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L'antichissima
dottrina cinese dell'I-Ching è uno di quei monumenti del pensiero che
oggi, come avviene per tanti altri prodotti dell'ingegno umano, si smercia
in plastica, comprimendo millenni di saggezza in una sorta di liofilizzato:
barrette energetiche pronte da consumare senza l'ingombro di intoppi concettuali.
L'uso attuale dell'I-Ching somiglia a quello che si può fare della Sfinge
adoperando un cavatappi a forma di Sfinge egiziana, o uno scolapasta a
forma di Colosseo. Prendiamo qualcuno che conosca la Sfinge solamente
per il fatto che sua madre, in cucina, teneva un apribottiglie a forma
di Sfinge. Per questa persona la Sfinge è un cavatappi, cioè è
un manufatto a forma di leone con la testa di donna che serve ad
aprire le bottiglie. Stesso discorso per il Colosseo/scolapasta.
Quanto al Libro dei mutamenti, nel quale è espressa la dottrina dell'I-Ching,
be', la sua comprensione richiede una condiscendenza con il pensiero lineare
orientale che noi non possiamo raggiungere facilmente, e comunque non
del tutto. Allo stesso modo questo libro è piuttosto tradotto (per vario
tramite) e piuttosto diffuso nelle nostre librerie. Perché? Lo sappiamo
tutti: nessuno lo legge. Si impara il sistema di interpretare i lanci
delle monete, e ci si aspetta che, tramite un sintetico procedimento esoterico,
di rimandi, e piuttosto a buon mercato, il libro sia in grado di suggerirci
se dobbiamo telefonare a una tale persona per invitarla a cena, se è il
caso di andarci a tagliare i capelli oppure no, e a chi spedire il nostro
curriculum per avere un buon lavoro.
Insomma, siamo portati a incastonare un monumento del pensiero umano nel
circolo delle nostre limitate esperienze e delle nostre aspettative. Non
è azzardato il paragone con la Sfinge-cavatappi. Visto che la Sfinge originaria,
tutto sommato, di per sé non serve a niente (se non a propiziarsi qualche
dio egiziano o altre cose di applicazione non troppo ermetica), be', tanto
vale riprodurla in chiave strumentale, e renderla utile stappare tramite
Sfinge una bottiglia di Stella Artois o di Fanta.
Così va il mondo, e non c'è nemmeno tanto da piangerci sopra, entrando
in questioni di merito: i cavatappi a forma di Sfinge, gli scolapasta
a forma di Colosseo, e i volumi di sortilegi a forma di I-Ching possono
addirittura in alcuni casi indurre curiosità, bagliori, portarci a intuire
che l'universo in realtà non orbita attorno alle suppellettili della cucina
di nostra madre o a tre monete che ci spiegano come andrà il nostro colloquio
di domani, e indurci a forme di trascendenza per cui ci si incuriosisce
sulla natura originaria dell'oggetto (o del monumento) che ha ispirato
il cinismo di un designer taiwanese. Sfinge, Colosseo, I Ching diventano
dunque oggetti, se non conoscibili, quantomeno riordinabili a realtà più
complesse, che è istruttivo ispezionare.
Con l'I-Ching è più facile che con la Sfinge, perlomeno il primo passo.
Una lettura lineare e spoglia di intenti servili può infatti introdurci
a questa impalcatura di pensiero, relativamente laica e piuttosto interessante.
Purtroppo il libro è stato conosciuto tardi nel mondo occidentale, quando
la cultura della modernità era già nella sua fase di declino. Sarebbe
stato interessante sapere che cosa ne pensavano Kant o Hegel o Leopardi,
del libro, e invece dobbiamo contentarci dei commenti di Jung, pure interessanti,
ma privi di quella lucidità analitica che distingueva i pensatori dei
due secoli precedenti. Non parliamo di oggi, quando terminato il Novecento,
un libro tanto importante è affidato proprio in questo momento alle mie
strampalate teorie millenaristiche!
