E l’ateniese Isocrate plaudì al re macedone. Deluso dalla democrazia, si assoggettò a Filippo


Isocrate nacque ad Atene (436 a.C.) nell'epoca d'oro della città, il V secolo della democrazia, di Pericle, della costruzione del Partenone. Aveva cinque anni Isocrate quando, con l'invasione spartana dell'Attica (431), iniziò la guerra del Peloponneso; ne aveva 32 nel momento in cui la città fu sconfitta (404) e fu instaurato il cosiddetto governo dei Trenta Tiranni. Visse, Isocrate, 98 anni, fino al 338, allorché la sconfitta di Atene nella battaglia di Cheronea segnò la definitiva affermazione della dinastia macedone: dapprima Filippo II e, dopo il suo assassinio (336), Alessandro Magno, quell'Alessandro che diede alla Grecia il più grande impero che si sia visto nel mondo antico. È quasi incredibile che un uomo abbia vissuto per un periodo così esteso, lungo l'intero arco di quella che i manuali di storia liquidano più o meno sbrigativamente come la «transizione» dall'età di Pericle a quella di Alessandro. Ed è sicuramente per questo motivo che a Isocrate è dedicato il capitolo introduttivo del libro di Michael Scott, Dalla democrazia ai re. La caduta di Atene e il trionfo di Alessandro Magno, che l'editore Laterza si accinge a dare alle stampe.
Quando aveva cinquant'anni, Isocrate, che pure non occupò mai una posizione ufficiale, aprì ad Atene una scuola con cui influenzò il pensiero di un'intera generazione di uomini politici di primo piano. Ai quali indirizzò dei piccoli trattati che furono presi in grande considerazione. I primi di questi «opuscoli» riproponevano i modelli dell'Atene del V secolo. L'ultimo, una lettera aperta scritta a Filippo il macedone scritta poco tempo prima di morire, auspicava che fosse quel re a realizzare le idee che Isocrate aveva «da giovane». Idee che, a suo avviso, in parte vedeva come già realizzate. Con il che, scrive Scott, venivano a congiungersi, lungo l'arco della vita di Isocrate, «i due estremi della politica, la democrazia e la monarchia assoluta, le società e i mondi diametralmente opposti definiti da quei due estremi». Ma furono davvero due estremi?
È su questo che si interroga Michael Scott. Gli studiosi del mondo antico «hanno rivolto con entusiasmo l'attenzione alla democrazia ateniese per poi saltare a piè pari ad Alessandro Magno, senza comprendere in qual modo si sia verificato il passaggio da una situazione all'altra». Anche quando «hanno preso in considerazione il periodo intermedio, lo hanno spesso bollato come una lunga stagione di decadenza e di declino, seguita ai giorni di gloria del secolo precedente». Ma, se la si studia a fondo, la storia del declino e della decadenza non sta in piedi. E questo ci induce a ritenere «che capire questo drammatico periodo di transizione potrebbe essere essenziale per una migliore comprensione del mondo antico nel suo complesso». Solo del mondo antico? No. Anche di quello attuale.
Secondo l'autore «ci troviamo oggi nel momento più adatto per portare all'attenzione universale questo periodo di turbolenta transizione» È una storia «di trasformazioni mondiali, di disordini politici ed economici (anche nell'antica Grecia vi fu un momento in cui furono sospesi i prestiti), di democrazie schiacciate e risorte, di antiche e nuove democrazie sull'orlo di ambizioni imperialiste, di imperi vacillanti e di Stati arretrati che balzano alla ribalta e diventano d'un tratto le più forti potenze del mondo antico». Si intravede, nell'arco di tempo vissuto da Isocrate, «la storia di una lotta disperata e sostanzialmente folle per conservare lo status quo; e del trionfo di nuove strategie rispetto a tattiche paralizzanti». «Credo», afferma Scott, «che ben pochi mancheranno di riconoscere in tutto questo qualcosa che li riguarda e investe il mondo in cui viviamo; se è vero che la storia può fornirci una mappa del nostro passato, uno specchio del presente e forse anche fungere da guida all'azione futura, la storia del passaggio "dalla democrazia ai re" è la più adatta a svolgere queste funzioni nel tempo attuale». In che senso? La ragione principale per la quale dovremmo interessarci di questo particolare periodo della storia greca è che, «ci piaccia o no, gran parte del mondo attuale è strettamente legato alle storie, ai valori e ai modelli della Grecia antica».
