CAPITOLO VIII

Dispositivi di recupero

L'adozione sistematica di dispositivi di recupero si è dimostrata utilissima al fine di salvaguardare il modello nella fase di discesa e di evitare che provochi danni a cose e persone al momento di arrivare al suolo. Questo problema è tanto più sentito quanto più pesante è il modello, cosicché sono state sviluppate tecniche di complessità e perfezione tali da essere applicabili ai diversi tipi di razzi. In via preliminare possiamo dire che la scelta del dispositivo più opportuno dipende dal peso del modello completo, dal peso dell'ultimo stadio, dal tipo di carico trasportato, ecc.
Le norme emanate dall'Associazione nazionale missilistica sono molto severe, tanto che è vietato far tornare a terra anche semplici parti, come gli stadi inferiori; se queste non sono in grado di veleggiare o di atterrare comunque in maniera sicura: come regola, il modellista dovrebbe mettersi sempre in condizione di recuperare a terra la sua creazione integra, senza mai compromettere l'altrui e la propria sicurezza.
Abbiamo già dato una visione di insieme del problema, ma in questo capitolo ci proponiamo di trattarlo nei particolari.

Fig. 82. I modellisti si servono di dispositivi di resupero per permettere un atterraggio morbido dei loro modelli: ottengono così di evitare incidenti e di far volare il loro modello più volte.

I vari dispositivi di recupero sono fondamentalmente diversi l'uno dall'altro, ma si accomunano nella causa che li fa funzionare: sono cioè azionati tutti dalla rapida combustione della carica di espulsione e dai conseguenti forti quantitativi di gas che mettono in pressione l'interno del corpo del razzo.

Recupero per espulsione dell'ogiva

Non è noto quando questo meccanismo sia stato adottato per la prima volta e da chi, ma si sa che già nel 1958 fu usato a Denver in maniera sistematica su semplici modelli per il collaudo di motori; si può dire che si ha notizia di qualche uso precedente da parte di qualche costruttore che fino allora aveva usato un sistema a paracadute e che si accorse per caso della maggior semplicità di questo metodo.
Fin dal 1946 si era applicato questo metodo su vasta scala, quando gli Americani facevano esperimenti sul razzo V-2, costruito dai Tedeschi durante la guerra: da prove effettuate nel Nuovo Messico apparve subito chiaro che il rientro del missile poteva essere frenato a velocità tollerabili mediante un semplice sistema di espulsione automatica dell'ogiva. Furono fatti profondi studi sull'argomento fino a concludere giustamente che, sulla base di tutte le rilevazioni scientifiche fatte, si poteva indicare come causa del frenamento la perdita di aerodinamicità del missile.
Nell'aeromodellismo si gioca frequentemente su un principio di questo tipo: quando l'ogiva è montata sul corpo nella giusta posizione, il centro delle pressioni si trova dietro il baricentro e il modello può volare correttamente; all'espulsione dell'ogiva l'arretramento improvviso del baricentro rende invece il modello instabile (baricentro dietro il centro di gravità) e ne compromette seriamente l'aerodinamicità. In queste condizioni il razzo non può quindi che cadere a velocità limitata, atterrando in genere abbastanza morbidamente; le due parti, ogiva e corpo, tendono a cadere separate e in posti anche lontani fra loro, cosicché è senz'altro consigliabile collegarle con un pezzo di corda o un elastico al fine di semplificare le operazioni di ricerca e di recupero.

Fig. 83. Dispositivo di Thompson.

La fig. 84 mette in evidenza i particolari costruttivi; va segnalato e messo in evidenza che l'atterraggio per espulsione di ogiva, per quanto morbido é sempre una fonte potenziale di rottura, soprattutto nei riguardi delle pinne: è quindi necessario costruire , modelli sufficientemente robusti, curando soprattutto i particolari più deboli e realizzando ad esempio le pinne con materiale plastico infrangibile.
Il recupero per espulsione d'ogiva trova applicazione per modelli che pesano fino a 60 g; solo raramente il modellista coscienzioso se ne serve per mezzi più pesanti, che presentano un elevato rapporto area-peso, mentre ne è senz'altro sconsigliato l'uso per razzi che trasportano carichi.