In
ogni caso, volevo segnalare che all'inizio di questo libro si definiscono
due, chiamiamoli così, temperamenti, tanto per adattare il volume ai miei
scopi dialettici: il creativo (Ch'ien) e il ricettivo (K'un). Il temperamento
creativo è rappresentato da sei linee continue sovrapposte mentre il ricettivo
da sei linee spezzate.
Per inciso i 64 esagrammi possibili dalla combinazione dei due segni fondamentali
(linea continua e spezzata) sarebbero in grado di fornirci una rappresentazione
dell'universo in cui viviamo. Non si tratta di una rappresentazione dettagliata,
ma nella sua costruzione è esauriente, non meno di quelle che ci hanno
dato altri filosofi occidentali tramite procedimenti di impronta analitica.
Quando ero più giovane la parola creativo era molto in voga, e
io stesso faticavo a sottrarmi, come ancora avviene a tanti miei coetanei,
alla vellutata ambizione di considerarmi un creativo. Diciamo così,
nell'immaginario, una persona asciutta e brillante, tipo James Bond, in
grado di cambiare significativamente il mondo o le circostanze vicine
a sé tramite un suo decisivo intervento o una sua particolare attività.
Proprio a quei tempi venivano coniate sequenze come scrittura creativa
e in generale si cominciava a porre molta enfasi sulla creatività, a livello
artistico, economico se non in frangenti ancor più banali.
Putroppo
la creatività attuale, se paragonata a quella egiziana che generò monumenti
enormi, a quella romana, ben esemplificata dalla creazione di acquedotti
ancora oggi in grado di funzionare, o a quella rinascimentale che portò,
per dirne una, all'esplorazione marittima del pianeta, è stata in gran
parte mortificata, nei bagliori di fine secolo che hanno accompagnato
la mia giovinezza e la mia formazione, e comprende slogan come "Denim.
Per l'uomo che non deve chiedere mai", certi irridenti varietà televisivi
e altro. Non voglio banalizzare troppo: abbiamo avuto anche maestri del
cinema, tipo Chaplin o Kubrick, si badi. Ma ne è valsa la pena? Non rinuncereste
a ogni copia del film, diciamo, Full Metal Jacket pur di ottenere
un po' più di silenzio rispetto al rumore che ci circonda (mi riferisco
agli articoli di Oriana Fallaci, tanto per fare qualche altro esempio,
ma anche alle chiacchiere sul calcio che monopolizzano l'emittenza Tv,
o a pubblicità e iniziative di marketing totalmente demenziali, come i
Ringo boys, per dire)?
Io sì. Ma questo richiede un sacrificio, un'offerta, un gesto esemplare.
Mi dovrei votare io stesso al silenzio, per esempio. Proprio oggi del
resto ho concluso di non essere creativo per natura, ma ricettivo. E che
in realtà lo siamo tutti, al diavolo la creatività, almeno per ora. C'è
troppo rumore intorno a noi, e nella gran parte dei casi siamo costretti
alla ricezione, se bene spesso vi siamo costretti nostro malgrado. Tutti
diranno: ma no! E invece sì. Proprio ora, mentre sto scrivendo, il mio
vicino ha messo la radio troppo forte e mi opprime con non so quale canzonetta
di Bocelli. Se vado al supermercato c'è peraltro sempre la musica diffusa
nei locali. Se faccio trecento metri in città è probabile che il mio sguardo
incroci tutta una serie di manifesti pubblicitari con frasi scritte che
posso ignorare ma non posso sottrarmi dal leggere. Senza parlare del fatto
che poi siamo circondati, oltre che dai cosiddetti mezzi di comunicazione,
anche da altre persone che insistono nel "comunicare" cose nel 99% dei
casi non essenziali e anzi del tutto obliterabili, comprese queste righe
che state leggendo se avete avuto la pazienza di arrivare fin qui.
Direi che in quest'epoca è difficile essere buoni creativi, buoni creatori:
siamo troppo distratti. Diventa obbligatorio, per autodifesa, essere buoni
ricettivi, buoni ricettori. Esercitarsi, insomma, all'arte della ricezione,
in maniera da riuscire anche, all'occorrenza, a operare degli scarti.
