CARLOFORTE E LA SUA TONNARA

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Io ho anche un altro grande amore, l'Isola di San Pietro e la sua città Carloforte.  L'isola è circondata da un mare splendido, un insieme di spiagge di sabbia bianca e scogli, dove è possibile nuotare, fare snorkeling per curiosare il fondo marino, pieno di pesci, polpi, conchiglie, ricci.  Qui parlano ancora un genovese arcaico, che gli abitanti chiamano "tabarkino" e poi c'è la storica tonnara e il faro di Capo Sandalo, maestoso e romantico sulla cima di un'alta roccia.  In cielo volano i falchi della regina, così chiamati da Eleonora d'Arborea, ormai molto rari, che che in quest'isola ancora nidificano.  Gli abitanti sono di una cordialità unica, ospitali, gentili, sempre pronti a fare con voi una bella chiaccherata.  Sono di una razza forte, antica, derivano da quegli abitanti di Pegli che anticamente erano andati a Tabarka, in Africa, a pescare corallo e che, dopo molte vicissitudini e avere provato anche la schiavitù, sono finalmente approdati all'Isola di San Pietro dove, dal 1738, sono diventati liberi di costruirsi il loro futuro.    Sono una stirpe di uomini di mare e tali sono rimasti.

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CARLOFORTE E LA SUA TONNARA

di Annamaria “Lilla” Mariotti

 L’isola di San Pietro, conosciuta semplicemente anche come  CARLOFORTE dal nome della sua unica città, l’isola verde, l’isola degli sparvieri, 52 Kmq di superficie, 18 miglia marine di coste, latitudine 39° 9’ Nord, longitudine 8° 16’  Est, 7000 abitanti che durante l’estate  raggiungono punte di 40.000/50.000 persone, situata nel Mediterraneo meridionale, lungo la costa Sud Occidentale della Sardegna.   Una piccola isola, un mondo magico, che ha una storia antica.   Lì ci sono stati i Fenici prima ed i Cartaginesi poi, ma prima ancora deve esserci stato qualche insediamento in età preistorica perchè recentemente sono stati ritrovati dei nuraghi.   Fu colonizzata nel 1738 da un gruppo di pescatori di corallo originari di Pegli,  in provincia di Genova, che intorno al 1500 si erano trasferiti nella minuscola isola di Tabarka, sulle coste Tunisine,  allora data in concessione alla Famiglia Lomellini di Genova,  per raccogliere il prezioso oro rosso in fondo al mare.  Tabarka, un minuscolo scoglio, incoltivabile, dove la piccola comunità originale cresceva e si trovava a vivere stipata in baracche, conducendo una vita al limite del possibile,  sempre all’erta su quella frontiera rovente che divideva due religioni, due mondi, e, sopratutto, con il continuo pericolo di incursioni barbaresche.   Tutto questo durò due secoli di fatiche per strappare al mare il corallo e per sopravvivere, finchè furono abbandonati al loro destino dalla grande famiglia Genovese.  Fu così che divennero schiavi del Bey di Tunisi e le loro condizioni si fecero anche peggiori.  Il Re Carlo Emanuele III di Savoia, dopo lunghissime trattative, riuscì a liberarli e destinò loro l’isola di San Pietro, allora deserta, perchè potessero colonizzarla e creare una comunità libera.  Su questo fatto fiorirono anche delle leggende : si narra che una ragazza che faceva parte del gruppo ed aveva attirato l’attenzione del Bey abbia accettato di sposarlo e di rimanere in Tunisia a patto che gli schiavi venissero liberati, e si dice che il  Bey, colpito dalla sua bellezza, l’abbia accontentata

Fu il vecchio patriarca della comunità di Tabarka, Agostino Tagliafico a condurre le trattative finali ed a recarsi sull’isola per un sopralluogo e fu lo stesso Tagliafico che ricorse ad un escamotage per portare il maggior numero possibile di persone a San Pietro.  Era stato deciso che sull’isola potevano recarsi solo centoquaranta persone, ma il patriarca, con saggezza tutta ligure, finse di non capire e intese che vi si sarebbero trasferita centoquaranta famiglie e così avvenne.    I Tabarchini si trasferirono a San Pietro nel Febbraio del 1738 e nel giro di due anni avevano già costruito la città, la fortezza, le mura ed avevano già iniziato a coltivare la terra ed a pescare.   Ed è questa la forza che tuttora li tiene uniti, dopo 500 anni, e ne fa un popolo speciale, unico.   