Fig. 84. Modello con dispositivo di recupero basato sulla espulsione dell'ogiva.

Il pezzo di corda, o l'elastico; che collega corpo e ogiva, deve avere una lunghezza pari alla lunghezza complessiva del modello: in genere si usa la corda, ma quando l'ogiva comincia ad avere un peso discreto si preferisce senz'altro l'elastico, perché è in grado di resistere meglio allo strappo che si manifesta quando c'è l'espulsione dell'ogiva. Generalmente va benissimo un elastico di 2-3 mm di diametro.
Per fissare rigidamente il pezzo di corda al corpo si può ricorrere a parecchi sistemi. Il più semplice consiste nel ritagliare una scanalatura all'interno del corpo, a una distanza di 1-2 cm dall'ogiva, e incollarvi l'estremità del pezzo di corda; quando le esigenze aerodinamiche non sono molto sentite si può ricavare addirittura un foro nel corpo dove far passare la corda che poi si lega con uno stretto nodo (vedi il disegno del Dirty Bird III in fig. 3). Un'altra soluzione consiste invece nel ricavare la scanalatura sul supporto fermo del motore da incollare al corpo assieme all'estremità della corda: questa tecnica è abbastanza diffusa, perché semplicissima e dalle innegabili qualità di robustezza e affidabilità. .
Il cap. Bryant A. Thompson, del gruppo modellistico delle Forze Aeree degli Stati Uniti d'America, ha inventato un dispositivo speciale che oggi porta il suo nome e che è visibile nella fig. 83: consiste in una piattina sottile di alluminio (0,2-0,3 mm), larga 5-6 mm, lunga 7-8 cm e sagomata come in figura, cioè con un ricciolo da una parte, per afferrare il corpo e un piccolo foro dall'altra, per il collegamento alla corda. In questo modo si ottiene anche l'effetto di tenere meglio fermo il motore e di applicare qualcosa di molto semplice che, per modelli molto piccoli e leggeri, può essere anche ricavato da una normale corda musicale di acciaio.
Nei modelli più grandi la corda è sempre sottoposta a un robusto strappo, cosicché si rende necessario un collegamento sicuro e un generale sovradimensionamento di tutto il dispositivo: come ulteriore fattore di sicurezza si può ricorrere anche a un sistema speciale (fig. 85) studiato in modo che il collegamento ogiva-corpo sia sempre assicurato anche se l'elastico si rompe. In questo campo si va diffondendo sempre più l'uso di fili di nylon o dralon, perché leggeri e forti.

Fig. 85. Sistema di sicurezza "a ponte" da usare nei modelli di grandi dimensioni.

Recupero a nastro

Quando un modellista vuole ottenere una discesa più lenta e anche riuscire a vedere la sua creazione a grandi altezze, si serve di un dispositivo di recupero "a nastro": arrotola cioè e sistema dentro il corpo una striscia di carta o plastica di colore acceso, espulsa al momento del distacco dell'ogiva, che è visibile da terra e che introduce una resistenza ulteriore in fase di discesa.
Il collegamento con l'ogiva viene realizzato molto semplicemente (fig. 86): il filo di nylon è collegato, a una sua estremità (o nel suo punto di mezzo) alla striscia di carta con un po' di nastro adesivo o un nodo, all'altra al corpo. Qualche volta si usa un filo per collegare le tre parti (fig. 86), ma a volte se ne usano due distinti: uno per corpo-ogiva e un altro per ogiva-nastro.

Fig. 86. Il dispositivo di recupero a nastro può essere facilmente installato su qualsiasi modello con ogiva estraibile, come quello rappresentato in fig. 84.

La striscia di carta ha in genere una larghezza di 2-3 cm e una lunghezza di 30-40 cm; il suo colore deve essere vivace, rosso o ancor meglio giallo-arancione; il suo costo e addirittura ridicolo.

