DON RAFFAE' IL GORILLASulla piazza d'una città la gente guardava con ammirazione un gorilla portato là dagli zingari d'un baraccone con poco senso del pudore le comari di quel rione contemplavano l'animale non dico come non dico dove
Attenti al gorilla
D'improvviso la
grossa gabbia dove viveva l'animale Attenti al gorilla
Il padrone si mise a urlare: "Il mio gorilla fate attenzione non ha veduto mai una scimmia potrebbe fare confusione" tutti i presenti a questo punto fuggirono in ogni direzione anche le donne dimostrando la differenza fra idea e azione Attenti al gorilla
Tutta la gente corre di fretta di qua e di là con grande foga si attardano solo una vecchietta e un giovane giudice con la toga visto che gli altri avevano squagliato il quadrumane accelerò e sulla vecchia e sul magistrato con quattro salti si portò Attenti al gorilla
"Bah" sospirò pensando la vecchia "che io fossi ancora desiderata sarebbe cosa alquanto strana e più che altro non sperata" "Che mi si prenda per una scimmia" pensava il giudice col fiato corto "non è possibile questo è sicuro" - il seguito prova che aveva torto Attenti al gorilla
Se qualcuno di voi dovesse costretto con le spalle al muro violare un giudice od una vecchia della sua scelta sarei sicuro ma si dà il caso che il gorilla considerato un grandioso fusto da chi l'ha provato però non brilla né per lo spirito né per il gusto Attenti al gorilla
Infatti lui sdegnata la vecchia si dirige sul magistrato lo acchiappa forte per un'orecchia e lo trascina in mezzo a un prato quello che avvenne tra l'erba alta non posso dirlo per intero ma lo spettacolo fu avvincente e la suspance ci fu davvero Attenti al gorilla
Dirò soltanto che sul più bello dello spiacevole e cupo dramma piangeva il giudice come un vitello negli intervalli gridava "Mamma" gridava "Mamma" come quel tale cui il giorno prima come ad un pollo con una sentenza un po' originale aveva fatto tagliare il collo Attenti al gorilla
LA CANZONE DELL'AMORE PERDUTORicordi sbocciavan le viole con le nostre parole: "Non ci lasceremo mai mai e poi mai" Vorrei dirti ora le stesse cose ma come fan presto amore ad appassir le rose così per noi L'amore che strappa i capelli è perduto ormai non resta che qualche svogliata carezza e un po' di tenerezza
E quando ti troverai in mano dei fiori appassiti al sole d'un aprile ormai lontano li rimpiangerai ma sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai d'oro per un bacio mai dato per un amore nuovo
E sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai d'oro per un bacio mai dato per un amore nuovo
Testo: F.De Andrè Anno di pubblicazione: 1965 IL TESTAMENTO DI TITO Tito: "Non avrai altro Dio all'infuori di me, spesso mi ha fatto pensare: genti diverse venute dall'est dicevan che in fondo era uguale. Credevano a un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male. Credevano a un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male. Non nominare il nome di Dio, non nominarlo invano. Con un coltello piantato nel fianco gridai la mia pena e il suo nome: ma forse era stanco, forse troppo occupato, e non ascoltò il mio dolore. Ma forse era stanco, forse troppo lontano, davvero lo nominai invano. Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone, bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone: quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore. Quanto a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore. Ricorda di santificare le feste. Facile per noi ladroni entrare nei templi che rigurgitan salmi di schiavi e dei loro padroni senza finire legati agli altari sgozzati come animali. Senza finire legati agli altari sgozzati come animali. Il quinto dice non devi rubare e forse io l'ho rispettato vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie di quelli che avevan rubato: ma io, senza legge, rubai in nome mio, quegli altri nel nome di Dio. Ma io, senza legge, rubai in nome mio, quegli altri nel nome di Dio. Non commettere atti che non siano puri cioè non disperdere il seme. Feconda una donna ogni volta che l'ami così sarai uomo di fede: Poi la voglia svanisce e il figlio rimane e tanti ne uccide la fame. Io, forse, ho confuso il piacere e l'amore: ma non ho creato dolore. Il settimo dice non ammazzare se del cielo vuoi essere degno. Guardatela oggi, questa legge di Dio, tre volte inchiodata nel legno: guardate la fine di quel nazareno e un ladro non muore di meno. Guardate la fine di quel nazareno e un ladro non muore di meno. Non dire falsa testimonianza e aiutali a uccidere un uomo. Lo sanno a memoria il diritto divino, e scordano sempre il perdono: ho spergiurato su Dio e sul mio onore e no, non ne provo dolore. Ho spergiurato su Dio e sul mio onore e no, non ne provo dolore. Non desiderare la roba degli altri non desiderarne la sposa. Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi che hanno una donna e qualcosa: nei letti degli altri già caldi d'amore non ho provato dolore. L'invidia di ieri non è già finita: stasera vi invidio la vita. Ma adesso che viene la sera ed il buio mi toglie il dolore dagli occhi e scivola il sole al di là delle dune a violentare altre notti: io nel vedere quest'uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l'amore". Testo: F.De Andrè Anno di pubblicazione: 1970 LA CANZONE DI MARINELLAQuesta di Marinella è la storia vera che scivolò nel fiume a primavera ma il vento che la vide così bella dal fiume la portò sopra una stella
Sola senza il ricordo di un dolore vivevi senza il sogno di un amore ma un Re senza corona e senza scorta bussò tre volte un giorno alla tua porta
Bianco come la luna il suo cappello come l'amore rosso il suo mantello tu lo seguisti senza una regione come un ragazzo segue l'aquilone
E c'era il sole e avevi gli occhi belli lui ti baciò le labbra ed i capelli c'era la luna e avevi gli occhi stanchi lui pose le sue mani sui tuoi fianchi
Furono baci e furono sorrisi poi furono soltanto i fiordalisi che videro con gli occhi delle stelle fremere al vento e ai baci la tua pelle
Dicono poi che mentre ritornarvi nel fiume, chissà come, scivolavi e lui che non ti volle creder morta bussò cent'anni ancora alla tua porta
Questa è la tua canzone Marinella che sei volata in cielo su una stella e come tutte le più belle cose vivesti solo un giorno come le rose e come tutte le più belle cose vivesti solo un giorno come le rose
Testo: F.De Andrè Anno di pubblicazione: 1964
CREUZA DE MÄ
Umbre de muri muri de mainé dunde ne vegnì duve l'è ch'ané da 'n scitu duve a l'ûn-a a se mustra nûa e a neutte a n'à puntou u cutellu ä gua e a muntä l'àse gh'é restou Diu u Diàu l'é in çë e u s'è gh'è faetu u nìu ne sciurtìmmu da u mä pe sciugà e osse da u Dria e a funtan-a di cumbi 'nta cä de pria E 'nt'a cä de pria chi ghe saià int'à cä du Dria che u nu l'è mainà gente de Lûgan facce de mandillä qui che du luassu preferiscian l'ä figge de famiggia udù de bun che ti peu ammiàle senza u gundun E a 'ste panse veue cose che daià cose da beive, cose da mangiä frittûa de pigneu giancu de Purtufin çervelle de bae 'nt'u meximu vin lasagne da fiddià ai quattru tucchi paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi ** E 'nt'a barca