DARYLL di Luciana Ciolfi I traslochi erano diventati ormai quasi una routine. Papà e il suo lavoro richiedevano dei continui spostamenti e questo a Daryll piaceva, la faceva sentire come in un grande parco giochi, conosceva posti nuovi, e i suoi curiosi occhi di bambina erano sempre affamati di novità. Aveva tre anni ed essendo l’unica figlia di uno scienziato conosciuto a livello planetario, aveva il privilegio di seguire i propri genitori ovunque essi decidessero di spostarsi. Qualche volta poteva essere pericoloso ma le premure della mamma l’avevano sempre tenuta lontana dai possibili rischi. La mamma era alta e bella (tutte le mamme sono alte e belle e bionde e buone...), aveva dei lunghi capelli biondi, con lucenti sfumature tendenti al rosso che portava raccolti sulla nuca. Gli occhi grigi avevano sempre uno sguardo particolarmente protettivo nei confronti di quella figlia costretta a spostarsi continuamente. Ma questo era il prezzo che dovevano pagare se volevano che crescesse con loro e imparasse ad amare quello che facevano. Nella loro società non era una buona abitudine quella di lasciare l’ educazione dei propri figli nelle mani di tutori, soprattutto nei primissimi anni della loro vita. Suo marito era un antropologo, una persona mite e piena di premure. Un bell’uomo, alto e con il fisico asciutto e ben curato della persona che tiene alla propria immagine, corti capelli castani, un po’ stempiato, gli occhi neri e leggermente a mandorla. Era conosciuto e apprezzato e in qualsiasi occasione di ritrovo si poteva stare certi di incontrarlo con al fianco l’inseparabile compagna, ospiti sinceramente graditi di questo o quel personaggio. Era di moda invitare scienziati e letterati per dare un tocco di classe all’ ambiente. Quella mattina si erano svegliati tutti di buon’ora e con i bagagli già fatti si stavano preparando a partire per il luogo dove il velivolo li stava aspettando. La mamma era inquieta, aveva avuto degli incubi quella notte e non era riuscita a rasserenarsi del tutto. Nemmeno le coccole del papà erano riuscite a cambiare le cose. Dal canto suo Daryll era felice come dieci bambine felici, correva e saltellava in lungo e in largo e il pensiero di dover lasciare di nuovo i suoi compagni di giochi non la turbava minimamente. Il tragitto dalla casa al velivolo fu coperto in pochi minuti e quando furono a bordo Daryll era talmente eccitata da non riuscire nemmeno a sistemarsi nella sua postazione. Avrebbero fatto un viaggio molto lungo e a lei era riservato l’abitacolo più protetto, quello d’emergenza. Poteva succedere che qualcosa non funzionasse e la sua vita era la cosa più preziosa che ci fosse a bordo. Non doveva correre rischi. Mamma e papà impostarono le coordinate per il viaggio e si scambiarono le ultime frasi di rito, poi si baciarono e si diressero alle loro capsule. Appena si furono sdraiati all’interno, il computer che regolava le loro funzioni vitali chiuse ermeticamente le capsule e diffuse all’interno un blando sonnifero. Poi la procedura di decollo cominciò il mezzo partì con un rombo assordante in mezzo ad una nuvola di vapore. La loro tecnologia era molto avanzata e di quel viaggio di milioni di anni luce avrebbero avuto solo un vago ricordo. Avrebbero "bucato" il tempo e lo spazio e sarebbero arrivati sul luogo del nuovo lavoro in poche ore. Tutto procedeva secondo i piani, come centinaia di volte prima di questa. Ma qualcosa non avrebbe funzionato. Deserto del New Mexico, estate 1974. Ore 21:00 Lo schianto fu tremendo. La bambina fu sbalzata con tutta la capsula d’emergenza a parecchi metri di distanza dal luogo dell’incidente. Stava dormendo e il suo piccolo corpo era assicurato al lettino da cinture di sicurezza che fecero bene il loro lavoro. Passò dal sonno all’incoscienza senza nemmeno accorgersene. I suoi genitori non ebbero molta fortuna, o forse si, visto che morirono all ’istante, uccisi dall’impatto