Anche la sistemazione del nastro nel corpo non presenta difficoltà, per quanto richieda precauzioni speciali al fine di salvaguardare il nastro dall'effetto nocivo dei gas caldi della carica di espulsione; la soluzione migliore è quella esposta nella fig. 87, in cui si vede che, per creare una specie di isolamento, è stato introdotto un tampone di ovatta o tessuto: quando i gas pressurizzano il corpo e scatta il sistema di recupero, anche questo tampone viene espulso.

Fig. 87. Protezione del nastro con tampone di carta o tessuto.

A ulteriore protezione si usa sistemare il nastro in una maniera particolare, piegandolo e arrotolandolo in maniera opportuna e poi incartandolo in una guaina: la figura mostra tutti i particolari e fornisce chiare indicazioni sulle modalità di costruzione.

Al momento dell'espulsione la resistenza dell'aria provoca il disfacimento dell'involucro, dispiegando completamente il nastro; il nastro viene arrotolato, avvolto nel suo involucro, legato a mo' di salsiccia con il suo filo e sistemato all'interno del corpo, tenendo presente che però è imprudente infilarlo a una profondità maggiore di 2-3 cm. Bisogna poi ricordare che i1 nastro ha un peso, di cui bisogna tener conto nella verifica di stabilità e nella sua regolazione.
Nastri più corti di 12 cm trovano impieghi in piccoli modelli, ma in genere si tende a allungarli per ottenere un effetto migliore di rallentamento e una maggiore visibilità alle grandi altezze.
Merita poi di essere detto che tale dispositivo è sensibile alle condizioni di vento, cosicché a volte il modello finisce per cadere in luoghi anche abbastanza lontani.

 

Recupero a paracadute

Il recupero a paracadute non è un'arte recente, ma risale ai tempi dei Cinesi ed è stato certamente usato quando i razzi erano ancora solo fuochi di artificio, oggi quasi tutti í moderni razzi di ricerca lo hanno in dotazione, perché in questo caso indispensabile far tornare a terra indenni i delicati strumenti di bordo; il dott. Robert G. Goddard recuperava i suoi razzi con un paracadute; anche molti missili-sonda come l'Arcas e l'Aerobee H, vengono così recuperati.
Nell'aeromodellismo questo sistema di recupero fece la sua prima comparsa su un razzo costruito da Orville H. Carlisle. Da quel tempo la tecnica. ha subito radicali trasformazioni suggerite sia dalla pratica sia dalle ricerche teoriche condotte sull'argomento. In questa parte del capitolo ci dilungheremo un po' su questo argomento, ma il lettore vedrà che effettivamente ci sono molte cose da dire.
Su un razzo già dotato di sistema di recupero per espulsione di ogiva e facile montare un paracadute: è questa una considerazione che in genere provoca scetticismo negli inesperti, ma senza ragione perché non c'è niente di complicato in tutta la faccenda. II paracadute viene arrotolato in un modo opportuno e sistemato in una guaina di protezione, facendo ancora uso del tampone di ovatta o carta per preservarlo dai gas di scarico.
Il materiale più adatto è un foglio quadrato di polietilene di circa 30 cm di lato, facilissimo da reperire in commercio nello spessore che va bene ai nostri scopi (4-5 micron): come regola generale, ferme restando esigenze di robustezza si può dire che più sottile è il foglio, tanto più si presta ai nostri scopi.
Per collegare il paracadute al modello ci si serve di quattro corde lunghe circa quanto la diagonale del quadrato di plastica; ogni corda viene attaccata a un angolo del foglio con un po' di nastro adesivo; gli estremi liberi sono poi uniti insieme con un semplice nodo, avendo avuto cura di lasciare dopo 2 0 3 cm di corda libera. La fig. 88 mette in evidenza un montaggio di questo tipo, mostrando anche il collegamento con l'ogiva.

Fig. 88. Modello con recupero a paracadute.