du vin ghe naveghiemu 'nsc'i scheuggi emigranti du rìe cu'i cioi 'nt'i euggi finché u matin crescià da puéilu rechéugge frè di ganeuffeni e dè figge bacan d'a corda marsa d'aegua e de sä che a ne liga e a ne porta 'nte 'na creuza de mä Testo: F.De Andrè – M.Pagani Anno di pubblicazione: 1984 * Creuza: qui impropriamente tradotto: mulattiera. In realtà la creuza è nel genovesato una strada suburbana che scorre fra due muri che solitamente determinano i confini di proprietà ** Lévre de cuppi: gatto MULATTIERA DI MARE (traduzione) Ombre di facce facce di marinai da dove venite dov'è che andate da un posto dove la luna si mostra nuda e la notte ci ha puntato il coltello alla gola e a montare l'asino c'è rimasto Dio il Diavolo è in cielo e ci si è fatto il nido usciamo dal mare per asciugare le ossa dell'Andrea alla fontana dei colombi nella casa di pietra E nella casa di pietra chi ci sarà nella casa dell'Andrea che non è marinaio gente di Lugano facce da tagliaborse quelli che della spigola preferiscono l'ala ragazze di famiglia, odore di buono che puoi guardarle senza preservativo E a queste pance vuote cosa gli darà cose da bere, cose da mangiare frittura di pesciolini, bianco di Portofino cervelli di agnello nello stesso vino lasagne da tagliare ai quattro sughi pasticcio in agrodolce di lepre di tegole E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli emigranti della risata con i chiodi negli occhi finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere fratello dei garofani e delle ragazze padrone della corda marcia d'acqua e di sale che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare JAMIN-A Lengua 'nfeuga Jamin-a lua de pelle scûa cu'a bucca spalancà morsciu de carne dûa stella neigra ch'a lûxe me veuggiu demuâ 'nte l'ûmidu duçe de l'amë dû teu arveà Ma seu Jamin-a ti me perdunié se nu riûsciò a ésse porcu cumme i teu pensë Destacchete Jamin-a lerfe de ûga spin-a fatt'ammiâ Jamin-a roggiu de mussa pin-a e u muru 'ntu sûù sûgu de sä de cheusce duve gh'è pei gh'è amù sultan-a de e bagasce dagghe cianìn Jamin-a nu navegâ de spunda primma ch'à cuæ ch'à munta e a chin-a nu me se desfe 'nte l'unda e l'ûrtimu respiu Jamin-a regin-a muaé de e sambe me u tegnu pe sciurtï vivu da u gruppu de e teu gambe Testo: F.De Andrè – M.Pagani Anno di pubblicazione: 1984 JAMINA (traduzione) Lingua infuocata Jamina lupa di pelle scura con la bocca spalancata morso di carne soda stella nera che brilla mi voglio divertire nell'umido dolce del miele del tuo alveare sorella mia Jamina mi perdonerai se non riuscirò a essere porco come i tuoi pensieri staccati Jamina labbra di uva spina fatti guardare Jamina getto di fica sazia e la faccia nel sudore sugo di sale di cosce dove c'è pelo c'è amore sultana delle troie dacci piano Jamina non navigare di sponda prima che la voglia che sale e scende non mi si disfi nell'onda e l'ultimo respiro Jamina regina madre delle sambe me lo tengo per uscire vivo dal nodo delle tue gambe SIDUN U mæ ninin* u mæ u mæ lerfe grasse au su d'amë d'amë tûmù duçe benignu de teu muaè spremmûu 'nta maccaia de stæ de stæ e oua grûmmu de sangue ouëge e denti de laete e i euggi di surdatti chen arraggë cu'a scciûmma a a bucca cacciuéi de bæ a scurrï a gente cumme selvaggin-a finch'u sangue sarvaegu nu gh'à smurtau a qué e doppu u feru in gua i feri d'ä prixún e 'nte ferie a semensa velenusa d'ä depurtaziún perché de nostru da a cianûa a u meü nu peua ciû cresce aerbu ni spica ni figgeü ciao mæ 'nin l'ereditæ l'è ascusa 'nte sta çittæ ch'a brûxa ch'a brûxa inta seia che chin-a e in stu gran ciaeu de feugu pe