L'essenziale dell'€uro

 

Un €uro  equivale a 1936,27 Lire dal 1 gennaio 1999

 

Capitolo  3  - Gli effetti reali dell'€uro 

            

 

 

              6.  Il mercato unico europeo

 

     Uno degli effetti più vistosi e importanti dell'introduzione dell'€uro è la creazione di un mercato europeo delle merci, dei servizi e dei capitali la cui dimensione è determinata, in via di principio, dal prodotto interno lordo e dal numero degli abitanti dei Paesi aderenti. In particolare l'attuale Area dell'€uro dispone di un aggregato di PIL pari a 5.584,24 miliardi di €uro e di una popolazione di circa 291 milioni di abitanti. 

     Il prodotto interno lordo è la ricchezza complessivamente prodotta da tutte le imprese del sistema economico considerato (nel caso dell'insieme delle economie che adottano l'€uro) e viene considerato il principale indice per la valutazione della ricchezza di un popolo.  

    Il prodotto interno lordo è una grandezza economica che esprime il flusso annuale di merci e servizi prodotti dalle imprese. Il valore complessivamente prodotto è ovviamente un aggregato che esprime la ricchezza economica nel suo complesso. Di tale valore però si possono dare altre due definizioni che hanno lo scopo di individuare le utilizzazioni che della ricchezza vengono fatte e la ripartizione della ricchezza fra le differenti classi di reddito. Nel primo caso si parla propriamente di impieghi della ricchezza prodotta e sono classificati secondo due grandi categorie, vale a dire:

       1) merci e servizi  destinati al consumo finale;

       2) beni annualmente destinati all'investimento.

 

    La somma dei consumi e degli investimenti è tendenzialmente pari al PIL. L'elemento che fa divergere gli impieghi della ricchezza dalle fonti è dato dalla bilancia commerciale, vale a dire dalle importazioni da altri Paesi e dalle esportazioni in altri Paesi. In particolare se le importazioni sono maggiori delle esportazioni la collettività considerata utilizza merci e servizi in misura maggiore di quelli prodotti dalle imprese residenti (quindi del PIL) permettendo ai residenti di vivere «al di sopra delle proprie possibilità» (e in questo caso la collettività considerata avrà una riduzione delle riserve valutarie con le quali si pagherà l'eccedenza delle importazioni). 

    Un elemento «oscuro» della contabilità del reddito nazionale e del PIL è dato dall'ammortamento. Gli investimenti annualmente effettuati dalle imprese e costituenti una parte più o meno consistente del PIL sono destinati a essere utilizzati per la produzione di altri merci e servizi e in linea di massima si vanno ad aggiungere alla dotazione di capitale produttivo esistente nel sistema economico e, in particolare,  al capitale produttivo delle singole imprese e unità produttive. A parte terreni e fabbricati le attrezzature e gli impianti hanno una durata limitata nel tempo e le imprese annualmente, a fronte di nuovi investimenti, hanno dimissioni di vecchi investimenti e in ogni caso l'utilizzo che esse fanno dei beni capitali per la produzione implica un loro costo di utilizzazione. Tale costo di utilizzazione dei beni capitali effettuato dalle imprese è denominato ammortamento e può essere considerato un indice della capacità delle imprese di rinnovare le  dotazioni tecnico-produttive. Il prodotto interno lordo è così definito in quanto il volume corrente degli investimenti è considerato al lordo degli ammortamenti, ovvero gli ammortamenti non sono considerati per ciò che sono, quindi una riduzione della ricchezza disponibile. Tale prassi contabile è dovuta alla sostanziale difficoltà di una valutazione puntuale dell'ammortamento sia per una impresa singola sia, a maggior ragione, per un sistema economico. Occorre però considerare il fatto che indipendentemente dalla considerazione o meno dell'ammortamento dal punto di vista contabile il processo di svalutazione avviene comunque in termini economici e necessariamente occorre tenerne conto. Da un punto di vista più pratico la mancata considerazione dell'ammortamento nella determinazione del PIL è anche dovuta al fatto che si considera la ricchezza prodotta nell'anno e quindi i beni capitali prodotti nel periodo possono, con qualche forzatura, non essere assoggettati a ammortamento. In ogni caso l'argomento sarà meglio approfondito nel paragrafo seguente.

     Il reddito nazionale della collettività considerata può anche essere considerato dal punto di vista delle diverse categorie di redditi come salari, profitti, rendite ecc. 

