Unione per le Libertà a Cuba

Liberta per i Prigionieri Politici Cubani
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Intervista a Carlos Franqui

Carlos Franqui, rivoluzionario della prima ora e poi dissidente,
ha passato molti anni nel nostro Paese: "

"Sui delitti di Fidel Castro la sinistra ha girato la testa"

di OMERO CIAI
"In Italia la sinistra ha sempre girato la testa dall'altra parte. Più con il silenzio che con l'appoggio aperto. In nome dell'antiamericanismo hanno sempre perdonato tutto a Fidel Castro. Gli intellettuali e i politici della sinistra hanno sempre saputo bene qual era la situazione dei diritti umani a Cuba ma quando con altri dissidenti andavamo a chiedere una firma di condanna a Fidel Castro ci sbattevano la porta in faccia. Mi ricordo il 1971. Fidel Castro aveva fatto arrestare un poeta, Heberto Padilla, e Luigi Nono scrisse una lettera di protesta che l'Unità si rifiutò di pubblicare".

Corre sul filo dei ricordi Carlos Franqui, il "nonno" dei dissidenti cubani che oggi vive a Portorico. Ottantaquattro anni, con Fidel sulla Sierra Maestra durante la rivoluzione, direttore di Revoluciòn, poeta, scrittore, saggista fuggito da Cuba nel 1968 quando criticare la rivoluzione voleva dire, anche in Europa, accettare l'ostracismo, l'insulto personale, l'accusa, tremenda in epoca di Guerra Fredda per un uomo di sinistra, di "tradimento".

Perché lasciò l'isola ?"
Perché non potevo essere libero, non potevo scrivere, pubblicare quello che volevo. A Cuba se non sei d'accordo con Fidel Castro sei un uomo morto. Non puoi lavorare, muori di fame. Prima venni destituito da direttore di Revoluciòn , poi mi cacciarono da direttore del Museo d'Arte moderna".

Perché venne destituito da direttore del giornale? "Pubblicai il dispaccio dell'agenzia France Press che dava la notizia della decisione di Kruscev di ritirare le rampe dei missili da Cuba. Castro non lo sapeva, il presidente sovietico non lo aveva avvisato. Ma non voleva neppure che lo sapessero i cubani. Così il giorno dopo mi processarono, solo perché avevo scritto la verità. Vissi una situazione kafkiana nella quale il colpevole della decisione di Kruscev finivo per essere io".

In quegli anni lei venne in Italia...
"Cercai di raccontare quello che succedeva a Cuba, di mettere in guardia la sinistra. Di spiegare il settarismo con cui si governava il partito comunista cubano. I processi ai dissidenti, le fucilazioni. Sono trentacinque anni che combatto per far conoscere la mostruosità del sistema castrista. Ma in Italia non mi ascoltava nessuno. All'inizio ero un poveraccio che aveva perso il lavoro al quale bisognava pagare il pranzo. Così tanto per dimostrare un po' di umana solidarietà. Poi diventavo una zanzara, un fastidio da scacciare".

Ma venne invitato anche alla Biennale di Venezia?
"Sì, c'era Ripa di Meana, fu un momento molto importante. Ma in quegli anni era molto difficile spiegare, nessuno in Italia voleva ascoltare critiche a Cuba. Ci fu anche un processo a Trento con Gianni Minà". Perché? "Lo querelai per tutte le bugie che Fidel Castro diceva su di me nel suo libro-intervista".

Come finì?
"In un pareggio. Minà mi chiese scusa e io ritirai la querela".

Una parte della sinistra italiana ha sempre difeso il regime cubano sostenendo che tutti i problemi, le difficoltà, la fame, la prostituzione, la mancanza di medicine dipendevano dall'embargo degli Stati Uniti?
"È una foglia di fico. L'embargo è applicato solo dagli Stati Uniti, dal resto del mondo no. Domandatevi questo: perché Castro non compra le medicine in Messico? La verità è che il suo sistema è un fallimento totale, che la sua politica economica ha distrutto le risorse dell'isola. Cuba non è povera per l'embargo americano, è povera perché è governata da un dittatore che proibisce l'iniziativa privata".