Certo, dobbiamo essere consapevoli dell'abissale differenza che divide il mondo antico da quello di oggi. Allo stesso tempo, tuttavia, «non possiamo ignorare quanto poco le cose siano mutate, come gli antichi si siano trovati davanti a battaglie e sfide che sono le stesse che noi ci troviamo ad affrontare, e quanto ancora possiamo imparare da loro». Se il mondo contemporaneo volesse avere un atteggiamento più consapevole nei confronti dell'antica Grecia e, «senza snaturare la storia antica con adattamenti distorti», ne volesse trarre «un insegnamento utile per il presente e per il futuro», mai come adesso dovrebbe interrogarsi su come fu possibile passare «dalla democrazia ai re» lungo un itinerario che a uno dei principali intellettuali dell'epoca, Isocrate appunto, apparve in tutto e per tutto coerente.
Ma torniamo al V secolo, al 480 a.C. quando con la vittoria di Salamina iniziò la stagione di grande fioritura di Atene. Nel capitolo conclusivo del bellissimo Il mondo di Atene (Laterza), Luciano Canfora osserva che «la democrazia e l'impero erano nati insieme». Proprio la vittoria di Temistocle a Salamina aveva generato l'una e l'altro, «e la sua intuizione di munire immediatamente la città di un imponente sistema di mura, superando con l'inganno le resistenze e l'opposizione spartana, suggella, col necessario strumento difensivo, il successo conseguito e pone le premesse per il futuro conflitto con Sparta». Quelle mura costituiscono il «palladio» tanto della democrazia quanto dell'impero «e formalizzano la rottura degli equilibri fino ad allora incentrati sulla indiscussa egemonia spartana sull'intero mondo greco».
La stessa pretesa spartana di impedire ad un'altra città di munirsi di mura denota di per sé che di fatto la prevalenza di Sparta «interferiva fin nella vita interna delle altre comunità». Sicché a Canfora appare «formalistico» delimitare il periodo di guerra tra Atene e Sparta agli ultimi trent'anni del V secolo: «In un crescendo», scrive, «quel conflitto ha inizio con la nascita stessa delle mura». E le mura saranno nel momento della capitolazione di Atene (404) «il principale bersaglio dei vincitori nonché l'oggetto di disperata e vana difesa da parte dei vinti». Dopodiché la riedificazione di quelle stesse mura nel 394 «segnerà l'inizio di una seconda, e meno durevole ma a suo modo produttiva, nuova avventura imperiale». «Impero, dunque, e democrazia procedono insieme», ribadisce Canfora, «è l'impero che consente la condivisione, da parte del demo, di sostanziali benefici materiali… la democrazia funziona perché "si spartisce il bottino" cioè le entrate imperiali».
Allo stesso modo saranno intrecciate, nel secolo successivo, la crisi dell'impero e quella della democrazia. Sarà la lunga stagione dell'impoverimento. E quando verrà il momento della contrapposizione a Filippo il macedone, protagonista di tale scontro in Atene sarà Demostene, figlio di un industriale, ma ridotto «a fare l'avvocato perché depredato, orfano anzitempo, dai suoi tutori».
Demostene sa bene come funziona il meccanismo della contrapposizione tra ricchi e non possidenti. Perciò, scrive Canfora, di fronte al classico e collaudato strumento di una patrimoniale sulla ricchezza, obietta: «Ateniesi! In città ci sono ricchezze, oserei dire, quante in tutte le altre città messe insieme. Ma se anche tutti gli oratori si sforzassero di impaurire i ricchi dicendo che sta per arrivare il re di Persia, anzi che è già arrivato e se con gli oratori ci si mettessero anche gli indovini a fare la stessa previsione, i ricchi non solo non verserebbero un bel niente, ma non farebbero nemmeno vedere le loro ricchezze, anzi non riconoscerebbero nemmeno di possederle». Ragion per cui, afferma ancora Demostene, «il denaro per il momento lasciamolo nelle mani di chi lo possiede: è il migliore forziere per la città».