e carbonizzati dal rogo che subito dopo si sviluppò. Erano state due brave "persone" e non meritavano certamente quella fine ma qualche volta il destino è crudele e si diverte a scombinare le regole del gioco. C’erano suoni strani e gente che pronunciava parole e frasi che la piccola non conosceva. Era rinvenuta ma si sentiva stordita anche se non ancora terrorizzata, il terrore e la solitudine sarebbero arrivati dopo, nei mesi e anni a venire. Qualcuno, un uomo grande e grosso, aprì la capsula che la proteggeva, la liberò dalle cinture e la prese in braccio. Quelle persone non si erano ancora rese conto di quello che era successo, pensavano ad una sciagura aerea come tante, ad un velivolo privato che avesse perduto la rotta e si fosse schiantato in quella landa desolata del New Mexico, a pochi metri da un piccolo agglomerato di "case viaggianti". Non erano degli esperti e non capivano la particolarità dei rottami che avevano davanti. Avevano visto i due corpi bruciati e decisero che la priorità andava alle condizioni della bambina che si trovava dentro lo strano cilindro. Adesso aveva paura, voleva la sua mamma e la chiamava, ma le persone che le stavano intorno sembrava che non capissero le sue parole. Erano sinceramente rattristate per lei, povera piccola, rimasta sola così all’improvviso. Avevano già messo in moto la macchina della solidarietà e piano piano le sue braccia si erano riempite di animaletti di peluche portati da una ragazzina venuta a curiosare. "Loro" non si erano ancora visti, ma era solo una questione di tempo. Arrivarono all’alba, proprio mentre la bambina si stava addormentando tra le braccia robuste e poco aggraziate di un camionista, lo stesso che l’aveva liberata dalla capsula. Erano militari, ma c’era anche qualcun’altro con loro. Uomini vestiti di scuro con occhi sfuggenti, che impedivano alle altre persone presenti sul posto di capire dai loro sguardi che forse la sorte delle due persone morte nell’impatto era stata la più benigna. Dettarono subito degli ordini, con voce che non ammetteva repliche. Tutti i reperti dovevano essere consegnati, la "bambina" doveva essere consegnata. Quell’incidente non era mai avvenuto. Parlottarono velocemente con un attonito sceriffo che in verità non si oppose più di tanto. Non voleva rogne e il non occuparsi dell’accaduto poteva garantirgli un’ esistenza tranquilla. Più difficile sarebbe stato convincere gli altri sparuti testimoni, ma una sapiente miscela di lusinghe e minacce avrebbe risolto la controversia. Alle operazioni di recupero assisteva un uomo magro, non vecchio (poteva avere quaranta, quarantacinque anni) ma con il volto solcato da rughe profonde, vestito di scuro, elegante ma non appariscente, anonimo e silenzioso non disse mai una parola. Fumava in continuazione e non finiva mai la sigaretta che aveva cominciato i cui mozziconi si raggruppavano in mucchietti ben presto calpestati dal via vai dei militari. La piccola fu prelevata da un tizio vestito in maniera strana, di solito la gente si veste così solo quando ha paura di una pericolosa malattia e non per prendere in braccio i propri figli. L’uomo indossava una tuta di pesante kevlar azzurro contro le contaminazioni biologiche, una tuta di livello 4, il più elevato, come se invece di una bambina stesse maneggiando una coltura di AIDS o di Ebola. Per molto tempo quell’alba livida e piena di rumori e persone strane fu l’ unico ricordo di un ambiente aperto che la piccola sopravvissuta riuscì ad ottenere. Fu portata in un laboratorio asettico e impersonale. Studiata come una cavia e costretta ad imparare prestissimo che con le lacrime non avrebbe ottenuto niente. Gli uomini che le ruotavano attorno continuarono ad indossare stupide tute per molti mesi, nemmeno fosse radioattiva. Solo dopo circa due anni qualcuno cominciò a trattarla quasi da essere umano. Oh certo, aveva avuto tanti giochi e libri e cartoni