Si è perdonato molto a Castro anche per il Che Guevara... "Quando Guevara lasciò Cuba per andare prima in Angola e poi in Bolivia lo fece perché aveva rotto con Fidel Castro. Era un nemico anche lui. L'obiettivo di Castro era liberarsi del "Che", infatti non fece assolutamente nulla per aiutarlo, anzi forse fece qualcosa per ostacolarlo".

Per quali ragioni è stato così difficile convincere anche grandi dirigenti della sinistra italiana ?
"Io credo per l'antiamericanismo e per il mito del Terzo mondo, della rivoluzione. L'innamoramento per il regime cubano era speculare all'odio per gli Stati Uniti, per il paese del capitalismo. Nessuno aveva interesse a cercare la verità, serviva solo la propaganda".

Perché il leader cubano ha scelto la via della repressione, dopo la visita del Papa sembrava che il regime avrebbe preferito la tolleranza?
"Castro è abituato a governare le crisi con il terrore, lo ha sempre fatto. In questo momento la crisi è molto profonda a Cuba. Dopo l'11 settembre è crollato il turismo che è una delle principali fonti di ingresso per lo Stato. La crisi sta mettendo in difficoltà la sussistenza del regime, quando ha fame la gente protesta e se non ottiene nulla: si rivolta. Il terrore serve a scongiurare il rischio di una rivolta".

Castro accusa i dissidenti di essere "agenti degli Stati Uniti", di ricevere finanziamenti da Washington.
"Mi viene da ridere. Io ho pubblicato tutti i documenti nei quali si dimostra come noi quando combattemmo per fare la rivoluzione fummo aiutati dagli Stati Uniti. Allora le relazioni tra Fidel e gli Stati Uniti erano ottime". E dopo? "La sinistra italiana non ha mai accettato un fatto molto semplice: Castro non è mai stato marxista, né comunista. Ad un certo punto ha capito che poteva utilizzare l'appoggio dell'Urss per consolidare il suo potere. L'Urss, per l'importanza strategica che aveva un'isola come Cuba a novanta miglia dagli Stati Uniti, ha letteralmente mantenuto l'isola per trent'anni. Da Mosca arrivava tutto. Le macchine, i viveri, le medicine. I cubani potevano permettersi di non fare assolutamente nulla, c'erano i russi che ci mantenevano. E quando questo sistema è saltato, Castro ha inventato l'apartheid, l'isola del turismo sessuale. Non gliene è mai importato nulla del socialismo, il suo problema è stato sempre e solo il suo potere".

In che consiste il sistema che lei chiama apartheid?
"Ci sono spiagge proibite ai cubani, la più famosa è anche la più bella dell'isola: Varadero. I cubani non possono entrare negli alberghi e nemmeno nei ristoranti per i turisti. Poi c'è un sistema che ritengo mostruoso nell'industria. E' ovvio, per esempio, che non esiste il sindacato, sarebbe controrivoluzionario protestare contro il datore di lavoro. Le aziende europee che operano nell'isola possono farlo solo associandosi con il regime, al cinquanta per cento. Il lavoro degli operai viene pagato in dollari allo Stato cubano che a sua volta paga il salario ma in pesos trattenendo la differenza. Per alcune aziende è una pacchia: non ci sono proteste, nessuno sciopera. Chi alza la testa perde il lavoro e ciao. Non è un operaio che rivendica i suoi diritti, è un controrivoluzionario".