     In questa accezione si parla in modo specifico di reddito nazionale al costo dei fattori proprio perché i redditi considerati sono distribuiti ai fattori della produzione che tradizionalmente sono il lavoro, il capitale e la terra. In questo modo di considerare il reddito nazionale vi sono due importanti questioni. La prima è costituta ancora dall'ammortamento la cui inclusione, in una voce specifica, determina il reddito nazionale lordo al costo dei fattori e la seconda è costituta dalle imposte sugli affari (tipicamente l'Imposta sul Valore Aggiunto) che sommata al reddito nazionale lordo determina il reddito nazionale ai prezzi di mercato. Il reddito nazionale netto al prezzi di mercato, determinato dalla somma dei redditi distribuiti ai fattori della produzione più le imposte sugli affari costituisce di fatto la dimensione del mercato complessivamente inteso sul quale le imprese di produzione di merci e servizi si collocano per cedere i propri prodotti. 

    In qualunque modo si voglia considerare la ricchezza prodotta e distribuita vi è da un lato un flusso di merci e servizi che sono prodotti dalle imprese e dall'altro una domanda di mercato che può essere espressa sia dai consumatori che da altre imprese. L'insieme dei flussi di merci e servizi che si realizzano all'interno del sistema economico costituiscono in linea di massima il mercato dove un fattore importante di tale dimensione è dato dalle capacità e dalle propensioni al consumo dei percettori dei redditi. L'eliminazione della barriera monetaria per 11 Paesi determina un più vasto mercato per tutte le imprese appartenenti  all'area dell'€uro ma anche un diverso punto di riferimento per tutte le imprese che non appartenendo all'€uro, come per esempio quelle giapponesi e americane, intrattengono con i Paesi dell'€uro rapporti commerciali. In particolare le imprese che operano con l'area dell'€uro senza appartenervi dovranno rapportarsi per i loro affari economici con una moneta unica anziché con varie monete (quali il marco, la lira, il franco ecc.) e tale mutamento può arrecare sia svantaggi che vantaggi. Se i prezzi aumentano il 3% in Germania, il 6% in Italia e il 4% in Giappone per le imprese giapponesi diventa più facile esportare in Italia e più difficile esportare in Germania poiché il cambio delle monete riflette e compensa l'andamento dei prezzi. Con la nuova situazione il mercato tedesco e italiano si presenteranno, rispetto al Giappone, con il medesimo saggio dei prezzi e il medesimo cambio con l'andamento strutturale della bilancia commerciale che non dipenderà più dalla singola nazione ma dal complesso delle nazioni aderenti all'€uro. Ne segue quindi che tutti i saldi valutari dei Paesi aderenti che influivano sulla formazione dei cambio delle 11 monete aderenti saranno assorbiti all'interno dell'Unione Monetaria e la solidità dell'€uro sia all'interno che all'esterno dipenderà dalla crescita e dalla solidità della struttura economica dell'Unione, quindi in definitiva dal modo di produrre e di distribuire la ricchezza economica delle imprese dell'Unione. 

 

  

 

                7. Imprese e produzione

 

   Le imprese che operano nell'area dell'€uro appartengono alla specie evoluta delle imprese di un sistema economico e si possono definire sommariamente imprese capitalistiche dove il termine «capitalistico» è riferito al modo di produrre la ricchezza, in particolare utilizzando la divisione del lavoro e una tecnologia produttiva avanzata e in continua evoluzione. 

     Le imprese che partecipano alla produzione delle merci e dei servizi non sono omogenee: alcune di loro hanno dimensioni rilevanti e altre sono di carattere artigianale e questa differente dimensione ha influenza diretta sull'organizzazione produttiva, quindi sulla formazione dei prezzi e sulla dimensione e la fluttuazione delle quantità prodotte. 

      L'impresa è l'organizzazione economica attraverso la quale la ricchezza è prodotta e distribuita e la dimensione costituisce l'elemento sul quale chi l'amministra si basa per formulare i programmi produttivi e, con essi, le aspettative di guadagno.

     Vi sono alcuni modi per specificare la dimensione dell'impresa in pratica:

      a) la capacità produttiva definisce la dimensione tecnico-produttiva e quindi il flusso di merci e servizi producibili in linea teorica;

      b) il numero degli addetti definisce la dimensione organica;

      c) il capitale investito definisce la dimensione finanziaria;

      d) il fatturato definisce la dimensione commerciale;

      e) il valore aggiunto definisce la dimensione economica.

 

    L'equilibrio economico dell'impresa, qualunque sia la sua dimensione, dipende dalla «corretta» amministrazione dei parametri sopra indicati. 