Per piegare il paracadute in modo corretto si possono seguire le istruzioni di fig. 89: si ottiene cosi qualcosa di estremamente compatto e di dimensioni adatte a essere sistemato nel corpo. È opportuno però provvedere precedentemente a una guaina protettiva, così come si è fatto per il dispositivo di recupero a nastro, allo scopo di proteggere il paracadute: al momento della espulsione il paracadute si spiega completamente, realizzando cosi un atterraggio morbido e sicuro. Questo modo di procedere è privo di inconvenienti, purché si sia presa la precauzione di piegare il paracadute in maniera tale da infilarlo comodamente nel corpo, essendo così sicuri che ne possa scivolare fuori senza fatica.

Fig. 89. Come si piega un paracadute.

Questo tipo di paracadute realizzato con un semplice quadrato di plastica non è quanto di meglio si possa costruire: in effetti la forma che siamo abituati a vedere nelle applicazioni pratiche è sempre tondeggiante e mostra in maniera molto evidente che è stata ottenuta cucendo insieme un certo numero di " spicchi " di forma opportuna (fig. 90).

Si ottiene così una forma quasi semisferica che conferisce al paracadute una buona stabilità e un notevole coefficiente di resistenza, perché è come se l'aria urtasse nel fondo di una tazza rovesciata e fosse costretta a uscire in corrispondenza del bordo. Il coefficiente di resistenza (Ca) può arrivare anche a un valore di 1,4 ( il suo valore più alto), ma è veramente difficile realizzarlo: ci si deve così aspettare valori leggermente superiori alla unità, che però rappresentano già un miglioramento sensibile rispetto al paracadute piatto caratterizzato da un coefficiente di resistenza pari circa a 0,75.

Fig. 90. Paracadute di forma semisferica costruito cucendo insieme tanti spicchi di dimensioni opportune.

Il modellista che non si sente in grado di realizzare un paracadute come quello indicato può ricorrere a un diverso modo di procedere, molto semplice e in grado di comportare un elevato coefficiente di resistenza: per imitare la forma semisferica può ritagliare da un foglio di plastica un ottagono e collegare a ogni vertice un pezzo di spago (fig. 91).

Un paracadute di questo tipo ha una efficienza abbastanza buona ed e caratterizzato da una estrema facilità di esecuzione cosicché anche il principiante è in grado di conciliare le sue esigenze di semplicità di costruzione con quelle di un buon rendimento.

Fig. 91. Un paracadute abbastanza efficiente può essere ottenuto da un semplice telo tagliato ad ottagono.

E' interessante notare che un paracadute risente dell'effetto del vento: anche in presenza di deboli correnti d'aria, il suo modo di discendere non è puramente verticale, ma è caratterizzato da una traiettoria inclinata e soggetta a sbandamenti e oscillazioni. La fig. 92 mette in evidenza che per effetto della combinazione del moto discensionale del paracadute e di quello orizzontale del vento, tutto avviene come se ci fosse un " vento relativo " caratterizzato da una specie di " angolo di attacco p; si manifesta di conseguenza una forza aerodinamica di sostegno, localizzata sulla parte dell'orlo da cui l'aria si allontana che rende ancora più lenta la discesa.

Fig. 92. Diagramma illustrante il tipico fenomeno del veleggiamento nell'aria di un paracadute.

Non è raro vedere modelli che restano per molto tempo appesi in aria al loro paracadute - quando il recupero ha luogo in condizioni di tempo molto ventoso - e il cui atterraggio avviene a volte in luoghi tanto distanti e imprevedibili, da rendere praticamente impossibile il ritrovamento. Un modello costruito dall'autore una volta andò perso perché cominciò à veleggiare con tutto il suo paracadute e sparì dietro un ponte che si trovava a 2 km di distanza: eppure niente lasciava supporre quanto sarebbe successo, perché la velocità del vento non raggiungeva i 20 km/h e il dispositivo di recupero scattò ad appena 15 m di altezza. L'insegnamento tratto da questa spiacevole esperienza si può così sintetizzare: il paracadute deve essere sempre provato in via sperimentale prima di affidargli un modello da riportare a terra, se si vuole evitare la possibilità di perderlo.

