorno di disoccupazione e
umiliazione.

Tuttavia gli israeliani mostrano scarso interesse a conoscere il terreno
da cui emerge il terrore. I media israeliani non dicono praticamente
nulla sulle condizioni di vita a Beit Furik. Allo stesso modo, pochi
israeliani sanno qualcosa dell'omicidio di Fadi Hanani, parente del
terrorista suicida, ucciso 10 giorni fa a Nablus. Così come in pochi si
sono accorti di tutte le uccisioni dei palestinesi dei mesi scorsi. Le
condizioni di vita a Beit Furik e l'omicidio a Nablus non giustificano
un attacco suicida ad una stazione degli autobus, ma chiunque intenda
combattere il terrore deve prima di tutto cambiare in meglio il tipo di
esistenza che si conduce a Beit Furik.

Israele ha registrato "81 giorni di quiete" senza attacchi terroristici.
Ma non esiste inganno più grande di questo. La quiete esisteva solo qui
da noi. Durante il periodo di "quiete", dozzine di palestinesi sono
stati uccisi e quasi nessuno si è disturbato a darne notizia. In questo
modo diventa possibile parlare di quiete per poi sostenere che i
palestinesi la hanno interrotta.

Ma il fatto che i media non riferiscano delle morti palestinesi non
significa che queste non abbiano avuto luogo. Per esempio, gli otto
palestinesi uccisi la settimana scorsa in un solo giorno a Rafah, - una
strage sulla scala di un attacco terroristico di media intensità oltre
alle distruzioni arrecate alla città su una scala sconosciuta in Israele
- non sono stati sufficienti a generare interesse da queste parti. Hanno
meritato appena un accenno. La comunità internazionale ha riportato con
risalto le uccisioni e il segretario generale delle Nazioni Unite ha
rilasciato una dichiarazione speciale di condanna. Solo nel paese dei
soldati autori della strage l'evento è stato ignorato. Le immagini di
enormi bulldozers e di carri-armati che demolivano una casa dopo l'altra
e le scene dei morti e dei 42 feriti - inclusi donne e bambini -
trasportati all'ospedale di Rafah sono state a stento mostrate in Israele.

Il quotidiano a grande tiratura Yedioth Ahronoth ha menzionato le
uccisioni di Rafah in un sottotitolo di una breve notizia in una pagina
interna che dava notizia delle modeste ferite riportate da una coppia di
coloni nell'insediamento di Nisanit nella striscia di Gaza a causa di un
razzo Qassam. Una copertura mediatica così disonorevole di un'operazione
così funesta dell'esercito ricorda regimi nei quali all'opinione
pubblica viene mostrato solo quanto le autorità vogliono far vedere.

Ciò non vuole essere una critica ai mezzi di informazione; si tratta
piuttosto della nostra immagine. Una società che non si cura delle
perdite di vite umane causate dai propri soldati è una società malata.
Una società che nasconde ai propri cittadini informazioni vitali come
queste sta minando la capacità di giudizio di questi ultimi. La
situazione appare ancor più complessa qualora si esamini l'atteggiamento
della società israeliana nei confronti delle proprie vittime: sono poche
al mondo le società che vivono così intensamente il proprio lutto.
Abbiamo dunque una doppia morale: contiamo solo i nostri morti, tutto il
resto non esiste.

Il fatto di occultare le informazioni ha un'altra implicazione: se non
sappiamo, nessuno chiederà mai perché. Gli otto Palestinesi sono stati
uccisi a Rafah durante la distruzione dei tunnel dove passavano le armi
senza che qualcuno si sia chiesto se la missione era giustificata con
ogni mezzo, a qualsiasi prezzo.

Questo è un piano preciso. Esso permette di presentare i palestinesi
come la sola parte colpevole, e cade su un terreno fertile. La
maggioranza della pubblica opinione non vuole sapere cosa l'esercito
israeliano stia realmente facendo nei territori occupati. Ma i mezzi di
informazione, perciò, stanno contravvenendo gravemente ai propri
obblighi. Sia quelli che sono a favore dell'occupazione sia quelli che
vi si oppongono hanno il diritto di ricevere un'informazione completa
circa il prezzo che l'occupazione comporta. Il presentare le uccisioni
come un fatto così secondario ha anche l'effetto di inviare un
pericoloso messaggio ai soldati israeliani: non c'è nulla di terribile
nell'uccidere ancora e ancora Palestinesi.

Giovedì scorso 15 passanti sono stati feriti a Gaza nel corso
dell'uccisione mirata dell'attivista della Jihad Islamica Makled Hamid.
La settimana scorsa, tre bambini, uno dei quali di cinque anni, sono
stati uccisi nel campo profughi di Balata, vicino a Nablus. La settimana
precedente, tre bambini sono stati uccisi in un solo sabato a Jenin e
nella vicina Burkin. Due palestinesi sono stati uccisi recentemente
lungo il "muro di sicurezza" a Gaza, mentre tentavano di entrare in
Israele per trovare lavoro. Sei palestinesi erano stati uccisi a Rafah
nella precedente operazione di distruzione dei tunnel, a metà mese. Un
numero crescente di bambini è stato colpito a morte vicino al campo
profughi di Qalandyah. Tutti questi episodi sono stati menzionati a
stento sui mezzi d'informazione. Ma dietro a ogni vittima Palestinese vi
sono una famiglia e degli amici, e l'odio sgorga dalle loro tombe.

Ibrahim Abd El Kadr, di Qalandiyah, che pochi mesi ha fa ha perso il suo
figlio maggiore - Fares, di quattordici anni e mezzo, è stato colpito
alla testa dai soldati - ha giurato di vendicarsi. È così difficile
comprenderlo?

Vi è dunque, un prezzo per Israele per i numerosi morti palestinesi
occultati. Queste morti sono un incentivo al terrorismo. L'avere rimosso
questi morti dal nostro "ordine del giorno" non è sufficiente a far
sparire nel nulla anche le conseguenze di queste uccisioni. Siamo certi
che Hanani avrebbe condotto la sua azione omicida all'incrocio stradale
di Geha se fosse cresciuto in condizioni umane e se i suoi parenti non
fossero stati assassinati? Questo interrogativo ci dovrebbe tormentare.
Nel frattempo, tuttavia, non è neanche "all'ordine del giorno".

Gideon Levy

Haaretz, 28 dicembre 2003

Traduzione di Aviram Levy e David Calef

 

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