    Nella pratica degli affari tutti gli elementi relativi alle diverse espressioni della dimensione concorrono alla formazione della ricchezza economica che può essere intesa come quantità prodotta ovvero come quantità distribuita ai fattori della produzione. Per esempio la capacità produttiva e il numero degli addetti sono in grado di indicare il flusso di merci o servizi producibili in una definita unità di tempo (un giorno, un mese o un anno) e la quantità effettivamente prodotta è data dal grado di utilizzazione della capacità produttiva. La dimensione commerciale esprime sostanzialmente tre cose: la quantità venduta, i prezzi praticati e la capacità dell'impresa di riscuotere il prezzo presso i clienti. Il valore aggiunto esprime il flusso di ricchezza effettivamente prodotto dall'impresa in un certo periodo di tempo. Il concetto di valore aggiunto è semplice, anche se in molti casi «misterioso». Ai fini della produzione l'impresa acquista fattori produttivi da altre imprese (materie prime e servizi, tipicamente) ed impiega fattori produttivi di propria pertinenza (lavoro, attrezzature e impianti, tipicamente). Ammettendo che tutta la produzione sia venduta il valore della medesima sarà dato dalla somma del costo di acquisto dei fattori produttivi «esterni» (materie prime e servizi), dei fattori produttivi «interni» (lavoro e attrezzature) e dell'eventuale profitto conseguito. Il valore aggiunto è quel valore che l'impresa aggiunge attraverso la propria organizzazione produttiva ai fattori esterni (materie prime e servizi) e determina in pratica la dimensione economica ovvero la quantità di risorse economiche create attraverso il processo produttivo. Se l'impresa non colloca per intero la produzione sul mercato si formeranno scorte di prodotti invenduti che possono essere ritenute dall'amministrazione «fisiologiche» e quindi congrue con l'equilibrio economico ovvero eccedenti e quindi non congrue, con le conseguenze del caso. L'introduzione delle scorte di prodotti determina una separazione del valore aggiunto: per la parte del prodotto commercializzato si parlerà di valore aggiunto realizzato, per la parte in magazzino di valore aggiunto «atteso». In conseguenza anche il profitto seguirà una analoga scissione fra realizzato e atteso. Tale distinzione è uno degli elementi che induce a considerare il valore aggiunto come indice appropriato della dimensione economica dell'impresa.      

    Il concetto di valore aggiunto dell'impresa deve essere adeguatamente corretto con gli effetti finanziari della gestione aziendale. Come più sopra visto uno dei modi di esprimere la dimensione dell'impresa è il capitale investito e si può affermare che qualunque unità produttiva abbia un capitale più o meno grande. In linea di massima il capitale investito dipende dal tipo di processo produttivo adottato e dal tipo di impresa messa in opera. Le imprese artigianali hanno uno scarso investimento in capitale mentre le imprese industriali hanno un elevato volume d'investimenti produttivi. Corrispondentemente, però, le imprese industriali hanno una dimensione produttiva, organica e commerciale maggiore (quasi sempre molto maggiore) delle imprese artigianali. D'altra parte un autotrasportatore è un artigiano come un riparatore TV  ma le attrezzature del primo sono molto più «costose» e quindi consistenti includendo, ovviamente, il mezzo di trasporto che normalmente ha costi molto elevati. L'elevato investimento in capitale finanziario da parte dell'impresa è però un elemento che modifica in modo radicale il processo di produzione della ricchezza. Nella generalità dei casi la grande dimensione finanziaria implica che l'impresa effettua due grandi classi di investimenti: quelli propriamente produttivi in impianti e attrezzature tecniche e quelli finanziari che sono costituiti dall'acquisto di azioni di altre società per scopi di controllo economico oppure di acquisto di attività finanziarie vere e proprie che producono un rendimento netto per l'impresa. In questa seconda circostanza al valore aggiunto proveniente dalla gestione tecnica se ne aggiunge uno proveniente dalla gestione finanziaria. La gestione finanziaria in molti casi è anche il frutto di un «adeguato» controllo dei flussi dei pagamenti e delle riscossioni che con i grandi movimenti di denaro tipici si una grande impresa possono produrre ulteriore valore aggiunto finanziario. 

     L'esistenza del valore aggiunto finanziario pone un divario fra la grande impresa e la media e piccola, divario che è strutturale, vale a dire inerente alla struttura economico-produttiva delle due organizzazioni d'impresa. In pratica la grande impresa, anche se apparentemente produce merci e servizi, nella sostanza economica «commercia» denaro e questo fatto la pone su un piano differente rispetto alla media e piccola impresa. 

     L'introduzione dell'€uro come moneta unica deve essere inquadrato nell'ambito appena descritto.