Può
essere bello, d'altra parte, ricevere tout court. Avete mai letto una
bella poesia? E vi è mai successo che la lettura di una bella poesia vi
ispirasse il desiderio di scrivere a vostra volta una bella poesia, e
invece quella che avete scritto voi faceva schifo? Avete mai visto un
quadro di Cézanne, un film di Woody Allen, un concerto di Renato Zero,
un match di Kuerten o una partita del Milan, derivandone il desiderio
di essere pittore, attore o regista, cantante, tennista, calciatore?
L'offuscata ambizione di attività che deriva da una godibile passività,
come risultato, è in grado normalmente di creare un certo disordine e
un certo coefficiente di scontentezza, che si contrappone alla soddisfazione
che potremmo al contrario ottenere dalle nostre passività, se riuscissimo
a esercitare queste ultime con lucidità e discrezione.
Scendiamo
nel concreto. A me piace:
1. Cézanne, si era capito;
2. I telefilm della serie Baby sitter (in inglese Charles in
Charge) con Scott Baio, Willie Aames e Nicole Eggert.
3. Il film Nemico pubblico (Enemy of the State, 1999) di
Tony Scott, e in particolare la figura di Brill (Gene Hackman);
4. Il libro Un lento apprendistato (Slow Learner) di Thomas
Pynchon, e specialmente il racconto Terre basse (Low Lands);
5. Il Cd Le cose che vivi di Laura Pausini;
6. Il rovescio di Justine Henin, il torneo dei Roland Garros, e in generale
ogni match di tennis femminile, a qualunque livello;
7. Sergeij Esenin, e la poesia russa tradotta in italiano.
Il bello di una lista di passività come quella sovrastante è che, dedicandosi
a spettro intero alla coltivazione della propria natura ricettiva, se ne
possono compilare a decine. Potrei
fare tutto un libro soltanto di liste di questo genere. Se non dovessi lavorare
per vivere potrei trascorrere una vita appagante sfogliando un catalogo,
cambiando canale, cambiando Dvd, leggendo un racconto o una poesia, ascoltando
un Cd, guardando il tennis sul satellite. E sforzandomi di non essere tentato
dall'attività (essere pittore, poeta, attore, cantante, tennista, ecc.),
non solo per non accumulare frustrazione personale (dal fatto di non riuscire
a trovare la rima, un agente, di accumulare stonature, di servire una prima
palla debole, quasi penosa, sebbene il mio rovescio sia per il momento invece
passabile), ma anche per non aggiungere rumore al mondo dell'attività nell'opaca
ambizione di tramutare i miei schizzi pastrocchiati in monumenti della storia
dell'arte, quattro righe stentate in un successo editoriale, il mio rovescio
(anche passabile) in un invincibile e spietato strumento per vincere la
Coppa Davis, ecc.
Ho scoperto che mi piace essere selettivo nella mia passività: l'unica cosa
che non riesco a fare è smettere di scrivere, mannaggia alla miseria, e
ogni tanto tirare delle sveglie di rovescio contro il muro di casa, semplicemente
pensando, in un tentativo di catarsi tennistica, di essere a Wimbledon e
rispondere alla prima palla di Sampras, una bordata a duecento chilometri
orari che faccio fatica a concepire come qualcosa di esistente, ancor prima
che riuscire a concepire, nella realtà, una mia ipotetica risposta a questo
servizio. Ricevere è del resto un'arte, come ho cercato di dimostrare, ed
esercitare questa arte può essere sublime e più costruttivo di accanirsi
in una rumorosa creazione. Se non ci fossero buoni lettori che, come chi
sta leggendo, abbiano la pazienza di arrivare fino in fondo a queste mie
strampalate teorie, nemmeno la letteratura esisterebbe, e allora che cosa
leggeremmo in queste faticose giornate estive? Zardo.org?
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