a teu morte piccin-a Testo: F.De Andrè – M.Pagani Anno di pubblicazione: 1984 * Vezzeggiativo che sta per bambino SIDONE (traduzione) Il mio bambino il mio il mio labbra grasse al sole di miele di miele tumore dolce benigno di tua madre spremuto nell'afa umida dell'estate dell'estate e ora grumo di sangue orecchie e denti di latte e gli occhi dei soldati cani arrabbiati con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli a inseguire la gente come selvaggina finché il sangue selvatico non gli ha spento la voglia e dopo il ferro in gola i ferri della prigione e nelle ferite il seme velenoso della deportazione perché di nostro dalla pianura al modo non possa più crescere albero né spiga né figlio ciao bambino mio l'eredità è nascosta in questa città che brucia che brucia nella sera che scende e in questa grande luce di fuoco per la tua piccola morte MÉGU MÉGUN E mi e mi e mi e anâ anâ e a l’aia sciurtî e suâ suâ e ou coêu ou coêu ou coêu da rebellâ fin a piggá piggá ou trén ou trén E ‘nta galleria génte ‘a l’íntra au scûu sciórte amarutía loêugu de 'n spesiá e 'ntu stréitu t'aguéitan te dumándan chi t'è a sustánsa e ou mesté che pe' liatri ou viaggiá ou nu l'é poi te túcca 'n purté lepegúsu e 'na stánsia lûvega e 'nte l'âtra stánsia ê bagásce a dâ ou menû e ti cu 'na quâe che nu ti voêu a tiâ 'a Bibbia 'nta miágia serrâ a ciàve ánche ou barcún e aresentíte súrvia ou coêu Uh mégu mégu mégu mè megún Uh chin-a chin-a zû da ou caragún 'Na caréga dûa nésciu de 'n turtà 'na fainà ch'a sûa e a ghe manca 'a sâ tûtti sûssa résca da ou xattá in zû se ti gíi 'a tèsta ti te véddi ou cû e a stâ foêa gu'è ou repentin ch'a te túcche 'na pasciún pe 'na fàccia da Madònna ch'a a te spósta ou ghirindún ûn amú mai in esclusiva sémpre cun quarcósa da pagâ na scignurín-a che súttu â cúa a gh'a ou gárbu da scignúa Uh mégu mégu mégu mè megún Uh chin-a chin-a zû da ou caregún Uh che belin de 'n nólu che ti me faiésci fâ Uh ch'a sún de piggiâ de l'aia se va a l'uspià E mi e mi e mi nu anâ nu anâ stâ chi stâ chi stâ chi durmî durmî e mi e mi e mi nu anâ nu anâ stâ chi stâ chi stâ chi asûnáme Testo: F.De Andrè – I.Fossati Anno di pubblicazione: 1990 MEDICO MEDICONE (traduzione) E io e io e io e andare andare e uscire all'aria sudare sudare e il cuore il cuore il cuore da trascinare fino a prendere a prendere il treno il treno E nella galleria la gente entra al buio esce ammalata cesso d'un farmacista e nello stretto ti guardano ti domandano chi sei il patrimonio e il mestiere che per loro il viaggiare non lo è poi ti tocca un portiere viscido e una stanza umida e nell'altra stanza le bagasce a dare il menù e tu con una voglia che non vuoi a tirare la Bibbia nel muro chiudere a chiave anche la finestra e a ciambellarti sopra il cuore Uh medico medico medico mio medicone Uh vieni vieni giù dal seggiolone Una sedia dura scemo di un tortaio una farinata che suda e le manca il sale tutti succhiatori di lische dal pappone in giù se giri la testa ti vedi il culo e a star fuori c'è il rischio che ti tocchi una passione per una faccia da Madonna che ti sposta il comò un amore mai in esclusiva sempre con qualcosa da pagare una signorina che sotto la coda ha il buco da signora Uh medico medico medico mio medicone uh vieni vieni giù dal seggiolone uh che cazzo di contratto mi faresti fare uh che a forza di prendere aria si va all’ospedale E io e io e io non andare non andare stare qui stare qui stare qui dormire dormire e io e io e io non andare non andare stare qui stare qui stare qui sognare A PITTIMA Cosa ghe possu ghe possu fâ se nu gh'ò ë brasse pe fâ u mainä se infundo a e brasse nu gh'ò ë män du massacán e mi gh'ò 'n pûgnu dûu ch'u pâ 'n niu gh'ò 'na cascetta larga 'n diu giûstu pe ascúndime c'u vestiu deré a 'n fiu e vaddu in giù a çerca i dinë a chi se i tegne e ghe l'àn prestë e ghe i dumandu timidamente ma in mezu ä gente e a chi nu veu däse raxún che pâ de stránûä cuntru u trun ghe mandu a dî che vive l'è cäu ma a bu-n mercöu mi sun 'na pittima rispettä e nu anâ 'ngíu a cuntâ che quandu a vittima l'è 'n strassé ghe dö du mæ Testo: F.De Andrè – M.Pagani Anno di pubblicazione: 1984 * Alla pittima, ancora oggi sinonimo di persona insistente, noiosa, appiccicosa, si affidava il compito da parte di cittadini privati dell'antica Genova di esigere i crediti dei debitori insolventi. LA PITTIMA (traduzione) Cosa ci posso fare se non ho le braccia per fare il marinaio se in fondo alle braccia non ho le mani del muratore e ho un pugno duro che sembra un nido ho un torace largo un dito giusto per nascondermi con il vestito dietro a un filo e vado in giro a chiedere i denari a chi se li tiene e glieli hanno prestati e glieli domando timidamente ma in mezzo alla gente e a chi non vuole darsi ragione che sembra di starnutire contro il tuono gli mando a dire che vivere è caro ma a buon mercato io sono una pittima rispettata e non andare in giro a raccontare che quando la vittima è uno straccione gli do del mio A DUMENEGA Quandu ä dumenega fan u gíu cappellin neuvu neuvu u vestiu cu 'a madama a madama 'n testa o belin che festa o belin che festa a tûtti apreuvu ä pruccessiún d'a Teresin-a du Teresún tûtti a miâ ë figge du diàu che belin de lou che belin de lou e a stu luciâ de cheusce e de tettín ghe fan u sciätu anche i ciû piccin mama mama damme ë palanche veuggiu anâ a casín veuggiu anâ a casín e ciû s'addentran inta cittæ ciû euggi e vuxi ghe dan deré ghe dixan quellu che nu peúan dî de zeùggia sabbu e de lûnedì a Ciamberlinú ** sûssa belin ä Fuxe cheusce de sciaccanuxe in Caignàn musse de tersa man e in Puntexellu ghe mustran l'öxellu e u direttú du portu c'u ghe vedde l'ou 'nte quelle scciappe a reposu da a lou pe nu fâ vedde ch'u l'è cuntentu ch'u meu-neuvu u gh'à u finansiamentu u se cunfunde 'nta confûsiún cun l'euggiu pin de indignasiún e u ghe cría u ghe cría deré bagasce sëi e ghe restè e ti che ti ghe sbraggi apreuvu mancu ciû u nasu gh'avei de neuvu bruttu galûsciu de 'n purtòu de Cristu nu t'è l'únicu ch'u se n'è avvistu che in mezzu a quelle creatúe che se guagnan u pan da nûe a gh'è a gh'è a gh'è a gh'è a gh'è anche teu muggè a Ciamberlin sûssa belin ä Fuxe cheusce de sciaccanuxe in Caignàn musse de tersa man e in Puntexellu ghe mustran l'öxellu Testo: F.De Andrè – M.Pagani Anno di pubblicazione: 1984 * Era costume della vecchia Genova che le prostitute fossero relegate in un quartiere della città. Tra i diritti ad esse riconosciuti vi era quello della passeggiata domenicale. Il Comune era solito dare in appalto le case di tolleranza con i cui ricavi pare riuscisse a coprire quasi per intero gli annuali lavori portuali ** Denominazione di piazze, vie o località di Genova LA DOMENICA (traduzione) Quando alla domenica fanno il giro cappellino nuovo nuovo il vestito con la madama la madama in testa cazzo che festa cazzo che festa e tutti dietro alla processione della Teresina del Teresone tutti a guardare le figlie del diavolo che cazzo di lavoro che cazzo di lavoro e a questo dondolare di cosce e di tette gli fanno il chiasso anche i più piccoli mamma mamma dammi i soldi voglio andare a casino voglio andare a casino e più si addentrano nella città più occhi e voci