     Per tutte le imprese, come per tutti i cittadini,  dell'Unione Monetaria il nuovo metro di valutazione della ricchezza prodotta sarà l'€uro. La trasformazione in €uro dei valori espressi  nelle diverse valute avviene in modo automatico applicando alla valuta in oggetto il tasso di conversione stabilito il 31 dicembre 1998. Meno automatica per le imprese sarà la trasformazione economica in €uro della ricchezza prodotta normalmente nella propria valuta di «appartenenza». 

   Come si è più sopra visto la determinazione della dimensione economica dell'impresa dipende dal costo di acquisto e di utilizzazione dei fattori della produzione, dai prezzi praticati, dalle quantità effettivamente vendute e dalla capacità dell'impresa di riscuotere il prezzo concordato o applicato alla clientela. Nei processi di acquisizione e trasformazione dei fattori produttivi in prodotto e in quelli di cessione del prodotto sul mercato con annesse problematiche di riscossione vi sono variazioni dei prezzi dovute a fenomeni economici e vi sono variazione dei prezzi dovute a fenomeni monetari. Le variazioni dei prezzi dovute a fenomeni economici dipendono dall'andamento della  struttura economica dell'impresa e quindi in generale dal suo livello di produttività economica. Le variazioni dei prezzi dovute a origini monetarie seguono due direttrici: la prima attiene in modo specifico ai fattori della produzione utilizzati dall'impresa e la seconda all'andamento generale dei prezzi del sistema economico il quale andamento generale è una media ponderata (quindi che tiene conto dell'importanza relativa) della variazione di tutti i prezzi di tutte le merci e servizi scambiati in un sistema economico. Con una certa generalizzazione si può dire che le variazioni dei prezzi per motivi economici e dovute all'acquisto di fattori produttivi specifici sono di carattere economico-aziendale mentre le variazioni dei prezzi dovute alla variazione generale dei prezzi sono di carattere economico-generale. La differenza è che nel primo caso l'impresa ha possibilità di controllo delle variazioni più forti rispetto alle seconde le quali in definitiva rappresentano un dato praticamente non gestibile dalla singola impresa e che tuttavia produce i suoi effetti sulle posizioni di equilibrio economico, finanziario e patrimoniale. La componente economico-generale dei prezzi diventerà unica per tutte le imprese dell'€uro nel senso che il livello generale dei prezzi si modificherà complessivamente per tutte le merci e i servizi prodotti e commercializzati nell'Unione Monetaria. In altri termini non vi saranno più saggi d'inflazione nazionali, quindi per la lira, il marco, il franco, lo scellino ecc. ma un saggio unico d'inflazione (o di deflazione) per l'€uro. La stessa componente economico-aziendale non sarà però indifferente all'introduzione dell'€uro in quanto, per esempio, gli acquisti di fattori produttivi fra i Paesi dell'Unione non saranno più soggetti a nessuna variazione del prezzo dovuta a variazione nel cambio della moneta e le stesse imprese dovranno cercare di ottenere quelle condizioni di equilibrio economico, finanziario, patrimoniale e organizzativo che sia compatibile con il mercato di collocazione delle merci e servizi prodotti. In altri termini le imprese dell'Unione dovranno necessariamente, con tempi che dipenderanno tutti dalle loro capacità di cambiamento e adattamento e delle dimensioni economiche, convergere verso uno standard economico-produttivo che sarà determinato, come succede sempre con i fenomeni economici, dalle organizzazioni d'impresa economicamente meglio equipaggiate. Ovviamente ritardi, differenze, disarmonie, differenti saggi di crescita ecc. saranno presenti comunque nel sistema produttivo dell'Unione Monetaria ma il processo economico capitalistico, per il momento, è quello che è e per la singola impresa, grande o piccola che sia, il «semplice» mantenimento a valere nel tempo dell'equilibrio economico esige il raggiungimento di un livello minino di efficienza economica che con l'introduzione della moneta unica diverrà unico per tutte le imprese operanti nell'€uro. Il mutamento sarà più grande e quindi più percettibile per le multinazionali che non per il panettiere o fruttivendolo sotto casa ma alla fine, con tempi debiti, coinvolgerà tutte le imprese, anche quelle più «insospettabili» e che attualmente, anche in ossequio ad una legislazione antiquata, si definiscono attività professionali quasi che tali attività anziché un contenuto economico abbiano un contenuto metafisico. 

 

 

  8. Imprese e distribuzione del reddito

 

Il fine principale delle imprese è l'equilibrio economico durevole che si realizza attraverso un volume di ricavi congruamente più elevato del correlativo volume dei costi. La dimensione effettiva dell'impresa incide in modo determinante sulla formazione dei ricavi e dei costi di produzione, come del resto si è visto nel paragrafo precedente. Quando le dimensioni dell'impresa sono piccole, come quelle relative a un artigiano, la formazione dei costi e dei ricavi tende quasi a confondersi con l'attività non professionale di colui che esercita l'impresa ma ad un esame appena più approfondito non è difficile trarre dall'attività artigianale i ricavi e i costi propri dell'attività.

    Come si è visto nel paragrafo precedente la produzione dell'impresa si realizza attraverso la creazione di nuova ricchezza che può provenire da un'attività di carattere tecnico o da un'attività di carattere strettamente economico, ovvero una combinazione delle due cose insieme. Il livello della produzione ottenuta e venduta si ottiene attraverso l'impiego dei fattori della produzione i quali, combinanti in determinati modi e secondo determinati tempi, danno determinati risultati tecnici ed economici. Il risultato della combinazione produttiva si definisce Valore Aggiunto prodotto (sia esso tecnico che finanziario) e tale valore aggiunto è distribuito fra i diversi fattori della produzione più sopra definiti fattori interni: Lavoro e Capitale.

      Il lavoro impiegato dall'impresa può essere di tipo manuale o intellettuale e dà origine ad un costo che è correntemente definito salario. Il capitale è un insieme eterogeneo di mezzi materiali e immateriali necessari per lo svolgimento di un determinato processo produttivo e il relativo costo è dato dal prezzo che l'impresa paga per il loro acquisto. 

     Nelle moderne economie industriali il costo del lavoro e il costo del capitale non sono però precisamente identificabili con il loro costo di acquisizione in quanto in un caso e nell'altro i costi di utilizzazione sono sostanzialmente diversi da quelli di acquisto e è sui costi di utilizzazione che l'impresa deve fondare il proprio calcolo di opportunità economica. 

      Rispetto al lavoro l'elemento che fa differire il salario dal costo di utilizzazione è in massima parte la cosiddetta contribuzione obbligatoria, vale a dire l'obbligo per l'impresa, che è il datore di lavoro, di versare somme di denaro allo Stato o suoi Enti con le quali pagare le pensioni a quei lavoratori che hanno cessato l'attività lavorativa per raggiunti limiti di età.

      Rispetto al capitale la questione è grandemente più complessa. Anzitutto l'acquisto dei beni capitali deve avvenire in anticipo rispetto all'utilizzazione nel processo produttivo e questo fatto comporta inevitabilmente il rischio della non completa utilizzazione del bene. Durante l'utilizzazione dei beni in oggetto sono necessarie manutenzioni ordinarie per mantenere l'efficienza produttiva voluta. Il bene capitale subisce nel corso dell'utilizzazione una svalutazione economica che va sotto il nome di obsolescenza e che con un progresso tecnologico sostenuto rischia di compromettere non tanto la funzionalità dell'impianto o dell'attrezzatura quanto la posizione economica dell'impresa. Inoltre il bene capitale deve essere periodicamente sostituito e normalmente, anche a parità di tecnologia incorporata, la sostituzione avviene ad un prezzo maggiore del precedente acquisto per effetto dell'incremento generale dei prezzi o del prezzo di quel bene particolare. In definitiva il costo di utilizzazione del bene capitale è determinato da un insieme di elementi, alcuni di essi anche solo stimati, che conferiscono alle gestioni aziendali  che li utilizzano in modo rilevante un elevato grado di incertezza. Se si potesse comunque sintetizzare con un elemento il costo dei beni capitali questo dovrebbe essere, ai fini del mantenimento e dello sviluppo della struttura dell'impresa, il costo di sostituzione.

     Il costo di utilizzazione del lavoro e del capitale sono componenti del Valore Aggiunto distribuito dall'impresa e ne costituiscono nella pratica degli affari delle imprese capitalistiche l'elemento di maggior peso. Ciò che residua dal Valore Aggiunto prodotto dedotti i predetti costi può essere definito come utile lordo che può essere diviso in tre componenti:

                   1)  interessi passivi a terzi

                   2)  imposte allo stato

                   3) utile netto dell'impresa

 

    Gli interessi passivi ci sono tutte le volte che l'impresa finanzia l'acquisto dei fattori della produzione in parte con mezzi presi a prestito da terzi, banche o altri finanziatori e sono determinati dall'entità e dalla durata del finanziamento, e dal saggio d'interesse.. 

    Le imposte costituiscono un prelievo coatto di ricchezza sulle imprese, normalmente commisurato ai redditi prodotti e determinano una riduzione del Valore Aggiunto disponibile per i fattori della produzione. 