A causa della continua presenza di brezze e venticelli, tutti i paracadute semisferici e ottagonali tendono a veleggiare. Non bisogna dimenticare che anche, per un sistema cosi fatto - razzo più paracadute - esistono problemi di stabilità analogamente a quanto succede per il solo razzo nella fase di volo. Non è il caso di dilungarsi a considerare tutti gli aspetti teorici della questione, anche perché bastano in genere cognizioni abbastanza superficiali: può essere sufficiente mettere in evidenza che, a causa della spinta ascensionale esercitata sul paracadute, si manifestano a volte oscillazioni e irregolarità di discesa. Non si parla quasi mai di instabilità vera e propria, ma piuttosto di un comportamento dinamico incerto e poco prevedibile: da questo punto di vista il comportamento peggiore è presentato senz'altro dal primo tipo di paracadute che abbiamo preso in considerazione - quello piatto - causa di una discesa poco graduale. Il fenomeno è apprezzabile anche visivamente, perché questo genere di paracadute scende giù svolazzando, con l'aria che gonfia alternativamente l'uno o l'altro dei suoi lati e introduce così notevoli oscillazioni. Al posto di instabilità di tipo pendolare, qualche volta si manifestano moti rotazionali {a mo' di trottola) i quali, pur essendo abbastanza spettacolari, sono tuttavia da considerare sintomi di comportamento irregolare.

Qualunque disturbo tende ad aumentare la velocità di discesa; se poi le oscillazioni sono molto forti si può arrivare anche a compromettere la sicurezza di atterraggio, perché la velocità di impatto supera quella ammissibile ai fini di un buon rientro. In linea di principio si può affermare che la lunghezza delle corde gioca un ruolo importante sulla stabilità del sistema; considerazioni teoriche e osservazioni, sperimentali indicano in modo concorde che è meglio servirsi di corde abbastanza lunghe perché la stabilità cresca. Per un paracadute semisferico, si può ritenere che la lunghezza minima da assegnare alla corda si aggiri intorno a una volta e mezzo il diametro del paracadute; per i paracadute piatti si può dire che, per quanto il loro comportamento sia in genere soddisfacente, è tuttavia difficile ottenere condizioni discrete di stabilità giocando semplicemente sulla lunghezza delle corde: è meglio quindi non esagerare, ma sceglierne un numero tale da arrivare a una struttura abbastanza raccolta. L'esperienza dell'autore conferma che sono necessarie almeno sei corde o, preferibilmente, otto.

Per ottenere una discesa ancora più regolare ed eliminare praticamente tutti i disturbi, si può ricorrere a un sistema che viene comunemente usata nel paracadute vero e che consiste nel ricavare al suo centro un piccolo foro: in questo modo il flusso di aria è molto più regolare, ma per evitare un dannoso aumento di velocità discensionale è prudente che il suo diametro non superi il 5% del diametro complessivo. Jan Bogdan di Norwalk (Connecticut) sostiene che la forma ideale non è quella circolare, ma piuttosto la stellata, che permette un migliore adattamento all'esigenza di discesa, in quanto i vari spicchi possono aprirsi e aumentare, se è il caso, la quantità di aria che attraversa il paracadute. Non stiamo a spiegare perché una soluzione di questo tipo contribuisce a migliorare le condizioni di recupero: il motivo primo consiste proprio nella maggiore regolarità del flusso di aria, che diminuisce così la propria turbolenza e non è più in grado di esercitare azioni irregolari. Sulla superficie del paracadute è anche interessante notare come quasi tutti i tipi di paracadute diano l'idea di "respirare" durante la discesa: questo effetto, del resto abbastanza bello a vedersi, è dovuto all'azione dell'atmosfera circostante in moto turbolento e alle condizioni dinamiche di volo.

Fig. 93. I modelli più grandi richiedono paracadute semisferici ricavati da più parti cucite insieme; è bene che siano cucite anche le corde. Il materiale usato è generalmente la seta oppure il nylon.