E oggi cosa dovrebbero fare l'Italia e l'Europa?
"Ci vogliono subito misure concrete, i governi europei non devono concedere crediti al regime e devono proibire alla aziende di avere rapporti di collaborazione con Cuba almeno fino a quando non vengono liberati i prigionieri politici".
(17 aprile 2003)

 

Esce su «MicroMega» una denuncia di Carlos Franqui, rivoluzionario della prima ora e poi dissidente, contro il regime dell’Avana e i suoi «complici» occidentali

Cuba, autunno di sangue per un dittatore

di CARLOS FRANQUI

Lo scontento popolare, il fatto che la gente comincia a parlare apertamente, la paura di perdere il potere, ma anche la sua perdita di protagonismo sulla scena internazionale: c’è tutto questo dietro l’ultima ondata repressiva scatenata da Fidel Castro, un uomo che - l’ho detto più volte e ne sono sempre più convinto - comanda ma non governa. In questi giorni ne abbiamo ancora una conferma: la linea del regime non è quella della repressione costante, ma è caratterizzata piuttosto da fasi alterne. Permettere che si sviluppino germogli di nuovi movimenti per poi stroncarli alla radice. È un modo per non lasciare spazio all’illusione, per spazzare via ogni entusiasmo. Negli ultimi anni ho scoperto un fenomeno interessante, uno dei più interessanti occorsi in un paese comunista: la stampa indipendente. A un certo punto, a Cuba, siamo arrivati ad avere più di cento giornalisti indipendenti: si trattava in parecchi casi di persone che avevano lavorato in passato nei media ufficiali e che decidevano di passare dall’umiliante terreno della propaganda all’esercizio di una informazione vera. A questo progetto ho cercato, e sto cercando, di dare un contributo con la rivista Carta de Cuba , che dirigo qui da Portorico e che raccoglie, quando è possibile, testimonianze dirette provenienti dall’isola, racconti di vita vissuta sotto un regime dittatoriale. La sfida era delle più coraggiose, tanto che Castro non ha tardato molto a stroncarla: verso il 2000 almeno la metà dei giornalisti indipendenti sono stati costretti a fuggire all’estero, o deportati in zone sperdute del paese, privati degli strumenti di lavoro, parecchi di loro arrestati a più riprese. Eppure, nonostante le minacce e le intimidazioni, negli ultimi due anni il movimento si era ripreso, coincidendo con lo sviluppo di quello che è stato il più coraggioso progetto per una transizione democratica a Cuba, il Progetto Varela.
Vale la pena di ricordare che il regime non ha avuto, almeno in apparenza, un comportamento lineare nel corso di questi decenni: ci fu l’epoca (anni Sessanta soprattutto) delle condanne pesantissime contro i dissidenti, condanne fino a vent’anni di carcere e anche di più; negli anni Novanta ci era sembrato di assistere a un parziale ammorbidimento (pensiamo al movimento La Patria es de Todos ), con pene contenute intorno ai cinque anni di reclusione. Ora siamo tornati alla linea del passato, di nuovo i vent’anni di carcere, quasi a mettere sull’avviso che la dissidenza non ha futuro. L’idea di Fidel Castro è chiara, il potere si mantiene con il terrore. E quanto più si sviluppa un nuovo movimento, tanto più dura e spietata dev’essere la reazione.
Si è detto che tra gli elementi che possono aver concorso a provocare questa nuova ondata repressiva - le decine d’arresti, i processi estremamente sommari senza le garanzie di difesa, le condanne «esemplari» - ci può essere stata la linea dura scelta dalla Casa Bianca con la nomina di un nuovo capo della «sezione d’interessi» Usa all’Avana, un esponente dell’ala intransigente dell’amministrazione, incaricato di condurre una politica da agente provocatore, con un appoggio esplicito ai gruppi della dissidenza. In realtà non è questo il fattore fondamentale. Sin dal trionfo della Rivoluzione, non si è mai permesso lo sviluppo di una opposizione pacifica: la linea è stata sempre e solo una, quella di reprimere. E dall’inizio è stato proprio questo uno dei più gravi motivi di contrasto tra me e Fidel Castro.