     L'utile netto dell'impresa è ciò che residua dopo che dal Valore Aggiunto prodotto sono stati sostenuti i costi relativi all'acquisto dei fattori della produzione, al pagamento degli interessi ai finanziatori e al pagamento delle imposte allo stato. Nell'economia cosiddetta di mercato la formazione dell'utile netto è soggetta al rischio della gestione, ovvero al fatto che il Valore Aggiunto prodotto non sia sufficiente a coprire i costi di utilizzazione dei fattori della produzione.            

       Nell'economia delle imprese la valutazione del rischio e il fronteggiamento conseguente è assunto dall'imprenditore che nelle imprese di maggiori dimensioni è di fatto la cosiddetta Alta Direzione. La «morale» dell'impresa, sia essa di grandi o piccole dimensioni, è però che la sua sopravvivenza ma soprattutto il suo sviluppo è legato da un lato alla crescita del Valore Aggiunto prodotto e dall'altro ad una distribuzione di tale reddito compatibile con l'equilibrio economico della struttura aziendale in quanto tale. Qui, ovviamente, la questione si fa particolarmente spinosa per effetto delle posizioni ideologiche, soprattutto quelle preconcette nei confronti dell'impresa capitalistica. Non è questa la sede per una trattazione dell'argomento.

     L'introduzione della moneta unica così come condizionerà lo standard produttivo delle imprese dell'Unione inevitabilmente condizionerà i meccanismi di distribuzione della ricchezza. 

    Si è appena visto che la ricchezza distribuita dalle imprese assume sostanzialmente cinque forme:

  

             1)  costo del lavoro

             2) costo del capitale

             3) interessi ai finanziatori

             4) imposte allo stato

             5) utili netti d'impresa

 

   Delle cinque forme di distribuzione del reddito prodotto le prime tre sono determinate da un mercato e precisamente dal mercato del lavoro, dei beni d'investimento e del credito. Nella fase precedente all'€uro i suddetti mercati hanno carattere nazionale e ognuno, soprattutto quello del lavoro, segue una propria evoluzione. Nella fase dell'€uro, decisioni politiche o meno, ciascuno dei tre mercati indicati  dovrà convergere verso uno standard definito. La convergenza potrà essere più o meno «gestita» (in particolare per il lavoro) da apposite istituzioni politiche e  sindacali ma è chiaro che nel lungo termine, se l'area dell'€uro persisterà, dovrà essere tale da rendere le condizioni di contrattazione uguali per tutte le imprese dell'Unione per il semplice motivo che una impresa comunitaria può facilmente spostare il proprio insediamento produttivo da un luogo all'altro della comunità e rimanere comunque nell'area economica dell'€uro. Ma la questione più importante sarà il fatto che nella generalità dei casi la struttura della distribuzione del reddito sarà determinata dalle condizioni di equilibrio delle imprese più grandi e più economicamente solide dell'Unione. Per i cittadini dell'Unione Europea il rischio maggiore sarà che se le imprese di una certa zona non avranno intenzione di adeguarsi a determinati standard o non saranno in grado di farlo anche i redditi distribuiti non saranno ai livelli delle imprese migliori: un divario esisterà sempre e comunque ma è chiaro che questa circostanza renderà sempre meno competitive le imprese non adeguate anche perché la  distribuzione del reddito non adeguata è normalmente determinata da una non adeguata struttura produttiva.    

       

 

 

               9. Imprese e tassazione

    

 

    Le problematiche relative alla tassazione delle imprese sono molteplici ma possono essere riassunte in due grandi categorie:

       a) gli effetti giuridici e economici dei tributi;

       b) i tributi esistenti nel diritto tributario vigente.  

 

   Gli effetti giuridici e economici dei tributi si risolvono nella sostanza nella distinzione fra il contribuente di diritto e il contribuente di fatto. Il contribuente di diritto è colui che è obbligato per legge alla prestazione tributaria e che pertanto è responsabile nei confronti dell'Amministrazione Finanziaria del mancato o dell'irregolare versamento del tributo dovuto. In particolare la categoria dei contribuenti di diritto può essere divisa in due sotto-categorie:

        1) il debitore «principale» del tributo;

        2) il sostituto d'imposta. 

 

   Il debitore principale del tributo è tale quando l'obbligazione tributaria deriva da una materia imponibile di sua pertinenza (reddito, patrimonio, singoli atti ecc.).