Noiose notizie storiche ?    No, ho voluto raccontare la storia della colonizzazione di Carloforte per capire meglio questa gente che è aggregata da ben 500 anni, che è diventata un popolo, che ha trasformato in una lingua locale l’arcaico dialetto parlato dai loro antenati, perchè a Carloforte non si parla Genovese, ma Tabarchino e tutti lo parlano dagli anziani ai bambini.   Dovunque in Italia si fanno tentativi e nascono iniziative per  mantenere le tradizioni e non far morire i dialetti ;  qui a Carloforte abbiamo sotto gli occhi un esempio di come la tradizione, alle volte, sia più forte del passare del tempo.     

Ogni volta che vado all’isola io me ne sto sul ponte, mentre il traghetto entra lentamente in porto tra la diga di maestrale e la diga di scirocco,  a gustarmi l’arrivo a Carloforte, l’avvicinarsi del paese con le sue case basse  a colori pastello, un miscuglio di africano e di ligure, i ficus beniaminus giganti e le palme del lungomare, l’mponente costruzione celeste dell’Istituto Nautico dove studiano quasi tutti i ragazzi del posto, e la statua di Carlo Emanuele III proprio davanti all’attracco, un vecchio amico che rivedo sempre con piacere.   Statua originale o vecchio reperto romano su cui è stata attaccata una testa del ‘700 ?    Anche questa è una leggenda  locale  a cui non si sa se dar credito o no.    

Quello che provo quando finalmente scendo dal traghetto è difficile da descrivere.  Dopo un viaggio durato almeno 14 ore fra traghetti dal continente e traversata della Sardegna  ho raggiunto il mio Eldorado, la terra che tengo dentro al mio cuore, la mia patria segreta.  Sento un’ondata di gioia che mi sale dall’interno, arriva fino alla gola, agli occhi che si riempono di lacrime, una gioia così intensa che fa quasi male, eppure liberatoria.   So che ora potrò godermi l’isola in lungo e in largo, parlare con la sua gente, salire al faro, annusare la sua aria profumata di mirto e rosmarino,  tuffarmi nelle sua acque cristalline, girare per le sua viuzze, e so che, grazie al mio dialetto ligure, potrò mescolarmi alla popolazione, per cercare di non sentirmi un’ estranea turista di passaggio.  

 Ho sempre qualche progetto quando vado a Carloforte, oltre a quello di nuotare, nuotare, nuotare.   Quest’anno il mio progetto era quello di saperne di più sulla sua tonnara, ma quando mi sono presentata allo stabilimento per la lavorazione del tonno, armata di macchina fotografica e con l’aiuto di un carissimo amico del posto che mi ha presentato con tutte le mia credenziali, un cortese, ma inflessibile guardiano mi ha impedito l’ingresso. La proprietà non gradisce i curiosi.    Non mi sono lasciata intimidire e, dopo avere fatto qualche foto all’esterno, sono andata a cercare le mie informazioni altrove.   E le ho trovate, tra la gente del posto e nel piccolo, bellissimo Museo che la città ha dedicato alla “sua” tonnara. 

