La nuova Voce
Giuliana del 1° ottobre 2014
Presentazione del Documentario "Foibe" di Guido Rumici alla
71° Mostra del Cinema di Venezia,
con Alessandro Cuk, Davide Rossi e Stefano Setti (30 agosto 2014).
Durante la Mostra del Cinema che si è svolta al Lido di Venezia, uno spazio è stato dedicato ai documentari inerenti i temi della Venezia Giulia e del confine orientale. In particolare, sabato 30 agosto, presso l’Hotel Excelsior si è svolta la presentazione del volume “Cataloghi dei documentari sui temi giuliano dalmati”, ultimo lavoro del dottor Alessandro Cuk, giornalista e critico cinematografico, nonché presidente dell’A.N.V.G.D. di Venezia, uscito per la casa editrice Alcione. Il libro è stato presentato dal prof. Guido Rumici, studioso della storia del confine orientale e autore di numerosi saggi divulgativi e documentari di approfondimento su questi argomenti, e dal prof. Davide Rossi, dell’Esecutivo Nazionale ANVGD e del Direttivo di Coordinamento Adriatico. La presentazione si è svolta presso lo Spazio Regione Veneto, in collaborazione con il Cinit-Cineforum italiano. Il punto di partenza per la realizzazione di questo volume è stato quello di dare una base di organicità e di ordine alle varie opere documentaristiche riguardanti le terre dell’Adriatico orientale, anche allo scopo di realizzare rassegne cinematografiche, mettendo in evidenza che molti lavori sono stati prodotti, ma ci sono ancora molte potenzialità inespresse e ogni nuova proiezione è un modo per fare ancora più luce su una pagina buia della storia italiana. Il libro è strutturato in venti paragrafi, ognuno dedicato ad un diverso documentario, che Alessando Cuk ha scelto per cercare di delineare un panorama dei principali argomenti trattati nei vari lavori, che spaziano dalla storia alla geografia, dalla cultura nella sua più ampia accezione alla gastronomia.
Nell’occasione sono stati pure proiettati al pubblico del Festival di Venezia ampi spezzoni del documentario “Foibe”, girato e realizzato dal prof. Guido Rumici per conto dell’A.N.V.G.D., imperniato sulle drammatiche vicende degli eccidi avvenuti nel territorio giuliano nel 1943 e nel 1945, con numerose testimonianze e racconti di esuli istriani, tra cui Graziano Udovisi, Mario Grabar, Tullio Svettini e Lino Vivoda.
Sia il volume del dottor Cuk che il documentario “Foibe”, cui nel libro è dedicato un intero paragrafo, sono stati seguiti con interesse e partecipazione da un pubblico ampio e variegato: una bella occasione per divulgare una pagina di storia nazionale che non tutti ancora conoscono.
La Voce del Popolo 26.07.2014
TESTIMONIANZE Autore di una quindicina di libri, il prof.
Guido Rumici, è un testimone della vicenda del nostro popolo sparso
Cresciuto
tra due dialetti sulle rive di Grado
“ Istria putela, suta e zentilina, oci de acqua marina che te fa duta bela…”,
così scriveva Biagio, così scriveva Biagio Marin guardando dalla sua Grado la
linea di terra che appariva all’orizzonte nei giorni di cielo terso. Ma era
anche credenza che da quella apparizione lontana, arrivassero nelle notti fredde
le “variuole”, le streghe che remando avvolte nei loro mantelli, raggiungevano
la laguna per portare via i bambini. Poesie, leggende che testimoniano contatti
tra due sponde che la storia recente aveva cancellato, da recuperare. In quel di
Grado, è nato ed abita anche Guido Rumici, insegnante, storico che ha dedicato
molti libri ai tragici destini di queste terre sconvolte dalla seconda guerra
mondiale. Grado, Fossalon, Gorizia, alle spalle di Trieste, sono una realtà
segnata dall’esodo delle popolazione dell’Adriatico orientale. Rumici come ha
scoperto questo mondo?
Lo racconta in questa intervista. “Grado è l’estremo lembo occidentale della
Venezia Giulia ed io sono stato fin da bambino incuriosito dal fatto che la
gente parlasse due dialetti diversi, ma simili, quello di mio padre e...l’altro.
Per scoprire col tempo che gli “altri” erano gli istriani, chiamati “i esuli”,
quasi la metà delle persone che i miei genitori conoscevano. Nelle lunghe cene a
casa mia, con loro si parlava di Pola, Rovigno, Parenzo, Fiume, Albona, Ragusa,
città che venivano descritte come luoghi bellissimi ed incantati, paradisi
perduti. All’età di quattro anni, cominciarono le mie vacanze in queste località
della costa, sempre in compagnia degli amici esuli e dei loro figli.
