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La vera saldatura tra scienza geometrica pura e attività tecnica in Archimede pare aversi nel suo istinto a fisicizzare tutto, anche gli enti matematici che dovrebbero essere del tutto astratti e ideali. Egli vede le figure geometriche come risultati di un processo di costruzione assolutamente materiale: il segmento di retta, ad es., è per lui ottenuto come accostamento di punti materiali concreti; le figure piane sono riempite da tutte le corde o striscioline in cui possono essere tagliate. Non si vuol certo dire che Archimede avesse la concezione matematica arcaica, propria dei pitagorici, che consideravano gli enti geometrici come sensibili.

I punti che compongono la linea, le linee che compongono il piano, i piani che compongono il solido, sono per lui infinitamente piccoli e quindi infiniti di numero. Questo significa che essi non sono identificabili con la realtà sensibile che cade sotto la nostra immediata osservazione, ma significa anche che non sono, comunque, puramente astratti. Dietro gli enti geometrici Archimede vede la realtà fisica da cui si originano e a cui si collegano. Egli pensa in modo fisico e non matematico puro.

Archimede studia il centro di gravità non solo delle figure solide, cosa che è naturale, ma pure di quelle piane, cosa che non lo è affatto. La geometria euclidea escludeva per le figure piane ogni considerazione che sia riferibile a una solidità. Archimede invece rende fisiche le figure astratte: ma, contemporaneamente rende astratte le cose fisiche. La leva, che studia nell’opera Sull’equilibrio dei piani, ha perso gran parte della sua realtà concreta ed è ridotta a una pura linea geometrica, il cui fulcro non è altro che un punto a sua volta geometrico. Egli così opera a doppio senso, matematico e fisico, e l’uno si riferisce all’altro e non può essere senza l’altro.

Egli realizza una meccanica razionale, studiando matematicamente fenomeni fisici, ma pensa da fisico la geometria., inaugurando una “fisica della matematica” come la chiama il filosofo Augusto Guzzo nella sua opera “La scienza”. Questo modo di concepire la geometria, secondo Guzzo, egli lo vive come una tendenza naturale e spontanea, non polemizza mai con i puristi più intransigenti. Questo istinto naturale sembra il vero fondamento delle sue ricerche teoriche ma anche pratiche della sua scienza, per le quali, nonostante le affermazioni di Plutarco, Archimede doveva provare un vero gusto.

Fu Gerone a spingere lo scienziato sulla strada della applicazioni tecniche favorendone l’inclinazione della sua natura. Egli si applicò agli studi meccanici riuscendo per primo a definire i principi teorici di questa scienza. Si trattava di una novità eccezionale della scienza antica: permettere alla teoria di riferirsi alla pratica e alla scienza di avere applicazioni tecniche concrete e utili, conservando la propria dignità scientifica.

La scienza di Archimede non è nemmeno concepibile senza il riferimento alla pratica. La grande novità è il legame tra scienza e pratica per cui l’una influenza l’altra e la fa progredire. Furono i problemi pratici a spingere Archimede nella direzione della ricerca teorica portandolo a scoperte fondamentali.

In lui ci fu, come dice Frajese, pieno equilibrio, secondo il modello della classicità greca, tra l’applicazione pratica e la costruzione della teoria.

* * *

L’INGANNO DELLA CORONA DI GERONE

 Archimede è legato nelle sue ricerche all’esperienza e molte delle sue scoperte sono originate dalla necessità di risolvere problemi pratici. Lo dimostra l’episodio della corona di Gerone di cui Plutarco fa soltanto un accenno, mentre lo racconta estesamente Vitruvio. Seguiamo la versione che ne dà Favaro:

<<Il re Gerone pervenuto al trono, e riconoscendo dalla benevolenza degli dei i fausti eventi dei suo regno, volle dar loro un segno della sua gratitudine con un cospicuo dono; chiamato perciò a sé un abile artefice gli consegnò un certo peso d’oro, perché ne facesse una corona. Trascorso il tempo assegnato, l’orefice portò al re la corona che gli aveva commessa, fu riscontrato il peso corrispondente esattamente a quello dell’oro che gli era stato consegnato, e l’opera essendo stata altamente approvata fu appesa in un tempio in forma di ex-voto. Senonché di lì a non molto non è detto se in seguito a una denunzia o per qualche altro motivo, si cominciò a sospettare che la corona non fosse proprio tutta d’oro e che l’orefice, trattenuta per sé parte del nobile metallo, altro ve ne avesse mescolato fino a raggiungere il peso voluto, di che irritato il re, il quale pur non voleva che l’egregio lavoro venisse danneggiato, e manomessa in qualsiasi maniera una offerta già fatta agli dei, invitò Archimede a scoprire se o meno l’artefice avesse commessa la frode della quale era sospettato.