Come abbiamo visto, un paracadute non è un corpo aerodinamico statico, ma oscilla e ondeggia: si può anche parlare di una velocità di "stallo" che è particolarmente evidente nella fase di apertura.

Fig. 94. J. Witkowsky, di Varsavia (Polonia), con in mano un suo modello dotato di paracadute semisferico. La foto è stata ripresa durante il I Campionato internazionale, svoltosi nel 1966.

Ci sono due "velocità critiche" di un paracadute. La prima è la velocità critica di apertura, definita come la minima velocità alla quale il paracadute si apre completamente sotto l'effetto dell'azione aerodinamica. A velocità inferiori la spinta dell'aria è insufficiente a spiegarlo, per cui il razzo cade a terra con il paracadute ancora chiuso e sballottato qua e là dal vento. La velocità critica di apertura dipende dalle dimensioni e dal materiale: i paracadute più piccoli e realizzati in materiale plastico non poroso si aprono abbastanza facilmente, cosicché non c'è quasi mai da temere sulla sorte del modello. Ma all'aumentare delle dimensioni le condizioni di apertura diventano più difficili soprattutto se si cominciano ad adottare materiali porosi come seta o nylon, perché l'aria può passare attraverso la trama invece di indirizzarsi verso il foro centrale.

I paracadute più grandi non entrano in funzione subito dopo l'espulsione, ma vanno soggetti a svolazzamenti per tutto il tempo necessario a raggiungere la velocità critica di apertura: questo intervallo di tempo può anche essere eccessivo in modo da rendere impossibile un recupero corretto, come accadde una volta all'autore quando montò su un suo modello un paracadute di dimensioni eccessive {diametro di circa 1 m); solo successivamente al volo, terminato con un disastro, risultò evidente da prove sperimentali che la sua velocità di apertura era praticamente irraggiungibile, perché superiore a 20 km/h. La velocità critica di apertura può essere fonte di notevoli preoccupazioni per quei modellisti che in gara usano paracadute troppo grandi, perché l'apertura è molto ritardata e il modello precipita per un dislivello notevole prima di raggiungere la velocità sufficiente.

Un paracadute ha anche una velocità critica ,di chiusura: quando il modello cade giù troppo velocemente, il paracadute non è più in grado di aprirsi e continua a svolazzare. Anche questa grandezza dipende dalle dimensioni e dal materiale: i paracadute piccoli e di materiale non poroso possiedono una velocità di chiusura abbastanza elevata mentre l'inverso capita per quelli più grandi, soprattutto se di seta o nylon.

Quando un paracadute si apre, si manifestano tensioni in tutto il sistema perché la resistenza aerodinamica aumenta e le accelerazioni sono elevate: si possono creare quindi sollecitazioni eccessive in punti particolari, come all'attacco delle corde di sostegno. In parole povere si può dire che si manifesta una specie di strattone, tanto più forte quanto maggiore è la velocità e più pesante il modello. I pericoli più frequenti a cui si va incontro sono rappresentati da un distacco o rottura delle corde o addirittura da un laceramento del paracadute.

I modelli al di sotto dei 100 g di peso sono riportati a terra in maniera soddisfacente da un paracadute di plastica, con le corde semplicemente incollate; per modelli maggiori e carichi più pesanti si ricorre in genere a seta o nylon, cucendo le corde per maggior sicurezza.

Ricordiamo l'equazione basilare:

R = 0,5 pV2CdS

si può vedere che la resistenza incontrata da un paracadute aumenta proporzionalmente alla sua sezione trasversale, cosicché uno da 60 cm è caratterizzato da una forza frenante quattro volte maggiore di quella tipica di uno da 30 cm. Tutto ciò si risolve in un ritorno a terra più lento, perché si può dire, in prima approssimazione, che al raddoppiare delle dimensioni del paracadute la velocità di discesa diventa quattro volte più piccola.

