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VESTIVO COL MONGOMERI











Oggi è il 2 novembre 2006, sono le 13:40, sto mangiando con un occhio al piatto ed uno al televisore, quando al telegiornale cominciano a scorrere immagini in bianco e nero di un cinegiornale di molti molti anni fa.
Il tempo sembra fermarsi, antichi volti e nomi di cui avevo perso la memoria, cominciano a rimbalzarmi nella mente. Nomi e volti a cui non pensavo da anni ed anni, il Franti, il Piccolini, la Rosina e la Mariajolanda ed altri ancora, ma andiamo con ordine.


2 NOVEMBRE 1966



Era il 2 novembre del 1966, tra poche ore sarano 40 anni.
Frequentavo le medie alla "4 novembre", una scuola della periferia aretina, zona Gattolino, quella delle case popolari e delle prime coperative, quando ancora avevano una "o" sola.
Io abitavo in via Libia 26, un bel condominio, prima metà anni '60, elegantemente squallido, costruito in coperativa.
Tutti servitori dello Stato, mio padre ferroviere, la mamma professoressa d'inglese, sotto di noi il signor Muzzi, dipendente del tribunale di Arezzo, sotto ancora il Sorrentino, maresciallo dell'esercito e sopra il Robolotti, capitano, anche lui nell'esercito, le mogli, a parte mia madre, tutte casalinghe.
Di quegli anni il ricordo ancora vivido del segnale orario delle 20:30 dato dalla radio e preceduto dal cinguettio di un usignolo, sembrano trascorsi secoli.
Quel cinguettio ci coglieva regolarmente a cena, in cucina. Avevamo un tavolo verniciato di bianco lucido col piano di marmo.
Le previsioni del tempo non erano buone e faceva freddo, ma all'indomani, dopo la scuola saremmo andati a Firenze col treno.
Mio padre che lavorava nello stabilimento delle ferrovie di Pontassieve, a 18 chilometri da Firenze, ci sarebbe venuto a prendere in stazione, a Santa Maria Novella.
Di li a pochi giorni il mio onomastico e subito dopo il compleanno e così, parte del mio regalo sarebbe stata la serata al cinema. Dico parte perchè un pacchettino, prima o poi, l'avrei ricevuto.
Già pregustavo gli eventi, il 3 sarebbe stata una giornata da ricordare, a spasso per Firenze, poi cena al ristorante e infine al cinema, poi di nuovo il treno per il ritorno.


3 NOVEMBRE 1966



Il 3 mattina la scuola sembrava non finire mai, poi il pranzo e subito dopo via in stazione.
Il naso incollato al finestrino, i velluti rossi, il legno lucido, il porta valigie in ottone con la rete di corda. Viaggiavamo in prima classe coi biglietti gratuiti dei familiari dei ferrovieri.
I finestrini erano rigati dalle gocce d'acqua che continuava a cadere, mai con eccessiva violenza, ma in maniera costante e continua.
A quei tempi eravamo più rustici, non si faceva un gran caso alla pioggia, c'erano gli ombrelli e io avevo anche il cappuccio del mongomeri.
Che poteva fare un po' d'acqua?
Alle 15:30 eravamo in piazza della Signoria, Palazzo Vecchio, la Loggia, le statue, poi Ponte Vecchio, non c'ero mai stato sopra prima di allora.
E ancora a passeggio a vedere le vetrine ed arrivare fino al mercato e toccare il bronzo lucido della statua del "Porcellino" che poi è un cinghiale.
Siamo attratti da un negozio dall'apparenza molto chic, col nome inglese, ricordo un'intera vetrina piena all'inverosimile solo di cravatte e in bella vista delle sciarpe.
Tra queste una, bellissima, di lana rasata, verde rossa e blu, molto elegante, molto "inglese", un cenno d'intesa con mia mamma ed entrammo.
Eccolo trovato il pacchetto del mio compleanno. All'uscita incontrammo Mariajolanda, una bis o tris cugina fiorentina, che uscita dal lavoro si affrettava verso casa.
Quattro chiacchiere al caffè sotto ai portici in piazza della Repubblica, mentre la pioggia si faceva sempre più insistente e, con la sera scendeva anche la temperatura.