La questione sociale, scrive Canfora, domina il IV secolo come domina l'oratoria di Demostene «anche quando l'oratore sembra parlare d'altro». Quando c'era l'impero il conflitto «aveva come posta in gioco la redistribuzione del bottino». Negli anni che intercorrono tra l'inizio dell'avventura politica di Demostene, «proteso a trovare per la sua città spazio per una terza egemonia (magari nell'orbita della Persia)», e la disfatta del 322, l'anno della definitiva vittoria macedone, vale a dire nel corso di un trentennio «si consuma ancora una volta uno scontro sociale che non conosce soste». E quando «i benestanti e i benpensanti avranno i macedoni come garanti della sconfitta dell'ultima reincarnazione della democrazia imperiale, per prima cosa ridurranno il corpo civico a novemila cittadini». È l'Atene di Focione «a sovranità limitata» ed è «l'inizio di un declino che non conoscerà soste».
Altro elemento che, dopo la sconfitta di Atene, caratterizzò quella lunga transizione «dalla democrazia ai re» fu «ciò che mancò a Sparta». Michael Scott è un evidente estimatore dell'esperienza politica spartana. Ma ciò non gli impedisce di vederne i difetti: «Se è vero, come si dice, che la prova suprema per un uomo è saper gestire il successo, dobbiamo dire che gli spartani, all'alba del IV secolo, non se la cavarono molto bene». I primi segni della loro «grossolanità» si percepirono quando rifiutarono di costruire a Delfi o a Olimpia un monumento che celebrasse la loro vittoria. Per di più il grande generale spartano Lisandro dopo la vittoria su Atene continuò a navigare nell'Egeo e dovunque trovava una colonia ateniese interveniva per imporre un proprio governo: come avrebbe detto Plutarco, «Lisandro divenne più potente di qualsiasi greco prima di lui». Ma — sempre secondo Plutarco — divenne anche «superbo e crudelmente intransigente, tanto che non esitava a conferire potere assoluto nelle città ai suoi amici e a condannare a morte i suoi nemici». Sparta, a disagio per questa aspirazione a un impero personale, presto richiamò Lisandro in patria. Ormai però il danno era fatto. Sparta si alienò persino le simpatie di Tebe che pure nel 404 aveva combattuto al suo fianco contro Atene. E rese oltremodo ostile la Persia. Plutarco commentò la situazione scrivendo che Sparta era come una donna da taverna, la quale, dopo aver fatto gustare alla Grecia il buon vino della libertà, l'aveva mischiato poi «con tanto aceto che sarebbe stato meglio non averlo mai bevuto».
Si potrebbe pensare, scrive Scott, «che dopo un conflitto recente — quello del V secolo — durato trent'anni, quale era stato quello del Peloponneso, nessuna città greca avrebbe desiderato una nuova guerra; ma il governo spartano raggiunse tali limiti di brutalità che molte città greche, così sensibili alla propria libertà e a tutto ciò che la poteva minacciare, tornarono sul campo di battaglia». Per una guerra «che Sparta non avrebbe mai potuto vincere, se non altro perché condotta simultaneamente su due fronti: la costa dell'Asia Minore e il cuore della Grecia centrale… Per passare da un fronte all'altro si doveva navigare, remare o marciare; e il tragitto non era breve, all'incirca cinquecento chilometri (in linea d'aria)». Sulla costa dell'Asia Minore, gli Spartani dovevano affrontare le forze radunate dal persiano Tissaferne che in caso di necessità sarebbero state appoggiate dall'esercito guidato dal re in persona. Nella Grecia centrale doveva combattere contro Beoti, Tebani, Corinzi, Ateniesi e Argivi sostenuti dall'oro persiano. Oro persiano che era affluito a Sparta per aiutarla nella Guerra del Peloponneso e che pochi anni dopo si disseminava tra i nemici di Sparta stessa. La Persia, poi, affidò la propria marina ad un ammiraglio ateniese, Conone, che sconfisse la flotta spartana. Finché nel 391 la Persia propose un trattato di pace. Tebe e Sparta erano favorevoli, Argo e Corinto contrarie, Atene, città arbitro, decise non solo di respingere l'offerta, ma di incriminare tutti quelli che avevano condotto i negoziati. «Ancora una volta», è il commento di Scott, «Atene si attribuiva un po' troppa importanza».