Un incanto senza fine, l’infanzia e l’adolescenza. Il mare profondo e
trasparente, gli scogli, i pesci ed i fondali, i profumi della vegetazione, fu
amore che ancora permane perché l’esplorazione non si è mai conclusa”.
Che cosa ti ha
spinto ad esplorare i percorsi che hanno portato sin qui gli esuli
giuliano-dalmati?
“Fu verso i 20 anni, quando cominciai a cercare di capire i sentimenti ed i
vissuti di chi era partito esule e di chi era rimasto a vivere a casa propria.
Due cose mi spinsero ad approfondire queste tematiche: in primo luogo mi aveva
sempre colpito l’attaccamento ai luoghi che avevano abbandonato ma anche e
soprattutto l’impossibilità del ritorno. Una immensa tristezza che però
ritrovavo anche in Istria dove chi era rimasto sopportava, spesso con malcelato
silenzio, situazioni e pressioni che stentavo a mettere a fuoco. Volevo capire.
Nel 1984 entrai, quasi timoroso, nel Centro di Ricerche Storiche di Rovigno,
dove il prof. Giovanni Radossi, direttore dell’Ente, mi accolse con simpatia,
coinvolgendomi con spiegazioni illuminanti e riempiendomi di pubblicazioni che
mi invitò a leggere. Lo feci, avido. Poi visitai i vari archivi e infine iniziai
a raccogliere testimonianze orali, sia tra gli esuli che tra rimasti. Ne ho
svariate centinaia, su ambo i versanti del confine, molte già pubblicate nei mei
libri, altre inedite”.
Il primo incontro con Fossalon, con la sua gente?
“Mia mamma ha fatto la maestra elementare a Fossalon e mi fece fare la prima
elementare nella sua scuola. Fossalon era ed è la frazione agricola di Grado, in
terraferma, abitata da coloni veneti e da esuli istriani, giunti dopo il
Memorandum di Londra del 1954. Ero l’unico gradese in mezzo a tutti figli di
istriani. Lì imparai anche il loro dialetto. Ricordo che erano quasi tutti
originari della Zona B del TLT, figli di contadini del Buiese, dell’Umaghese e
del Cittanovese. Il mio compagno di banco era il nipote dello scrittore Fulvio
Tomizza che, non a caso ha dedicato un libro, “Il bosco di acacie”,
all’insediamento degli esuli a Fossalon”.
Storie emblematiche che hai raccolto?
“Quando gli esuli giunsero a Fossalon, dopo la metà degli anni Cinquanta, questa
località sembrava un deserto, solo da pochi anni si era conclusa la bonifica di
una terra strappata al mare. Soprattutto gli anziani, all’inizio, provarono
disperazione profonda davanti a questa pianura vuota, senza alberi, paragondola
alla loro terra rossa che vedevano continuamente volgendo lo sguardo verso sud,
a sole poche miglia, oltre quel mare che in passato aveva unito le genti e ora
invece le divideva in maniera violenta. Poi, da buoni istriani, si rimboccarono
le maniche e con anni di lavoro si rifecero una vita, grazie anche, è giusto
sottolinearlo, alle provvidenze ed agli aiuti del Governo Italiano, di cui
spesso ci si dimentica. Uno di loro mi disse, parlando del proprio vissuto, che
l’Italia aveva perduto l’Istria ma aveva salvato almeno gli Istriani. I
pescatori istriani invece si sono inseriti ed amalgamati in modo graduale nel
tessuto lavorativo e sociale gradese, portando con sé le proprie imbarcazioni
d’alto mare e le proprie tecniche di pesca, diverse da quelle dei gradesi, cui
hanno insegnato molto in materia di pesca d’altura. In porto a Grado, sino a
pochi anni fa, si sentiva parlare sia in gradese, sia rovignese, sia fasanese.
Mi ha colpito soprattutto la tenacia dei pescatori rovignesi, circa 200 persone
con i loro familiari, che sono riusciti a mantenere contatti clandestini, in
mare aperto, con i loro parenti e amici rimasti in Istria, per tutti i lunghi
anni in cui varcare il confine terrestre italo-jugoslavo era difficile se non
proibitivo”.
Quante sono le famiglie giuliano-dalmate tra Grado e Fossalon?