3 NOVEMBRE 1966 - TARDO POMERIGGIO



Retrospettiva.
Anche col freddo Firenze è bella, piove, il cielo è ormai buio, sono le sei passate del pomeriggio.
Stiamo tutti bene, siamo felici, ma abbiamo i piedi fradici.
Le promesse son promesse e vanno mantenute, soprattutto quando sono fatte dagli adulti ad un adolescente.
Così sono io a dover decidere se finire d'incassare il mio regalo di compleanno o andare a prendere un treno ed anticipare il ritorno.
Ristorante e cinema sarebbero stati solo rimandati alla settimana successiva.
Il tempo è sempre più inclemente, la gioia per quella sciarpa ancora fresca, salutiamo Mariajolanda e ci avviamo verso Santa Maria Novella, la stazione.
All'uscita dai portici un muro d'acqua.
Si rasentano i muri, ciascuno col suo ombrello, la pioggia sempre più intensa.
Finalmente via de'Panzani, ormai l'acqua cade in funi, ma manca poco al sottopasso della stazione, li finalmente si può chiudere l'ombrello.
C'è allegria come se si fosse superata una grande prova, se ci si sbriga c'è un treno per Arezzo al binario 18, corriamo. Il capotreno ha già chiuso le porte ed è in piedi sul predellino pronto a dare il via, ma ci vede arrivare trafelati, ci aspetta.
Saliamo al volo, mamma in testa percorre il corridoio, è sempre lei a scegliere i posti.
Siamo soli nello scompartimento, finalmente un po' di caldo, i cappotti vengono sbattuti nel corridoio per sgrondare un poco dell'acqua che l'impregna.
Il mio mongomeri, color miele, sembra color cioccolato dalla cintura in giù. Mi sfilo la sciarpa e la guardo, è proprio bella, come quelle delle divise dei college inglesi.
Partiamo.
Il Valdarno scorre vago nel buio, le luci riflesse in mille gocce che scolano continue sul vetro.
Il mio posto è al finestrino, come sempre, ogni tanto ne spanno un cerchio, accosto la fronte, le mani chiuse a coppa attorno agli occhi a schermare la luce, per guardare nel buio, per capire dove siamo.
Riconosco certi profili, le case di Indicatore, mancano solo pochi chilometri ad Arezzo. Siamo quasi a casa.

Il nostro fu l'ultimo treno che riuscì ad arrivare ad Arezzo, quello partito mezz'ora dopo di noi da Santa Maria Novella fu fermato in mezzo alla campagna, nei pressi di Incisa.
L'Arno minacciava seriamente i ponti.
I viaggiatori passarono molte ore al gelo, alle 2:00 di mattina fu tolta la corrente e il riscaldamento.


4 NOVEMBRE 1966



Il 4 novembre il cielo era grigio, le nuvole correvano veloci, era il giorno di San Carlo Borromeo e pioveva, pioveva, pioveva.
I sottopassaggi di Arezzo erano allagati, la città era tagliata in due dalla ferrovia, aperto un unico passaggio a livello, ma la giornata di festa non richiedeva uscite, gli aretini erano tutti rintanati in casa, nemmeno i cinematografi quel giorno aprirono le saracinesche.
Si diceva che a Firenze l'Arno fosse uscito dagli argini e che tutto il centro fosse sott'acqua.
Giungevano notizie di ponti spazzati via e di treni bloccati in Valdarno e ripensavamo alla fortuna avuta nel riuscire a salire su quell'ultimo treno.
I fiorentini erano terrorizzati dall'idea che le spallate dell'Arno minassero le dighe di Levane e de La Penna, sarebbe stato un disastro ancora più grande, una strage. In più era ancora freso il ricorto del Vajont, erano passati solo tre anni da quando un muro d'acqua aveva cancellato Longarone e i suoi abitanti.
Credo che la cosa più devastante che questa situazione creò fosse proprio il senso d'impotenza totale e assoluto della gente, cittadini di quell'Italia che aveva saputo lasciarsi alle spalle le macerie della guerra e che ancora cavalcava l'onda del boom economico e dalla finestra vedeva ben altre onde spazzare via in un baleno la normalità del quotidiano vivere.
Firenze, ma anche tutto il Valdarno, era sotto tre metri e forse più, d'acqua, melma e detriti e nafta, fuoriuscita dalle cisterne dei condomini, strizzate dalla pressione idrostatica come tubetti di dentifricio.
Tutte le strade di collegamento interrotte, la ferrovia interrotta, i soccorsi impossibilitati a raggiungere gli alluvionati.
Figline Valdarno finì tutta sott'acqua con le genti sui tetti e novelli Caronte, con barchette a remi buone al più per la pesca alla trota nei ristagni dell'Arno, a traghettarli, pochi per volta, in posti più sicuri.
Finalmente a sera mamma riuscì a prendere la linea ed a parlare al telefono con Mariajolanda, stavano tutti bene, ma la bicicletta della Rosina, la mamma della Mariajolanda, se l'era portata via la piena.