 Prima di tutto non si parla della tonnara di Carloforte, ma delle tonnare di Portopaglia, Portoscuso e Isola Piana, perchè nella storia Carlofortina queste  tonnare sono  sempre state in qualche modo accumunate.   La pesca del tonno con le reti in Sardegna e altrove ha origini antichissime, pare sia già stata praticata dai Fenici, dai Romani e anche dagli Arabi ;   sicuramente gli Spagnoli diedero grande impulso allo sfruttamento dei banchi di tonno che transitavano numerosi lungo le coste occidentali sarde.   Anche il termine “mattanza”  ha una chiara origine spagnola, “matar” significa uccidere e la “mattanza” è la fase finale della pesca con la tonnara, l’annientamento completo di tutti i tonni finiti nella rete.   Tutte e tre le tonnare Sulcitane  risultano in attività da tempi antichi : Portopaglia nel 1420, Portoscuso nel 1594 e Isola Piana  nel 1698.    Noi parleremo di una sola di queste tonnare, quella dell’Isola Piana o, meglio, di Carloforte, perchè sono la stessa cosa.  L’Isola Piana non esiste più come stabilimento per la lavorazione del tonno, da molto tempo è ormai trasformata in un piacevole villaggio vacanze, bello ed esclusivo, e i suoi stabilimenti si sono trasferiti sull’Isola di San Pietro, in una località chiamata “La Punta”, gomito a gomito con lo stabilimento di Carloforte.   Le reti vengono calate lungo la costa settentrionale dell’isola, in una zona ben precisa tra le “Tacche Bianche” e la “Punta delle Oche”.  Ha una superficie totale di 1550 m. ; solo il pedale è lungo 1050 m., e il resto della rete, con le sue sei stanze, ha una superficie di 500 m.   Non si vede quasi niente in superficie, tutto è nascosto sott’acqua, come una città sommersa.    Il tonno rosso (Thunnus thynnus), pesce pelagico che vive solitamente nei mari freddi del nord Atlantico e può pesare fino a 400 Kg., in primavera inizia un viaggio d’amore verso acque più calde ed entra nel Mediterrano dallo Stretto di Gibilterra per riprodursi.   E’ uno strano animale il tonno, segue la costa, dove l’ acqua è poco profonda e dove la femmina deporrà le uova, e nuota guardando solo e sempre dal lato sinistro, come se ci vedesse da un occhio solo, così i pescatori tendono una rete che va dalla riva verso il largo e che si chiama “pedale” o “coda”, a seconda delle località e che sbarra il passo a questo corridore dei mari, che vira e la segue, credendola la costa, ed entra così nella prima stanza della tonnara, la “Camera di levante” da dove passa, attraverso una serie di porte fatte di maglia di cocco,  nella “grande” e da lì  in un’altra camera, il “bordonaro” e poi un’altra ancora, il “bastardo”, poi un’ultima stanza, la “camera di ponente” per finire infine nella “camera della morte”  da dove non ha via d’uscita.   Periodicamente questa camera viene sollevata dal tonnarotti che si trovano sui “vascelli” e, guidati dal “Rais”, danno inizio alla “mattanza”  tirando prima il sacco tra un quadrato di barche e poi, quando il sacco è sollevato, uncinando i tonni uno per uno e tirandoli a bordo.   Sembra una cosa crudele, e forse lo è, ma in quel momento i pescatori stanno compiendo gesti secolari, accompagnati da canti antichi e grida di esortazione, perché la pesca del tonno è benessere per tutti, se si pescano tanti tonni l’inverno sarà buono, ci sarà legna per scaldarsi e buon pane fresco da mangiare e anche, perché no, del buon vino da bere.   La stagione di pesca dura poco, le reti si calano a Maggio e restano in mare circa 45 giorni. Poi ne deriva un gran lavoro per tutti : le reti da riparare o da rifare, il pesce da salare e da inscatolare, le uova della femmina da lavorare per ricavarne la squisita bottarga e tutto questo tiene occupata una buona parte della popolazione per il resto dell’anno.    Ora le cose sono molto cambiate,   i tonni non vengono più pescati come in passato. “Ne passano molto meno”, dicono i pescatori “il tonno ha cambiato rotta”.    Ultimamente è stata di nuovo calata, dopo molto tempo, la tonnara di Porto Paglia e si dice che sia a causa di questo impianto se il tonno devia dalla zona di Carloforte.  Ma come può essere cambiato il codice genetico di questo pesce fiero e possente, a cui l’istinto  dice di scendere verso Sud in primavera e di nuotare verso Ponente fin dalla notte dei tempi ?    Non è il tonno che è cambiato, ma l’uomo.   Un’  inquinamento delle acque prospicienti Carloforte ha impedito di calare le reti della tonnara per diversi anni e, una volta superato questo problema, ne è nato un altro.  Grosso pescherecci oceanici fanno la caccia al tonno nel Mediterraneo, addirittura lo aspettano prima che entri dallo Stretto di Gibilterra.  Hanno strumenti sofisticati e, spesso, anche l’ausilio di elicotteri, così quando avvistano un banco di tonni, calano in mare delle camere della morte volanti, direttamente sul pesce, facendo sempre un buon bottino.   Il pesce viene poi lavorato in un primo tempo  a bordo e preparato per essere portato alle industrie per l’inscatolamento o spedito direttamente in Giappone.   Una cosa molto triste che capita con questo tipo di pesca è che alle volte, insieme ai tonni, vengono catturati anche dei delfini.   Certe industrie conserviere americane scrivono sulle loro scatolette  che il contenuto è solo carne di tonno e non di delfino ;  questa voce si è sparsa e molta gente ha delle remore a consumare il prelibato pesce  in scatola.   Nella tonnara tradizionale questo è difficile che succeda.  Ora i Rais sono coadiuvati dai sommozzatori che periodicamente ispezionano le reti e se qualche delfino finisce insieme ai tonni, lo liberano.  La tonnara di Carloforte continua il suo lavoro, sia pure tra i “mugugni”, e nel 2001 ha pescato 4.000 tonni.