“Tra la città di Grado e la frazione di Fossalon giunsero in tutto, tra il 1943
ed il 1958, circa 3.500 profughi (2.500 nei dodici anni compresi tra la fine
della guerra ed il 1956 e circa un migliaio sommando il biennio bellico 19431945
ed il 1957/1958). Un po’ più della metà di loro lasciò poi, negli anni seguenti,
il Comune di Grado per trasferirsi in altre località (soprattutto i polesi), per
cui si può calcolare che la cifra degli esuli effettivamente rimasti ad abitare
a Grado città ed a Fossalon in pianta stabile si sia attestato attorno alle
1.600/1.700 unità. Alcuni decenni dopo, nel marzo 1993, erano ancora residenti
nel Comune di Grado circa 850 persone nate nei territori ceduti ora appartenenti
alle nuove Repubbliche di Slovenia e di Croazia. In tale cifra non sono
contemplati i loro discendenti che si sentono ormai gradesi a tutti gli
effetti”.
Si parla spesso di eccellenza nel mondo dell’esodo, qualche nome importante
anche in queste zone?
“Voglio rammentare l’onorevole Giuseppe Bugatto, zaratino, deputato a Vienna
sotto l’Austria e poi rappresentante del Comune di Grado presso il Governo
Militare Alleato (G.M.A.) dopo il 1945, l’industriale rovignese Pedol, che diede
vita alla Safica, fabbrica del tonno, dove lavoravano decine di operai; il
dottor Smareglia, che fece aprire l’ospedale civile di Grado, il dottor Anteo
Lenzoni, magistrato di Pola, membro del C.L.N., organizzatore del trasferimento
ed accoglienza degli esuli di Pola a Grado, il rovignese Tullio Svettini,
attore, regista ed anima delle compagnie teatrali di Grado. Vi furono poi una
trentina di maestri e professori istriani, fiumani e dalmati. Tra di loro voglio
ricordare il maestro Giuliano Mattiassi, vero faro degli esuli istriani a Grado
e per moltissimi anni delegato dell’ANVGD locale”.
In che modo le seconde e terze generazioni potranno continuare a mantenere
viva una memoria storica?
“Soltanto quelle persone che hanno una particolare sensibilità umana, di ricerca
delle proprie radici, possono continuare a guardare al recupero della memoria
dei propri avi. Talvolta si tratta di casi isolati, che è difficile coagulare in
un gruppo. Solo gli strumenti informatici possono avvicinare oggi persone che,
pur vivendo anche molto distanti geograficamente, hanno la voglia e l’interesse
di mantenere questa memoria storica”.
Dialogo esuli-rimasti, una tua riflessione sulla possibilità di costruire una
rete di contatti ed iniziative.
“Il dialogo c’è da oltre vent’anni e solo alcuni ambienti ancora troppo legati a
logiche di chiusura non vuole riconoscerlo.
La rete di contatti che all’inizio era sviluppata solo a livello individuale e
di singoli studiosi ed interessati, è oggi molto più fitta di qualche anno fa.
Credo che i tempi siano maturi per una maggior collaborazione tra gli enti e i
sodalizi delle due diverse realtà, e quindi anche ad iniziative comuni in campo
culturale (vedi la MLHistria), religioso, sportivo ed associativo, anche perché
il tempo passa e gli iscritti alle varie sigle sono inesorabilmente sempre di
meno”.
Scrivere i tuoi libri sulle vicende del confine orientale, che cosa ha
rappresentato per te?
“E’ stata una sfida condensata in una quindicina di pubblicazioni sulle vicende
giuliano-dalmate, perché sapevo di dover sempre sfiorare l’ombra della politica
e delle ideologie, mentre invece volevo cercare di raccontare queste vicende
soprattutto dal punto di vista umano, delle gente comune. Ho cercato di
descrivere le varie e diverse posizioni di chi è partito e di chi è rimasto e
sapevo anche che la scelta di far parlare uomini e donne degli opposti
schieramenti mi avrebbe procurato antipatie ed accuse. Però, in questo modo ho
anche conosciuto moltissime persone di una umanità straordinaria, con grandi
valori e con storie incredibili, che mi hanno comunicato grandi emozioni.
In molti casi gli anziani mi hanno raccontato vicende che nemmeno ai loro
congiunti avevano raccontato, spesso per non addolorarli troppo, facendomi
sentire da un lato onorato delle loro confidenze ma anche gravato dal peso che
volevano lasciarmi, di testimone dopo la loro scomparsa. Altre volte mi hanno
chiesto di non pubblicare nulla data l’assoluta drammaticità dei loro vissuti.
Si è trattato quindi, da parte mia, di un viaggio attraverso i sentimenti di
generazioni diverse, che purtroppo stanno scomparendo, e che non so se riuscirò
mai a descrivere compiutamente”.
( Intervista di Rosanna Turcinovich Giuricin)