gli danno dietro gli dicono quello che non possono dire di giovedì di sabato e di lunedì a Pianderlino succhia cazzi alla Foce cosce da schiaccianoci in Carignano fighe di terza mano e a Ponticello gli mostrano l'uccello e il direttore del porto che ci vede l'oro in quelle chiappe a riposo dal lavoro per non fare vedere che è contento che il molo nuovo ha il finanziamento si confonde nella confusione con l'occhio pieno di indignazione e gli grida gli grida dietro bagasce siete e ci restate e tu che gli sbraiti appreso neanche più il naso avete di nuovo brutto stronzo di un portatore di Cristo non sei l'unico che se ne è accorto che in mezzo a quelle creature che si guadagnano il pane da nude c'è c'è c'è c'è c'è anche tua moglie a Pianderlino succhia cazzi alla Foce cosce da schiaccianoci in Carignano fighe di terza mano e a Ponticello gli mostrano l'uccello 'A ÇIMMA Ti t'adesciâe 'nsce l'éndegu du matin ch'á luxe a l'à 'n pé 'n tèra e l'átru in mà ti t'ammiâe a uo spégiu de 'n tianin ou çé ou s'amnià a ou spegiu dâ ruzà ti mettiâe ou brûgu réddenu 'nte 'n cantún ti mettiâe ou brûgu réddenu 'nte 'n cuxín-a á stría a xeûa de cuntâ 'e págge che ghe sún 'a çimma a l'è za pinn-a a l'è za cûxia Çé serén tèra scûa carne ténia nu fâte néigra nu turnâ dûa Bell'oueggé strapunta de tûttu bun prima de battezálu 'ntou prebuggíun cun dui aguggiuîn drítu 'n púnta de pé da súrvia 'n zû fítu ti 'a punziggè àia de lûn-a végia de ciaêu de négia ch'ou cégu ou pèrde 'a tèsta l'âse ou senté oudú de mâ miscióu de pèrsa légia cos'âtru fâ cos'âtru dàghe a ou çé Çé serén tèra scûa carne ténia nu fâte néigra nu turnâ dûa e 'nt'ou núme de Maria tûtti diài da sta pûgnatta anène via Pio vegnan a pigiàtela i câmé te lascian tûttu ou fûmmu d'ou toêu mesté tucca a ou fantín à príma coutelà mangè mangè nu séi chi ve mangià Çé serén tèra scûa carne ténia nu fâte néigra nu turnâ dûa e 'nt'ou núme de Maria tûtti diài da sta pûgnatta anène via Testo: F.De Andrè – I.Fossati Anno di pubblicazione: 1990 LA CIMA (traduzione) Ti sveglierai sull’indaco del mattino quando la luce ha un piede in terra e l'altro in mare ti guarderai allo specchio di un tegamino il cielo si guarderà allo specchio della rugiada metterai la scopa diritta in un angolo che se dalla cappa scivola in cucina la strega a forza di contare le paglie che ci sono la cima è già piena è già cucita Cielo sereno terra scura carne tenera non diventare nera non ritornare dura Bel guanciale materasso di ogni ben di Dio prima di battezzarla nelle erbe aromatiche con due grossi aghi dritto in punta di piedi da sopra e sotto svelto la pungerai aria di luna vecchia di chiarore di nebbia che il chierico perde la testa e l'asino il sentiero odore di mare mescolato a maggiorana leggera cos'altro fare cos'altro dare al cielo Cielo sereno terra scura carne tenera non diventare nera non ritornare dura e nel nome di Maria tutti i diavoli da questa pentola andate via Poi vengono a prendertela i camerieri ti lasciano tutto il fumo del tuo mestiere tocca allo scapolo la prima coltellata mangiate mangiate non sapete chi vi mangerà Cielo sereno terra scura carne tenera non diventare nera non ritornare dura e nel nome di Maria tutti i diavoli da questa pentola andate via SINÁN CAPUDÁN PASCIÁ Teste fascië 'nscià galéa ë sciabbre se zeugan a lûn-a a mæ a l'è restà duv'a a l'éa pe nu remenalu ä furtûn-a intu mezu du mä gh'è 'n pesciu tundu che quandu u vedde ë brûtte u va 'nsciù fundu intu mezu du mä gh'è 'n pesciu palla che quandu u vedde ë belle u vegne a galla ** E au postu d'i anni ch'ean dedexenueve se sun piggiaë ë