    Il sostituto d'imposta è tale quando l'obbligazione tributaria  deriva da una materia imponibile di pertinenza di terzi (per esempio redditi) sulla quale egli deve operare il calcolo tributario previsto dalle vigenti normative e provvedere al versamento del tributo in nome e per conto del soggetto che la legge individua come debitore principale. Il caso classico è l'obbligo dell'impresa di versare all'Erario le imposte dovute dai lavoratori sulle retribuzioni. In questo caso l'impresa fa da esattore per conto dello Stato trattenendo le imposte sulle retribuzioni erogate. E' importante mettere in evidenza che nei confronti dell'amministrazione finanziaria il responsabile dell'obbligazione tributaria è il sostituito d'imposta e non il soggetto inciso dal tributo.  

   Il contribuente di fatto è anche detto «inciso» in quanto è quello che subisce effettivamente l'onere tributario. La distinzione fra contribuente di diritto e contribuente di fatto riguarda per intero il meccanismo economico che è correntemente denominato traslazione d'imposta. 

    Il meccanismo della traslazione d'imposta è talvolta molto complesso e dipende sia dal tipo di tributo che dall'effettivo assetto economico-produttivo delle imprese: in pratica attraverso tale meccanismo un soggetto (tipicamente una impresa) colpito dal un tributo «trasferisce» su un altro soggetto (tipicamente il consumatore) l'onere economico del tributo anche se l'obbligazione tributaria resta al primo.                

     Rispetto ai tributi vigenti nella normativa tributaria si possono individuare le seguenti categorie:

          a) imposte dirette sul reddito

          b) imposte sul patrimonio

          c) imposte sugli affari

 

     Le imposte dirette sul reddito per le imprese dipendono molto dal tipo di assetto giuridico adottato. Nel caso di società di persone o di imprenditori individuali è tassato in capo ad un singolo soggetto il reddito proveniente dall'attività d'impresa, sommato ad altri eventuali redditi. Nel caso di società con personalità giuridica (tipicamente società per azioni) il reddito tassato è quello derivante dalle attività economiche esercitate dall'impresa e coincide quindi, in linea di massima,  con la differenza positiva fra ricavi e costi attinenti all'attività economica.

     Le imposte sul patrimonio attengono all'imposizione di una forma specifica di ricchezza economica che è appunto il patrimonio. Il concetto di patrimonio nell'imposizione fiscale in diretto riferimento alle imprese può riguardare singoli elementi (o cespiti, come anche si dice nel linguaggio tecnico-economico) ovvero colpire la ricchezza netta dell'impresa sinteticamente espressa, nel bilancio annuale, dal Capitale Netto dato dalla differenza fra il totale dell'attivo e il totale dei debiti verso terzi. 

     Infine le imposte sugli affari sono costituite da quei tributi che hanno come base imponibile lo scambio di merci o servizi e quindi, giuridicamente, il trasferimento di proprietà o del possesso. La più importante imposta sugli affari è costituita dall'imposta generali sui consumi (ovvero sull'utilizzazione finale)  delle merci e dei servizi che può avere due configurazioni:

              a) come imposta sul valore lordo;

              b)  come imposta sul valore netto.

 

    Nel primo caso l'imposta agisce ad ogni stadio del processo economico e il contribuente di diritto, quindi le imprese, sono incise dal tributo sulla base del  valore di trasferimento della merce o del servizio. In questo modo se un merce impiega quattro passaggi per arrivare al consumatore finale ad ogni passaggio il tributo dovuto non corrisponde semplicemente al valore della merce ma anche al valore del tributo precedentemente assolto. Esempio:

             Merce  X

 

   1°  passaggio:           £.     10.000

    2°  passaggio            £.     15.000

    3° passaggio             £.     22.000

    4° passaggio             £.     30.000

 

    Il passaggio n°  4 individua quello verso il consumatore finale della merce che corrisponde quindi al prezzo di mercato. Se viene introdotta una imposta sul valore lordo del 5% il valore dei «passaggi» saranno:   

    

    1°  passaggio:           £.     10.000  + 500 

    2°  passaggio            £.     15.000 + 750

    3° passaggio             £.     22.000 + 1.100

    4° passaggio             £.     30.000 + 1.500

 

da cui segue che il tributo effettivamente riscosso dall'erario è pari a £.  3.850 che corrisponde non al 5% ma al 12,83% del valore di mercato della merce (supposto pari a £. 30.000).   