animati. La sua stanza era piena di buffi disegni e il cibo era molto buono, ma nessuno le aveva mai fatto una carezza, nessuno l’aveva mai presa in braccio dopo i prelievi e le biopsie cui era stata sottoposta. Nessuno l’aveva mai portata fuori a vedere la luce del sole. I giochi e le matite servivano solo per studiare il suo comportamento. La consideravano alla stregua di uno scimpanzé cui viene insegnato il linguaggio dei sordomuti: carino da vedere ma inutile e fastidioso al di fuori dell’ambito del progetto. Aveva imparato a non chiedere e non aspettarsi nulla da quelle persone. E non sorrideva mai. Charlottesville, Virginia, Due anni dopo. L’uomo dalle mani curate aveva una bella fattoria, con cavalli e scuderie. Si ritirava in quel luogo sperduto quando gli impegni glielo permettevano e quando il peso dei rimorsi e della paura glielo imponeva. C’era molta gente che lavorava per lui in quel posto pieno di pace, stallieri, giardinieri e personale della sicurezza, ma lo stesso si sentiva solo, con sulle spalle un fardello di responsabilità ed errori, anche terribili, che nessuna di quelle persone avrebbe nemmeno immaginato. L’unica luce dei suoi occhi era rappresentata dalla figlia Nicole, una deliziosa bambina di cinque anni. Nicole aveva lunghi capelli castani e occhi marrone e una carnagione chiara che si scottava sempre con i primi raggi del sole estivo. E stava morendo. Quando l’uomo dalle mani curate inciampava in questo pensiero, altrimenti scacciato con forza come se il non pensarci potesse risolvere qualcosa, provava rabbia e impotenza. Che ironia, lui, uno degli uomini più "occultamente" potenti del mondo non riusciva a sconfiggere una stupida cellula impazzita che gli stava portando via la figlia. I segni della malattia cominciavano già ad affacciarsi sotto forma di timide occhiaie e piccoli malesseri che sempre più spesso colpivano la bambina. Era la giusta punizione per chi aveva inflitto sofferenze e morte a cuor leggero. Certo, non lui personalmente, questo no. Lui e gli altri "consociati" trovavano sempre qualcuno che in cambio di soldi era disposto a fare il lavoro sporco al posto loro. Le sue mani ben curate non avevano mai toccato niente di compromettente, ma la sua coscienza era nera come un pozzo senza fondo. Nonostante questo cominciò ad affezionarsi "all’altra". Doveva avere la stessa età di Nicole, e farle giocare insieme avrebbe reso gli ultimi mesi di vita della figlia meno tristi. Non pensò mai al bene che questi incontri potevano fare alla "cosa". Non rientrava ancora nel suo modo di vedere l’intera vicenda. Solo molto più tardi, quando Nicole se ne era già andata, l’uomo cominciò a sentire la necessità di fare qualcosa per quell’altro essere sfortunato che viveva rinchiuso come un animale da laboratorio. E decise di prenderla sotto la sua protezione. Gli esperimenti su di lei erano finiti, si poteva solo sopprimerla, ma l’ uomo pretese che gli venisse affidata e visto che in quegli anni era uno dei membri più influenti del "Consorzio", la sua richiesta venne accettata. Ma nessuno degli altri si fidò più di lui. Non completamente. Avevano visto nei suoi comportamenti qualcosa di pericoloso che avrebbe potuto incrinare il loro fronte, si erano accorti che provava pietà per quell’essere e nel loro "circolo" la parola pietà non era ammessa. Erano due anni che non metteva piede fuori dal laboratorio e la prima impressione che ricavò da quella luce intensa fu di paura. Voleva tornare indietro, anche la certezza dei dolorosi esami era meglio dell’incertezza di quello che l’aspettava. Ma non successe niente di spaventoso e piano piano si tranquillizzò. Vedeva il paesaggio scorrere e cambiare velocemente fuori dal finestrino della macchina. La stavano portando lontano dal luogo che l’aveva vista protagonista e vittima di indagini inutili e mostruose. Arrivò alla fattoria e vide subito l’altra bambina. Capì che stava soffrendo