È vero, la causa principale che è stata addotta per condannare queste persone è stata quella di aver mantenuto rapporti con ambasciate straniere. Ma questo è il trionfo dell’ipocrisia. Negli ultimi anni Castro ha ricevuto centinaia di americani, anche di seconda classe, perché era convinto che il dollaro americano avrebbe salvato l’isola. Quando i talebani catturati furono trasportati a Guantanamo, Raúl Castro arrivò a dire che, se avessero tentato di fuggire, li avrebbe restituiti alle forze Usa. In un mio libro, del resto, scrivevo della relazione che abbiamo avuto con gli Stati Uniti ai tempi della clandestinità. Non si dimentichi che il 14 aprile 1958 gli Usa decisero l’embargo nella vendita di armi al regime di Fulgencio Batista, cosa che gli risultò fatale. Insomma, allora era normale avere rapporti con gli Usa, ora è diventato un delitto.
Da sempre, quello che più interessa a Fidel è stare sulle prime pagine dei giornali. Credo che non sopporti di aver perso, almeno in parte, un ruolo da protagonista sulla scena mondiale. In quest’ultimo caso, almeno la scelta dei tempi lascia pensare che l’obiettivo fosse l’opposto: cercare di passare il più possibile inosservato. L’arresto dei 78 dissidenti, tra i quali quasi trenta giornalisti, è avvenuto proprio in coincidenza con l’inizio della guerra in Iraq, quando tutta l’attenzione dei media internazionali era concentrata su quello scenario bellico. Ma le dimensioni dell’operazione repressiva, e il fatto che per la prima volta dopo 15 anni si sia arrivati ad applicare la pena di morte, non potevano non provocare una reazione forte nell’opinione pubblica mondiale. Ora si tratta di vedere se alle parole seguiranno i fatti, e quali fatti. La sfida del dittatore prima agli Usa e poi all’Europa - con la manifestazione di massa contro Aznar e Berlusconi - è una sfida solo verbale. Se la sua ira è così grande, se è davvero convinto che ci sia un complotto contro di lui, perché non ha subito espulso il capo della «sezione d’interessi» americana? E perché non nazionalizza gli hotel spagnoli all’Avana? O non decide di espellere Benetton o altre imprese italiane? Scatena la propaganda contro i governi ma non tocca gli interessi economici.
È proprio su questo terreno che si misurerà la volontà effettiva dell’Europa di agire contro questo regime. Per quanto Castro possa essere convinto del contrario, non può e non potrà mai vivere completamente isolato dal mondo, non potrà rinunciare anche all’Europa dopo aver tagliato i ponti con l’America. E allora l’Unione europea - che è sempre stata molto importante per Cuba - può e deve aumentare la pressione. Ci sono imprese, molte imprese europee, che operano a Cuba come complici del regime: bisognerebbe prenderne atto e agire di conseguenza. I governi renderebbero un grande servizio al nostro popolo se mandassero aiuti che arrivino effettivamente alla gente, cercando di evitare che passino attraverso i canali ufficiali per finire poi nei negozi per stranieri, dove medicine e beni di vario tipo vengono messi in vendita in dollari. E poi l’informazione, elemento chiave in un paese dove il regime fa di tutto per tenere la popolazione all’oscuro di tutto ciò che accade nel mondo. Perché le radio pubbliche europee non pensano di produrre notiziari che possano essere trasmessi nell’isola? Sarebbe un aiuto straordinario.
Sono solo alcuni suggerimenti, un esempio di quello che si potrebbe fare. Quello che chiede l’opposizione cubana è azione, solidarietà concreta. Non esclusivamente da parte dei governi, ma anche da parte della sinistra europea, che solo in parte ha cambiato il suo atteggiamento. Questa dittatura ha avuto la più grande complicità mondiale che si sia mai vista. A sinistra ma anche a destra, si sono troppo a lungo esaltati i falsi valori della Rivoluzione, si sono perdonati errori e prevaricazioni intollerabili. Una parte della sinistra ha cominciato a ragionare seriamente già da parecchio tempo.