Il fatto è che «ad Atene tutto veniva dibattuto in pubblico, tutti potevano esprimere un'opinione, tutti votavano durante i lavori e ognuno poteva conoscere le decisioni degli altri». Mentre «alla corte persiana tutto si svolgeva dietro porte chiuse, le decisioni erano prese con un cenno del capo del re, un sussurro al suo orecchio, in un discreto andirivieni di cortigiani e ambasciatori; l'intrigo, il clientelismo e la piaggeria erano le armi nella lotta per decidere». E risultarono armi vincenti. Il ruolo che era stato dell'ateniese Conone, fu adesso dello spartano Antalcida che «versò odio per le azioni degli Ateniesi nelle orecchie del re di Persia». E che, al momento decisivo, costrinse alla resa la flotta ateniese. In questo contesto iniziò a crescere il ruolo di Tebe sotto la guida di Pelopida (già esponente del partito antispartano) ed Epaminonda. E si giunse alla battaglia di Tegira (375) quando un contingente di trecento tebani sconfisse una forza spartana assai più grande. Quattro anni dopo, una nuova vittoria tebana a Leuttra (371) segnò la fine della supremazia di Sparta. Anche in questa occasione Atene si distinse per il suo opportunismo: pur essendo alleata di Tebe, non le inviò alcun aiuto in vista dello scontro di Leuttra e anzi, di nascosto, parteggiò per Sparta. Nel frattempo nella Tessaglia dominata da Giasone, all'uccisione di quest'ultimo (370) si sviluppò una guerra civile tra la città di Fere e la più debole Larissa. Larissa chiese aiuto alla Macedonia che glielo concesse entrando così, per una porta laterale, in una scena di cui di lì a trent'anni sarebbe diventata la dominatrice. Tebe si schierò con Fere, sconfisse Larissa e i macedoni e ottenne che la Macedonia le assegnasse come ostaggi da rieducare alcuni giovani nobili. Tra loro c'era Filippo il futuro re, padre di Alessandro.
Nel frattempo ad Atene andava sviluppandosi il regime democratico. È curioso, osserva Scott, che gli ammiratori della democrazia ateniese ne individuino quasi sempre l'apice nel «glorioso» V secolo. Entro certi limiti, prosegue, «il successo (e naturalmente la nascita) della democrazia nel V secolo sono innegabili». Atene si sviluppò fino a dominare un grande impero e costruì meraviglie, come il Partenone. «Ma non è tutto qui», precisa, «non soltanto buona parte delle testimonianze in nostro possesso, riguardo ai meccanismi interni della democrazia, provengono dalla metà del IV secolo (cui ci ha fatto comodo spesso riferirci, benché impropriamente, per parlare della natura della democrazia di cento anni prima), ma è in questo periodo che cominciò a svilupparsi un vivace dibattito filosofico sulla natura stessa della democrazia». Così, mentre continuiamo a fare riferimento al V secolo come a un'età dell'oro, «è stato durante il momento di instabilità economica, militare e diplomatica alla metà del IV secolo che il sistema democratico fu sottoposto alla più elaborata e profonda riflessione». Ed è questa stagione che secondo l'autore si presta a numerose analogie con i tempi attuali. La stagione in cui un campione della democrazia quale è Isocrate «si consegna» sotto il profilo intellettuale a Filippo di Macedonia.
Platone, dopo una lunga esperienza — alla quale sono dedicate pagine assai interessanti del libro — a fianco dei Dionisio di Siracusa, primo e secondo (il padre e poi il figlio), in uno dei suoi ultimi scritti, Il politico, mette in burla la democrazia e propone ad Atene «un uomo di grande saggezza» che avrebbe dovuto governare in armonia con la legge. «Così alla fine degli anni Cinquanta del 300 a.C. anche Atene — che fino a quel momento, a differenza di altre città e Stati della Grecia, aveva tenuto a bada il potere individuale nei suoi confini, sebbene costretta ad avere rapporti con i potenti di altri Stati — cominciò a tentennare», scrive Scott. «Nei trenta anni seguenti, la politica ateniese nei confronti dei potenti governanti del mondo sarebbe stata stabilita e dominata da un gruppetto di cittadini che avrebbero deciso il futuro e, in definitiva, la sopravvivenza stessa di Atene». A campione di questa generazione di ateniesi si pose Demostene che dedicò la vita e l'oratoria a mettere in guardia la sua città da Filippo il macedone. A lui si contrappose Eschine, l'oratore che esortava i suoi concittadini a fidarsi di Filippo. Ma fu Demostene il protagonista (perdente) di questa stagione politica.