Preoccupato Archimede della soluzione del grave problema, egli vi pensava di continuo, finché un giorno entrando nel bagno e osservando che quanto più era del suo corpo dentro all’acqua tanto maggiore quantità ne usciva dalla tinozza, parsegli che in ciò appunto si contenessero gli elementi della soluzione che andava cercando, per la qual cosa pieno di allegrezza uscì dal bagno e così tutto nudo com’era corse a casa gridando per le vie ‘eureka, eureka’ (che in greco significa: ho trovato, ho trovato).>>

Vitruvio dà anche la spiegazione del modo in cui Archimede applicò l’intuizione avuta nel bagno per scoprire l’inganno della corona. Egli fece due masse, una d’oro e l’altra d’argento, entrambe dello stesso peso della corona. Riempì poi d’acqua un recipiente fino all’orlo immergendovi la massa d’argento. In questo modo uscì dal recipiente tanta acqua quanto era il peso della massa: gli bastò dunque togliere l’argento e riempire nuovamente d’acqua fino all’orlo il recipiente, trovando così quanta acqua corrispondeva a una certa misura d’argento. Fece quindi la stessa cosa con l’oro, trovando che era uscita meno acqua di prima dal recipiente. Riempitolo di nuovo, si accorse che immergendovi la corona stessa, ne usciva più acqua che con la massa d’oro. Da tutto ciò concluse che, evidentemente, nella corona era stato messo dall’orefice un certo quantitativo d’argento: l’inganno era così dimostrato.

Questo racconto non piacque a molti autori, perché non sembrò degno del genio di Archimede. Secondo Proco Archimede, senza sciogliere la corona scoprì il singolo peso dei metalli mescolati. In un poema attribuito a Prisciano, si legge un’altra versione dei fatti. Nell’epoca moderna neppure Galileo fu soddisfatto del racconto di Vitruvio. Ne parla già in una delle sue prime scritture giovanili, che non pubblicò mai e che intitolò “De motu antiquiora.” Galileo compì una serie di ricerche di idrostatica la cui descrizione redasse in modo dettagliato in un altro trattato cui pose il titolo “La Bilancetta” ovvero “Discorso del sig. Galileo Galilei intorno all’arteficio che usò Archimede nel scoprir il furto dell’oro nella corona di Hierone.” E’ una della prime opere del matematico pisano, che non pubblicò mai, ma che fece girare tra gli amici.

In essa Galileo indica la soluzione del problema descrivendo lo strumento che in seguito fu detto “Bilancia Idrostatica”. Fin dalle prime battute dichiara che il metodo narrato da Vitruvio: <<par cosa, per così dirla, molto grossa e lontana dall’esquisitezza, non certamente degna delle sottilissime invenzioni di sì divino uomo>>, cioè di Archimede. Per

cui, pensando <<in qual maniera, co’l mezzo dell’acqua, si potesse squisitamente trovare la mistione di due metalli, dopo aver con diligenza riveduto quello che Archimede dimostra nei suoi libri >>Delle cose che stanno nell’acqua” ed in quelli “Delle cose che pesano egualmente”, riuscì mirabilmente a trovare un modo che esquisitissimamente risolve il nostro quesito, il quale, afferma subito crederò io esser l’istesso che usasse Archimede.>>

In ogni caso, anche accettando la versione di Vitruvio, è possibile fare delle considerazioni importanti e cioè che il problema per essere risolto, richiedeva che fosse determinato il volume della corona e che questo fosse posto in relazione con il peso al fine di scoprire l’inganno. <<Ecco dunque – conclude Frajese – che il grande scopritore di volumi e di aree, determinati con esattezza matematica, è qui costretto, di fronte a questo problema, a ricorrere alla misurazione pratica, attraverso la determinazione (necessariamente imprecisa) della quantità di acqua spostata. >> Sarebbe questa un’altra conferma della duttilità e agilità intellettuale dello scienziato.