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Introduzione al primo volume "Chiudere il cerchio"

 

Nota storica: dalla fine dell’Impero alla fine del Regno.

 

 

Nella vicenda contemporanea delle terre alto-adriatiche, e in particolare della Venezia Giulia, il momento di svolta è costituito dalla dissoluzione dell’Impero asburgico, che innescò una crisi destinata a durare sino alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, prima di concludersi con un nuovo assetto così stabile, da reggere anche alle profonde turbolenze della fine secolo: la fine della guerra fredda e la scomparsa della Jugoslavia. Alla radice della crisi stava il passaggio dell’area giuliana da una compagine imperiale dalle spiccate caratteristiche plurinazionali – estesa dalle rive adriatiche al retroterra centro-europeo – agli stati nazionali successori, Italia e Jugoslavia, in grado di controllare soltanto, e parzialmente, la fascia costiera. Venne così irreversibilmente meno il meccanismo economico emporiale che tra il XVIII e il XIX secolo aveva generato lo sviluppo, seppur disuguale, dell’area istro-quarnerina, e che si fondava sui privilegi doganali e tariffari garantiti dall’amministrazione asburgica.

Anche per l’Austria il Litorale era periferia, ma una periferia strategica, perché costituiva la finestra sul Mediterraneo di uno stato essenzialmente danubiano: valeva quindi la pena di investire le ingenti risorse reperibili in una grande potenza europea per affidare a Trieste ed in minor misura a Fiume, il ruolo che già era stato di Venezia e, ancora prima, di Aquileia. Negli stati successori invece la perifericità divenne marginalità: assai marcata rispetto all’Italia, meno rispetto alla Jugoslavia, gravemente penalizzata peraltro quest’ultima dal suo complessivo ritardo economico.

L’esaurirsi della crescita emporiale comunque, non poteva significare la fine delle trasformazioni. E così, mentre la prima ondata di modernizzazione, quella austriaca dal Settecento in poi, si era limitata ai grandi centri – Trieste, Fiume, Pola – la seconda fase, quella italiana degli anni Venti e Trenta del Novecento, coinvolse pure le cittadine istriane la cui popolazione, assai fiera di appartenere ad una delle realtà avanzate d’Europa, cominciò a sperimentare stili di vita e aspettative comuni a tante altre parti del Paese. Quella modernizzazione senza sviluppo però – a parte alcuni grandi interventi infrastrutturali  troppo tardivi per ribaltare la situazione – non riuscì a coinvolgere, e quindi ad integrare, le realtà rurali, e finì anzi per esaltare quella polarità fra città e campagna che nella Venezia Giulia, come in tante altre regioni dell’Europa centrale, corrispondeva largamente ad una diversità nazionale.

I conflitti nazionali tra italiani e slavi avevano avuto origine già in epoca asburgica, ma la scomparsa della cornice imperiale fece compiere loro un decisivo salto di qualità. In tutta l’Europa già asburgica, zarista e ottomana alcune componenti nazionali riuscirono a costituire i propri Stati nazionali oppure a far annettere dalla madrepatria esterna i territori in cui sono insediate. Le componenti che invece non ce la fecero, si trasformarono in minoranze nazionali, guardate con ostilità da parte dei gruppi dominanti, che le consideravano un ostacolo alla piena nazionalizzazione del territorio, obiettivo principe dei nuovi Stati. Nella Venezia Giulia ormai redenta anche i patrioti italiani di mente più aperta dubitavano che le classi dirigenti slave, portatrici dell’ideologia nazionale slovena e croata, potessero riconoscersi nelle istituzioni del Regno d’Italia. Già nell’immediato dopoguerra quindi, prima della marcia su Roma, ebbe inizio l’allontanamento dei quadri politici, intellettuali e religiosi sloveni e croati considerati “agitatori” antitaliani, e non è un caso che alcuni di essi si trasferirono a Maribor, già Marburg, prendendo il posto dei tedeschi che l’avevano appena dovuta abbandonare.

La marea della semplificazione nazionale montava dunque in Europa, ma il regime politico degli Stati in cui ciò avvenne ne condizionò forme e intensità. Il fascismo di confine fu esplicito nel porre la “bonifica etnica” quale obiettivo prioritario della sua politica, che si distinse per il radicalismo dei propositi, l’intensità dello sforzo snazionalizzatore e l’ambiguità dei risultati ottenuti. La strategia dell’assimilazione forzata diede buoni risultati nei contesti urbani, ma penetrò poco nelle campagne, dove le identità nazionali slovena e croata, pur di recente formazione, mostrarono un radicamento del tutto inatteso. La capacità di resistenza delle schegge di “nazioni senza storia” fu una sorpresa che riguardò anche altri Stati nazionalizzatori, come la Polonia: e ciò mostra come nel cuore dell’Europa il problema delle minoranze intese non quale ricchezza ma quale debolezza dello Stato, non fosse risolvibile se non con metodi così radicali – sull’esempio dell’espulsione dei greci dall’Anatolia e dei musulmani dai Balcani – da risultare pensabili solo nel contesto catastrofico di un nuovo conflitto mondiale.

Questo arrivò ben presto e ribaltò gli assetti che gli italiani credevano ormai definitivi. La guerra fece esplodere le tensioni nazionali e sociali che si erano accumulate nei decenni precedenti ed impresse alla storia una brusca accelerazione. In brevissimo tempo, nel corso del 1941, l’Italia sembrò ottenere nell’antico golfo veneto tutto ciò che i nazionalisti italici avevano sognato: il controllo dell’intera fascia che da Fiume scende fino al Peloponneso. A ben vedere, si trattava solo della buccia costiera della ben altrimenti succosa polpa imperiale del Terzo Reich, che comprendeva tutti i Balcani, ma era una dimensione che l’Italia faticava comunque a reggere e che appena due anni dopo, nel 1943, si dissolse nel generale collasso del regime fascista e dello Stato. Nel frattempo, le annessioni e le occupazioni italiane in Slovenia, Croazia e Montenegro avevano suscitato nuovi motivi di rivalsa da parte dello Stato degli slavi del sud, mentre la nascita di un movimento di liberazione pan-jugoslavista, che faceva proprie le tradizionali rivendicazioni slovene e croate verso i territori giuliani, offriva inedite possibilità di riscatto alle minoranze slave residenti nei territori che il trattato di Rapallo del 1920 aveva assegnato all’Italia. L’armistizio dell’ 8 settembre e la conseguente dissoluzione del potere italiano aprirono quindi una crisi che avrebbe rischiato di travolgere l’intera italianità adriatica.

Raoul Pupo

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