Nel già citato libro di Canfora ci sono alcune belle pagine dedicate a Demostene, in cui l'autore spiega come «l'eliminazione dell'avversario politico (dalla violenza fisica all'ostracismo, esilio, uccisione in una specie di gradatio: la scena politica ateniese offre esempi di tutti e tre i generi) appariva prassi non sconcertante, ma, piuttosto, drammatica prosecuzione della lotta politica». Canfora è colpito da «una tremenda uscita demostenica» che risale al 341, quando ormai la resa dei conti con la Macedonia si avvicinava e l'ossessione di Demostene era la «quinta colonna» del sovrano macedone all'interno della città: «La lotta è per la vita o per la morte, questo bisogna capire; e quelli che si sono venduti a Filippo bisogna odiarli e ammazzarli». L'eliminazione fisica dell'avversario come esito del conflitto, puntualizza Canfora, «è una eventualità messa in conto, non è una situazione estranea — almeno potenzialmente — alla prassi del quotidiano scontro politico».
«È scandaloso», dice Demostene, «che in Atene si possa parlare impunemente in favore di Filippo!». La sua ossessione sono «quelli che si sono venduti a Filippo», persone da «bastonare a morte». A suo avviso «non si possono vincere i nemici esterni prima di aver sterminato quelli interni». Ed è probabilmente a questo tipo di «politica terroristica», scrive Canfora, «che pensava Platone quando equiparava i retori ai tiranni, perché mandano a morte, esiliano, spogliano dei beni chi vogliono». Nel contempo Demostene non fa mistero della sua «avversione verso la propaganda ed i programmi della democrazia radicale». Né gli piace il governo popolare, «alle cui lungaggini e alla cui pubblicità non esita a contrapporre la libertà d'azione e la prontezza di cui gode un Filippo». Tra le righe delle sue orazioni si può ritrovare una sorta di ammirazione nei confronti del nemico «per la sua fulminea carriera, per l'elemento volontaristico della sua prassi politico-militare».
Fu in questa situazione, riprende Scott, che si fece avanti ancora una volta Isocrate «il commentatore politico e la voce della coscienza della Grecia negli ultimi cinquant'anni». Isocrate, «che aveva amato Atene per tutta la vita, cominciava a fare un discorso molto diverso da quello di Demostene». Testimone dei capovolgimenti avvenuti nella storia greca durante l'amara guerra civile della fine del secolo precedente, durante il conflitto interno che aveva afflitto la Grecia centrale nella prima metà del nuovo secolo e durante i grandi mutamenti culturali, geopolitici ed economici avvenuti in tutto il mondo greco, infine, durante il brutale rovesciamento degli equilibri di potere negli ultimi dieci anni», Isocrate cominciava oramai a «credere che Atene non fosse più in grado di offrire alla Grecia ciò di cui aveva estremo bisogno». Nella ricerca del suo ideale di un capo giusto e forte, capace di unire la Grecia e restituirla al suo splendore, Isocrate, scrisse una lettera aperta alla quale diede un titolo semplice: A Filippo. Altrettanto semplice era il suo suggerimento: «Spetta a un uomo dalle grandi e nobili ambizioni, amico dei Greci e che vede con la sua mente più lontano degli altri, utilizzare tali uomini (i Greci) contro i barbari… e creare per loro delle città facendo di queste il confine ultimo del mondo greco, in prima linea a difesa di noi tutti».
E venne il 338, l'anno della feroce battaglia di Cheronea, dalla quale Filippo uscì vincitore. Isocrate, riferisce Scott, «era passato totalmente dalla parte di Filippo, che oramai a suo vedere rappresentava per la Grecia l'occasione migliore per raggiungere l'unificazione e la gloria nella lotta contro la Persia». All'età di 98 anni, Isocrate «ne aveva abbastanza di Atene e della sua democrazia tentennante». Così scrisse per ringraziare Filippo di «avergli permesso, nei suoi ultimi giorni, di veder realizzati alcuni dei suoi sogni» e aggiunse che «sperava che presto avrebbe realizzato anche gli altri». Dopodiché decise di lasciarsi morire: rifiutò il cibo per quattro giorni consecutivi e spirò. E venne l'ora di Filippo. Poi quella di Alessandro che morì nel 323. Un anno dopo le città greche provarono a ribellarsi un'ultima volta ma furono sconfitte da Antipatro, il generale che Alessandro, partendo per la spedizione in Asia, aveva lasciato a difesa della Grecia. A questo punto — probabilmente per sfuggire ai sicari di Antipatro — anche Demostene decise di darsi la morte. Morte che suggellò la lunga transizione ateniese.

Paolo Mieli Corriere della Sera