Ricordo che alla fine degli anni Settanta, a Roma, a un convegno organizzato da Paolo Flores d’Arcais, emergeva questa linea dagli interventi di alcuni degli esponenti più rappresentativi della cultura italiana di sinistra: tutto quello che di negativo si dice del comunismo è vero, ma i regimi restano lì. In Italia devo riconoscere che sin dagli anni Sessanta c’era una parte importante della sinistra che ci appoggiava, ad eccezione - ovviamente - del Partito comunista, ancora lontano dalla rottura con il blocco sovietico. Oggi restano ancora scampoli di una sinistra che è rimasta cieca, che si rifiuta di vedere la realtà: ed è da lì che vengono le sue sconfitte: dagli italiani di Rifondazione comunista agli spagnoli di Izquierda Unida, questi ultimi ancora troppo timidi nella loro critica. Ma la cosa veramente importante è che, ormai, la grande maggioranza dei partiti e movimenti progressisti europei sono schierati dalla parte dei gruppi della dissidenza e dell’opposizione al regime totalitario. Agli altri, quelli che sono ancora legati nostalgicamente al passato dell’utopia comunista, posso solo suggerire per il loro bene che pensino a un altro modo di cambiare il mondo.
La domanda, a questo punto, è quando e come termineranno le sofferenze di un popolo sottoposto al giogo della dittatura, privo di qualunque spazio di libertà. Io non ho dubbi che anche questo sistema crollerà, esattamente come i regimi dell’Est. Quando e come, è difficile dirlo. Probabilmente si sbagliava chi ad un certo punto ha creduto che Fidel Castro volesse avviare una transizione lenta e morbida attribuendo alla Chiesa cubana un ruolo da protagonista. Credo che in realtà, in un certo momento, che culminò con l’organizzazione della visita del papa, cinque anni fa, egli arrivò a fare questo tipo di ragionamento: la Chiesa si occupi dello spirito, che io mi occupo dei corpi. A patto che non si metta in politica. Il rischio era contenuto perché a Cuba, non dimentichiamolo, la gerarchia ecclesiastica non ha avuto un ruolo simile a quello esercitato in paesi come il Nicaragua, il Cile e la Polonia. L’unico brivido lo vivemmo proprio in quei giorni in cui Giovanni Paolo II visitò l’isola quando in più di una occasione, durante le messe oceaniche, si levò un insolito grido: «Libertà, libertà».
Sul comunismo io ho un’idea molto precisa: distrugge tutto nella prima fase, nella seconda paralizza tutto, nella terza si autodistrugge. Ecco, credo che a Cuba siamo arrivati alla fase dell’autodistruzione. Sui tempi e i modi, si possono fare molte speculazioni. È vero che il regime, con gli ultimi processi, ha cercato di stroncare ogni speranza di poter dar vita a un movimento dell’opposizione. È anche vero che la gioventù cubana pensa, in maggioranza, che l’unica speranza di salvezza è nella fuga, a Miami o in Europa. Però ci sono un milione di persone senza lavoro. E ci sono ventimila cubani che, un anno fa, hanno avuto il coraggio di sottoscrivere il Progetto Varela, il primo tentativo serio di avviare il paese sulla strada della democrazia. Ci sono insomma tutti gli elementi per pensare che in futuro possa riprendere corpo un movimento della dissidenza. In un sistema comunista, la morte del leader unico è sempre molto importante. La scomparsa di Fidel Castro, quando avverrà, precipiterà di certo gli eventi. Ma non è detto che provochi automaticamente la caduta del regime. Il controllo dell’economia e della struttura militare è saldamente in mano al fratello Raúl. Già da tempo, c’è una parte consistente dell’apparato che è preoccupata e pensa seriamente al da farsi nel caso in cui le cose si mettano male. L’Europa può darci una grossa mano, aumentando la pressione, accelerando l’isolamento. Solo così il regime può avviarsi inesorabilmente verso l’autodistruzione.

 

 

 

PresidenteCarlos Carralero

SegretarioLeonardo Pupo

Portavoce: Joel Rodiguez

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