5 NOVEMBRE 1966



Il 5 novembre il cielo era ancora carico di nuvole, faceva freddo, ma non pioveva più.
Le dighe sull'Arno avevano tenuto.
Nelle zone colpite riuscirono ad arrivare i primi soccorritori.
Per me la storia finiva li, mi restava una sciarpa e una montagna di compiti da fare per il 6.
Nel mondo degli adulti invece la storia non era finita, anzi ...
Più calava la paura più montava la rabbia, su tutti i giornali dei giorni successivi campeggiò una domanda: perchè nessuno aveva allertato i fiorentini?
Perchè la popolazione non era stata informata della reale portata degli eventi?
Eppure gli allarmi c'erano stati, gli orafi con bottega in Pontevecchio erano stati avvisati e nella tarda serata del 3 avevano portato al sicuro almeno le cose più preziose.
Artigiani, commercianti, ristoratori, ambulanti, a questi ultimi sarebbe bastato spostare i propri banchi di poche centinaia di metri, persero tutto.
Per alcuni un'intera vita di lavoro, per altri due vite, la prima cancellata dalle bombe del '44 e del '45 e faticosamente ripartita con la ricostruzione.
E per fortuna il 4 novembre era festa, fosse stata una giornata lavorativa i morti si sarebbero contati a centinaia se non a migliaia.
Tutta la Toscana fu colpita da quell'alluvione, Firenze rappresentò "il caso", ma non solo i fiorentini furono colpiti, tutto il bacino dell'Arno fu sconvolto, a partire dal Casentino, e lo stesso fu per l'alta Valtiberina e per il bacino dell'Ombrone.
Particolarmente colpito fu il grossetano.
All'epoca andavamo al mare a Marina di Grosseto, tempo dopo leggemmo su "La Nazione" che al signor Telemaco Turolla, si chiamava proprio così, proprietario del nostro stabilimento balneare, era stata data la medaglia d'argento al valore civile per aver salvato tre persone trascinate fino in mare dall'onda di piena che aveva devastato il porto-canale di Marina.


EPILOGO



Nella primavera del '67 il professore di ginnastica, si chiamava Gori, ci portò a Firenze, c'era il sole ed era una bella giornata.
Alla stazione salimmo su una corriera blu, sedili imbottiti (poco) di plastica marrone, schienali bassi, con noi altri ragazzi arrivati da Siena e da Grosseto. S'andava a correre a Campo di Marte, o forse erano gli impianti di Coverciano, non lo ricordo, per i Giochi della Gioventù, ma forse a quell'epoca non si chiamavano ancora così.
Io facevo gli 80 metri piani, il salto in lungo e il triplo.
A quell'epoca ero veloce per la mia età e per le finali regionali il professore mi aveva prestato le sue scarpette coi chiodi, all'epoca avevo già il 42, ma questa è un'altra storia.
Finite le gare e le premiazioni, io ebbi una microscopica medaglietta un Cioccorì e una gazzosa per essere rientrato nei primi dieci della graduatoria finale, andammo in centro a vedere i "danni", ero con Massimo Franti e Daniele Piccolini, due miei compagni di scuola e di scorribande. Eravamo molto amici. Non so per quale motivo, volli andare fino a quel negozio "chic" dalle parti di via de Neri, il negozio delle cravatte.
Quasi non lo riconobbi, era completamente vuoto, privo d'infissi, le vetrine, gli arredi, tutto scomparso, l'Arno s'era poèrtato via perfino l'insegna lasciando solo quella dipinta sul muro sopra la porta, appena leggibile, i neon scomparsi e i monconi storti degli ancoraggi e delle tende parasole a testimoniare la violenza degli eventi.
Sembrava una rimessa per le macchine.
Sui muri i segni dell'acqua fino al soffitto e ovunque ancora il puzzo aspro della nafta.

La storia finisce qui, nulla di che.
Quando mi capita d'andare a Firenze, se posso, faccio sempre un passo fino in Santa Croce per stupirmi ancora a vedere quella piccola lapide sul muro, in fondo a via dell'Anguillara, a segnare il colmo della piena del 4 novembre del '66, quando vestivo col mongomeri.
Ah! Dimenticavo.
Ho ancora quella sciarpa, è ancora bella, un poco sbiadita forse, ma in fondo ha 40 anni e fra tutte le sue sorelle è l'unica sopravvissuta.










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