 Il mio ultimo incontro con la tonnara l’ho avuto nel piccolo grande  Museo di Carloforte, allestito nel più antico edificio della città e pieno di attrezzi, modellini e vecchie scatole di tonno, inscatolate sia a  Carloforte che nelle vicine tonnare,  che danno un chiarissimo esempio di quanto i Carlofortini amino questo tipo di pesca.  Lì un plastico mostra come il tonno veniva lavorato a Porto Paglia, ho visto i terribili uncini usati per issare il tonno a bordo durante la “mattanza”, i tipi di corde utilizzate per allestire la grande rete e le macchine usate per fabbricarle.    In mezzo ad una sala ho trovato il modello della tonnara, questo grande palazzo fatto di reti, ancore e galleggianti.  Dedalo non avrebbe potuto costruire labirinto migliore per far perdere la rotta ai tonni e permettere all’uomo di catturarli. 

Al Museo ho anche imparato la preghiera che i tonnarotti, in piedi e a capo scoperto, guidati dal Rais,  recitavano all’alba del giorno destinato alla “mattanza”.  Voglio riportarla qui di seguito per concludere la mia incursione nella tonnara di Carloforte.  Iniziavano con una “Ave Maria” indirizzata alla Madonna e un “Credo” dedicato allo Spirito Santo.  Alla fine recitavano sette “Pater Nostro”  con queste invocazioni :

S.Antoniu, Cu ne desbarasse u camin e cu n’asciste in te nostre operasuin

 (S. Antonio, che ci liberi il cammino e che ci assista nelle nostre operazioni) 

S. Giorgiu, Cu ne libere dai pesci cattii

(S. Giorgio, che ci liberi dai pesci cattivi)

S. Gaitan, Cu ne mande da Pruvvidensa 

(S. Gaetano, che ci mandi della Provvidenza)

e a questa invocazione i tonnarotti rispondevano “ o nu che u l’ha i pigoeggi” (no, che ha i pidocchi).  Questa risposta era un riferimento a qualche personaggio locale, ma sopratutto aveva un valore scaramantico.

Le invocazioni terminavano con :
S. Pe’, Cu ne mande na bugna pesca

(S. Pietro, che ci mandi una buona pesca) 

e con altri due Pater Nostro per i defunti e per i Santi Protettori. 

 

Finita la preghiera il Rais pronunciava il rituale : “In nome de Diu, molla” , il segnale per l’apertura delle porte che lasciavano entrare il tonno  nella camera della morte.  Solo alla fine di tutto questo cerimoniale il Rais dava con voce possente ai suoi tonnarotti il comando tanto atteso  : “LEVA” .    A questo segnale   i tonnarotti si scatenavano e in un tripudio di urla, canti e grida di incitamento iniziavano a sollevare la grande rete a forza di braccia finchè, in un ribollire di schiuma, pinne e code che sbattevano si concludeva l’eterna sfida tra l’uomo e la sua preda.

   

Foto di Annamaria "Lilla" Mariotti e di archivio

 

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