e usò per la prima volta dopo molto tempo quella parte del cervello che agli appartenenti alla sua razza permetteva di scrutare nei pensieri altrui. Pur così piccola aveva intuito che per lei sarebbe stato meglio se gli uomini che l’avevano avuta in "cura" non avessero sospettato di questo suo potere, aveva paura che loro ne avrebbero approfittato per infliggerle nuove sofferenze. E aveva ragione. Ora vedeva i pensieri dell’uomo che l’aveva prelevata, c’erano sconforto e rabbia, e rassegnazione. Lei poteva essere una piccola cosa che passa e non lascia traccia, ma quelle sensazioni lui se le sarebbe portate dentro per sempre. Il destino della piccola Nicole si compì e dopo un primo momento di confusione, l’uomo tornò ai suoi impegni, lasciando la nuova arrivata affidata alle cure di una sequela di insegnanti e sorveglianti. Non poteva lasciare che uscisse, gli avevano permesso di tenerla a patto che non varcasse mai i limiti della sua proprietà. Charlottesville, Virginia, Ottobre 1996 Era cresciuta ed aveva ormai da tempo imparato a considerarlo come un padre e lui ne era sinceramente contento. Aveva capito troppo tardi quanto poco pericoloso e quanto bisognoso d’amore fosse quell’essere venuto da così lontano. Malgrado le ferite che le avevano inflitto, dai suoi modi di fare non era mai trapelato un gesto di ribellione, mai un atteggiamento ostile verso nessuno. Si era semplicemente rassegnata al proprio destino. Per convenzione festeggiavano il suo compleanno il quindici di Novembre, la data di nascita dell’altra figlia dell’uomo, quella vera. Quella data era stata sempre un’occasione per ricordare una persona speciale, uscita di scena troppo presto. Negli anni precedenti non le era mai stato possibile spostarsi, dal laboratorio prima e dalla fattoria poi e tutto quello che aveva imparato del mondo lo aveva trovato sui libri, che leggeva avidamente, o attraverso la TV. Ma qualcosa stava cambiando. Suo padre era sempre più spesso preoccupato e lei capiva che questa preoccupazione derivava in parte dalla sua presenza. Prendendo le sue difese l’uomo aveva attirato su di se i sospetti e l’ insofferenza degli altri "anziani". Loro lo stavano pressando perché infine li lasciasse terminare quello che avevano cominciato molti anni prima. Concedere a quell’estranea di vivere tra loro non li faceva sentire tranquilli, era come se covassero una serpe in seno, come se da un momento all’altro lei potesse rivelarsi una minaccia mortale per l’intero pianeta. Beh, si sbagliavano. La sua razza era estremamente pacifica e dopo tutti quegli anni di studi ed esami ripetuti mille volte avrebbero dovuto capire che da lei non sarebbe mai arrivata nessuna reazione violenta. Non avrebbe potuto fare del male a nessuno, qualcosa nel suo DNA glielo impediva con forza. Però lui stava cedendo. Avrebbe voluto un’altra vita per quella sfortunata creatura, cresciuta troppo sola e troppo triste. Ma la posta in gioco era alta. Cosa poteva significare la vita di un singolo "straniero" in confronto alla vita dei miliardi di esseri umani che in quel momento erano in pericolo? Se sacrificarla voleva dire permettere agli anziani di evitare che lo guardassero come uno che stesse per tradirli, lavorare con più tranquillità e consentire loro di concentrare tutte le attenzioni sulla mostruosità che si andava concretizzando, allora l’avrebbe fatto. Avrebbe acconsentito alla sua eliminazione. Gli "altri" gli avevano assicurato che la ragazza non avrebbe più sofferto, che la persona scelta sarebbe stata rapida e pietosa nell’eseguire l’ incarico, che in fondo si trattava solo di una "cosa" e non di un vero essere umano. Lo avevano quasi convinto, ma all’ultimo momento la sua coscienza si era ribellata e così aveva organizzato la fuga di sua "figlia". Dal canto suo lei aveva sempre saputo del progetto per la sua eliminazione, ma si era guardata bene dal farlo notare. La delusione