         Se l'imposta è invece calcolata sul valore netto l'impresa del primo passaggio verserà sempre £. 500 ma la seconda a fronte di un debito verso l'erario di £. 750 vanterà un credito di £. 500 e così verserà solamente £. 250. L'impresa del terzo passaggio verserà la differenza fra £. 1.100 e  £. 750 e quella del quarto passaggio la differenza fra £. 1.500 e £. 1.100. Quindi si avrà, rispetto ai tributi versati:

    Prima impresa               £.     500  

    Seconda impresa           £.     250

    Terza impresa                £.     350

    Quarta impresa               £.     400

    Totale imposta                £.  1.500

 

    Come si vede, quindi, l'imposta complessivamente riscossa dall'erario è pari all'imposta pagata dal consumatore finale che in tal modo è il solo inciso dal tributo. Con un termine leggermente imperfetto tale tributo sul valore netto è anche denominato Imposta sul Valore Aggiunto che è l'imposta sul consumo applicata nella norma dei Paesi aderenti all'€uro.   

    Il complesso delle imposte che gravano sull'impresa costituiscono il cosiddetto carico fiscale che riduce la disponibilità di reddito e di patrimonio ma che in ogni caso determina anche un costo relativo al calcolo in quanto per la determinazione pratica del tributo sono necessari una serie di adempimenti «fiscali» attraverso i quali l'imposta è rilevata e versata. 

     Le questioni relative al carico fiscale sulle imprese in relazione all'introduzione dell'€uro e quindi del mercato unico per 11 Paesi europei sembrano essere essenzialmente due: la prima attiene alla uniformità dei tributi gravanti sulle imprese residenti nei diversi Paesi dell'Unione e la seconda, forse ancora più importante, all'uniformità degli adempimenti fiscali necessari alla riscossione dei tributi.    

   L'uniformità dei tributi gravanti sulla gestione delle imprese è determinata, in via generale, dai ricavi imponibili fiscalmente al netto dei costi fiscalmente detraibili. Sul risultato così ottenuto, cosiddetto utile fiscale o reddito, è applicata una o più aliquote in funzione delle quali è determinato il tributo dovuto dall'impresa. Mentre la determinazione dei ricavi e dei costi attinenti alla gestione economica dell'impresa seguono i criteri della competenza economica, quindi dell'inerenza temporale e della correlazione fra i costi sostenuti e il valore della produzione, la determinazione dei ricavi imponibili e dei costi detraibili segue la legislazione tributaria vigente in ciascuno stato per cui è possibile che certi ricavi che sono imponibili in un certo modo per una legislazione siano non imponibili in un'altra determinando in pratica difformità di imposizione pur in presenza di medesimi o simili valori economici. La questione della armonizzazione fiscale è decisiva e sicuramente gli Stati Membri dovranno provvedere a renderla operativa ma vi è un elemento che dovrebbe richiedere una maggiore attenzione e che sarà fonte di disparità di trattamento fiscale anche in presenza di legislazioni fiscali simili o identiche. L'elemento è piuttosto noto in economia aziendale e può essere così espresso. 

    Supponiamo che nel 1989 una impresa italiana abbia investito in impianti e attrezzature produttive 1.000.000.000 di Lire, una tedesca 1.503.000 Marchi e una francese 5.047.000 Franchi in modo che, dai i cambi dell'epoca (1 DM = 730 Lire; 1 FR = 215 Lire) ciascuna abbia investito la medesima somma. Poiché nel decennio considerato la svalutazione media annua della Lira è stata pari al 4,03% mentre quella del Marco è stata dello 0,93% e quella del Franco 0,82%  all'atto della determinazione del valore dell'€uro al 1 gennaio 1999 i cambi della Lira con Marco e Franco erano circa rispettivamente 990 e 295 Lire. Le tre imprese che procedono alla conversione dei valori espressi nella moneta nazionale in € iscriveranno gli investimenti indicati con i seguenti valori:

        Impresa italiana   =    516.457 €

        Impresa tedesca  =    768.472 €

        Impresa francese  =   768.934 €

 

   con il che se anche l'aliquota dell'ammortamento fiscalmente deducibile fosse del 5% per Italia, Germania e Francia vi sarebbe comunque una disparità di trattamento fiscale in quanto a fronte di un medesimo valore dell'investimento corrisponderebbe una differente deducibilità del costo. La questione è espressa ai minimi termini nell'esempio fatto ma il differenziale dei prezzi fra i diversi stati incide in tutte le componenti economiche e patrimoniali delle imprese e con esse sulla formazione effettiva del reddito corrente sul quale calcolare i tributi da versare. In assenza di una apposita legge di rivalutazione o di indicizzazione continua dei valori di bilancio le imprese si trovano a pagare, in effetti, somme a titolo d'imposta su redditi effettivamente conseguiti ma anche su redditi puramente nominali, il che in una corretta considerazione dei rapporti fra stato e imprese non dovrebbe accadere.