E' importante ricordare che a volte non è bene che il modello ritorni giù troppo lentamente, perché l'area di lancio può essere limitata e circondata da edifici o linee elettriche. Del resto un paracadute eccessivo porterebbe il modello abbastanza lontano, mentre uno troppo piccolo provocherebbe un ritorno troppo brusco e comunque insufficiente a prevenire ogni rischio. Ogni modellista deve perciò affidarsi alla propria esperienza e giungere cosi a un compromesso, ricordando che la grandezza su cui deve giocare è soprattutto la dimensione trasversale del paracadute.

I materiali da costruzione sono molteplici e a volte impensabili: si vedono in giro paracadute realizzati con fogli di plastica, fazzoletti, seta, nylon, carta e anche fogli metallici (questi ultimi però in genere non si aprono bene). A meno che non si abbia l'intenzione di fare le cose in grande, la tendenza generale è rivolta alle soluzioni più semplici e quindi più economiche. Le corde possono essere di nylon, di spago o anche di elastico: per attaccarle al telo si ricorre a pezzi di carta adesiva o anche a nodi (come si vede nella fig. 91.

Per sistemare un paracadute nel corpo del razzo conviene seguire le istruzioni della fig. 89, tenendo presente che si tratta di una tecnica facilissima da imparare, ma non per questo poco importante: bisogna difatti curare abbastanza questa fase, piegando il paracadute in maniera tale da evitare che al momento opportuno possa non aprirsi. Per questo motivo non bisogna mai forzarlo nel corpo ma piegarlo, come si vede nella fig. 89, in modo da ottenere alla fine un cilindro sottile e compatto; per dare un ordine di grandezza si può dire che si riesce facilmente ad alloggiare un paracadute di 50 cm di lato - o di diametro - in un corpo di 2 cm di diametro. A complemento delle istruzioni della fig. 89 possiamo far presente che, come si vede nel disegno F, quasi tutti i modellisti eliminano il rischio che le corde si intreccino avvolgendole intorno al paracadute arrotolato: è una soluzione pratica e facile e che perciò consigliamo senz'altro.

Analogamente a quanto visto in precedenza per altri tipi di dispositivi .di recupero, è bene tener presente che i gas caldi sviluppati dalla carica di espulsione costituiscono una sorgente di danno, perché possono bruciacchiare o qualche volta fondere la tela del paracadute: a scopo precauzionale si ricorre perciò alla solita guaina protettiva realizzata in carta o in tessuto. In fig. 19 risultano chiare le modalità di costruzione, tenendo però presente che le dimensioni indicate non sono vincolanti in quanto devono adattarsi alla grandezza del paracadute e del corpo del razzo: una guaina ritagliata da un rettangolo grande come quello della fig. 19 può andar bene al massimo per paracadute e razzi rispettivamente di 40 e 2,5 cm di diametro. Una confezione come quella mostrata si rivela particolarmente efficace perché è in grado di costituire effettivamente una protezione contro i gas della carica di espulsione; questo problema ha sempre assillato i modellisti: per quanto ne sembri adesso facile e immediata la soluzione, tuttavia è occorso un po' di tempo e l'intuizione di Richard D. Keller (1958) per risolverlo.

A conclusione del capitolo diamo ora due consigli che ci sembrano utili e che il modellista dovrebbe sempre ricordare:

1. Le guaine andrebbero ritagliate a più esemplari alla volta per eliminare il pericolo di restarne privi al momento del lancio.

2: Per proteggere ancora più efficacemente il paracadute si può ricorrere a un tampone di feltro, ovatta, stoffa, sistemato subito dietro alla guaina protettrice.

Pur essendo in genere soddisfacente il funzionamento di un paracadute costruito anche da un modellista inesperto, tuttavia è bene prestarvi un po' di attenzione, perché la fase di rientro a terra è senza dubbio la più pericolosa: abbiamo già fatto cenno ai vari tipi di incidenti che possono capitare - lacerazione della tela, rottura o distacco delle corde - e che perciò invitano alla prudenza. Quando si vola poi a temperature climatiche molto basse è bene evitare l'uso di teli in plastica, in quanto diventano rigidi e poco maneggevoli.