per quell’ennesimo tradimento non era poi così cocente, non si era mai aspettata niente e quasi niente aveva ricevuto. Era arrivato alla fattoria una sera di fine Ottobre, pioveva e l’aria era piena di nebbia e odore di terra bagnata. Lei vide subito che qualcosa non andava e quando finalmente riuscì a parlargli capì il motivo della sua agitazione. I suoi soci avevano deciso di passare all’azione anche senza il suo consenso, aveva colto di sfuggita alcune frasi sibilline che gli altri si stavano scambiando durante una riunione. Non si erano accorti che lui li stava ascoltando e quando si resero conto della sua presenza, si fermarono a guardarlo e lui riconobbe nei loro sguardi la fredda determinazione di chi non vuol sentire ragioni. Non disse niente, ma decise di raggiungere subito la fattoria per salvare il salvabile. Non sapeva chi avrebbero mandato a fare il "lavoro", ma di chiunque si fosse trattato si poteva stare certi che lo avrebbe portato a termine con impegno e perizia. Il killer non si sarebbe sbilanciato, avrebbe cercato solo di compiere il proprio dovere. Avevano fatto in fretta le valigie, poche cose in un paio di zaini, ed erano partiti sgommando e lasciando solchi profondi sulla ghiaia del grande piazzale antistante la casa. Gli occhi di lei guardavano per l’ultima volta, attraverso le ombre della sera e la nebbia un paesaggio che l’aveva vista crescere, e si preparavano a conoscere cose e luoghi fino ad allora solo immaginati. Non erano andati direttamente alla sua nuova destinazione, troppo alto il rischio di venire seguiti e intercettati. Avevano percorso velocemente le strade che li avrebbero condotti all’ aeroporto internazionale di Richmond. Lungo tutto il tragitto suo padre aveva effettuato una lunga serie di telefonate e quando in fine erano giunti allo scalo, ad attenderli c’era una persona che sarebbe rimasta insieme alla ragazza per tutto il tempo necessario a costruirle una nuova identità e a trovarle un luogo sicuro per vivere. Si salutarono velocemente, poi lei salì sul grande aereo che l’avrebbe portata a toccare numerose città, in un giro vizioso che serviva a depistare eventuali inseguitori. Dopo quindici giorni poté finalmente prendere possesso di un nuovo nome e di nuova casa. Joliet, Illinois, Novembre 1996 La casa era molto bella, spaziosa ma non grandissima. Intorno c’era un giardino spoglio, ma era Novembre e quell’aspetto era normale. Questo era l’estremo regalo di compleanno di suo "padre". Era una bella villetta che si sviluppava su due piani e intorno aveva un bel prato, in quel periodo mancava l’erba ed era pieno di rosse foglie di buganvillea cadute dalla grossa pianta arrampicata sulla parete della casa accanto. Nel soggiorno c’era quello che lei considerava come la cosa più preziosa che avesse mai avuto: un tappeto persiano dai colori vivaci e lucidi. Le tonalità andavano dal blu all’azzurro pallido e i disegni rappresentavano complicati arabeschi. Non era nuovo, anzi, era un oggetto che la ragazza aveva sempre visto nella fattoria del padre. Con i suoi angoli consumati e le frange spettinate quel tappeto le ricordava Nicole. Ci avevano giocato insieme, nel breve tempo che le aveva viste amiche, si erano rincorse e avevano sognato davanti al fuoco acceso. Nicole era stato l ’unico essere vivente, dopo i suoi veri genitori, a non avere pregiudizi nei suoi confronti, a non trattarla come un mostro. Ma era successo tutto secoli prima. Era al sicuro adesso, suo padre aveva sicuramente provveduto alla "sistemazione" di quelli che sapevano dove era nascosta. Questo rientrava nel normale modo di operare delle persone come lui e la sua coscienza non ne avrebbe sofferto. Era riuscito a portarla lontana da tutto, ma non si poteva mai dire. Rimasta da sola cominciò ad avere paura. Non per quello che potevano farle, non c’era niente che non le avessero già fatto, ma per quello che avrebbe dovuto imparare a