gambe e a mæ brasse neuve d'allua a cansún l'à cantà u tambûu e u lou s'è gangiou in travaggiu dûu vuga t'è da vugâ prexuné e spuncia spuncia u remu fin au pë vuga t'è da vugâ turtaiéu *** e tia tia u remmu fin a u cheu e questa a l'è a ma stöia e t'ä veuggiu cuntâ 'n po' primma ch'à vegiàià a me peste 'ntu murtä e questa a l'è a memöia a memöia du Cigä ma 'nsci libbri de stöia Sinán Capudán Pasciá E suttu u timun du gran cäru c'u muru 'nte 'n broddu de fàru 'na neutte ch'u freidu u te morde u te giàscia u te spûa e u te remorde e u Bey assettòu u pensa ä Mecca e u vedde ë Urì 'nsce 'na secca ghe giu u timùn a lebecciu sarvàndughe a vitta e u sciabeccu amü me bell'amü a sfurtûn-a a l'è 'n grifun ch'u gia 'ngiu ä testa du belinun amü me bell'amü a sfurtûn-a a l'è 'n belin ch'ù xeua 'ngiu au cû ciû vixín e questa a l'è a ma stöia e t'ä veuggiu cuntâ 'n po' primma ch'à a vegiàià a me peste 'ntu murtä e questa a l'è a memöia a memöia du Cigä ma 'nsci libbri de stöia Sinán Capudán Pasciá. E digghe a chi me ciamma rénegôu che a tûtte ë ricchesse a l'argentu e l'öu Sinán gh'a lasciòu de luxî au sü giastemmandu Mumä au postu du Segnü intu mezu du mä gh'è 'n pesciu tundu che quandu u vedde ë brûtte u va 'nsciù fundu intu mezu du mä gh'è 'n pesciu palla che quandu u vedde ë belle u vegne a galla Testo: F.De Andrè – M.Pagani Anno di pubblicazione: 1984 * Nella seconda metà del XV secolo in uno scontro alle isole Gerbe tra le flotte della repubblica di Genova e quella turca insieme ad altri prigionieri venne catturato dai Mori un marinaio di nome Cicala che divenne in seguito Gran Visir e Serraschiere del Sultano assumendo il nome di Sinán Capudán Pasciá ** Ritornello popolare di alcune località rivierasche tirreniche *** Turtaieu: letteralmente "imbuto". Termine indicante un individuo che mangia smodatamente SINÁN CAPUDÁN PASCIÁ (traduzione) Teste fasciate sulla galea le sciabole si giocano la luna la mia è rimasta dov'era per non stuzzicare la fortuna in mezzo al mare c'è un pesce tondo che quando vede le brutte va sul fondo in mezzo al mare c'è un pesce palla che quando vede le belle viene a galla E al posto degli anni che erano diciannove si sono presi le gambe e le mie braccia da allora la canzone l'ha cantata il tamburo e il lavoro è diventato fatica voga devi vogare prigioniero e spingi spingi il remo fino al piede voga devi vogare imbuto e tira tira il remo fino al cuore e questa è la mia storia e te la voglio raccontare un po' prima che la vecchiaia mi pesti nel mortaio e questa è la memoria la memoria del Cicala ma sui libri di storia Sinán Capudán Pasciá e sotto il timone del gran carro con la faccia in un brodo di farro una notte che il freddo ti morde ti mastica ti sputa e ti rimorde e il Bey seduto pensa alla Mecca e vede le Uri su una secca gli giro il timone a libeccio salvandogli la vita e lo sciabecco amore mio bell'amore la sfortuna è un avvoltoio che gira intorno alla testa dell'imbecille amore mio bell'amore la sfortuna è un cazzo che vola intorno al sedere più vicino e questa è la mia storia e te la voglio raccontare un po' prima che la vecchiaia mi pesti nel mortaio e questa è la memoria la memoria di Cicala ma sui libri di storia Sinán Capudán Pasciá E digli a chi mi chiama rinnegato che a tutte le ricchezze all'argento e all'oro Sinán ha concesso di luccicare al sole bestemmiando Maometto al posto del Signore in mezzo al mare c'e' un pesce tondo che quando vede le brutte va sul fondo in mezzo al mare c'è un pesce palla che quando vede le belle viene a galla
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