fare. Anche se avesse limitato al minimo i contatti con le persone, prima o poi avrebbe sicuramente dovuto familiarizzare con qualcuno, e non c’era abituata. Entrò in soggiorno e si sedette sul tappeto. Provava una strana sensazione, era libera, ma libera di fare cosa? I tanti anni passati lontana dal resto del mondo l’avevano privata di tutte quelle piccole strategie che si imparano crescendo e che sono indispensabili nei rapporti interpersonali. Non aveva la minima idea di cosa volesse dire uscire con degli amici, del resto non aveva mai avuto amici, non sapeva fare nessun lavoro che le avrebbe permesso di trascorrere le giornate senza pensare troppo a tutto quello che le era successo, non sapeva nemmeno guidare una macchina. Certo la mancanza di esperienze lavorative non sarebbe stato un problema, perlomeno non dal punto di vista finanziario. Suo padre avrebbe provveduto a tutte le sue necessità per mezzo di assegni intestati ad un nome fittizio, lo stesso che si trovava sui suoi documenti falsi e che prima di arrivare a lei avrebbero fatto il giro di mezzo mondo, per evitare eventuali intercettazioni. Che vita gli si prospettava? Quella di una preda perennemente braccata, costretta a vivere con la paura di essere scoperta. Ma lei non aveva più voglia di partecipare a quel gioco crudele, poteva prendere una decisione e la prese in un istante: non si sarebbe nascosta, sapeva che sarebbero venuti e lei li avrebbe aspettati. Nei mesi che seguirono lasciò che i capelli tornassero al colore naturale (suo padre l’aveva costretta a scurirli e a tagliarli) anche se non permise più che si allungassero, aveva scoperto che il nuovo taglio era estremamente pratico e decise di adottarlo definitivamente. Non usò mai i documenti falsi se non per riscuotere gli assegni mensili e non smise mai di fare lunghe passeggiate per le strade del quartiere. Tutto sommato si comportò con incoscienza per almeno un anno e alla fine i suoi sforzi furono premiati. Il cacciatore trovò le sue tracce in un tempo relativamente breve e senza troppi disturbi. Joliet, Illinois, Novembre 1997 Il killer era contento, se qualcuno glielo avesse prospettato solo poco tempo prima, non gli avrebbe creduto. Potersi prendere una così grande rivincita nei confronti di uno degli uomini che aveva cercato di ucciderlo era un sogno troppo bello perché lui avesse anche solo osato pensarci. Invece ora gli si presentava la possibilità di vendicarsi, di fare del male a quell’uomo dalle mani curate che lo aveva sempre trattato con disprezzo. In verità di male ne era già stato fatto abbastanza quando Vassily Peskow era stato spedito a "sistemare" la dottoressa Bonita Chung-Sayre, una nota autorità in materia di virus, suo medico personale nonché sua amante. Aveva assaporato il piacere che deriva dal sapere che si sta affondando la lama in una ferita che difficilmente potrà richiudersi. Aveva silenziosamente gioito alla notizia della riuscita missione del vecchio sicario. Credeva che niente gli avrebbe più procurato una sensazione tanto intensa, ma si sbagliava. L’ordine che aveva ricevuto dai "consociati" era il sogno di una vita, per uno come lui. Poteva vendicarsi veramente, avrebbe visto quell’uomo dall’aria sicura e sprezzante, piegarsi sotto il peso della disperazione. Giusto un anno prima aveva ricevuto il "via libera". Poteva uccidere sua figlia. Ritrovare le sue tracce non era stato poi così difficile, certo, il vecchio l’aveva nascosta bene e per diversi mesi aveva brancolato nel buio, ma poi la donna si era comportata da stupida e lui l’aveva scovata. Sapeva che questa era solo una figlia adottiva e per di più era una di "loro", ma ciò non aveva impedito all’anziano uomo di provare per lei un affetto profondo. Meglio così, la lezione sarebbe stata più efficace. Per un momento aveva avuto la tentazione di incaricare qualcun altro. Quelle "cose" lo inquietavano, aveva ben chiaro il concetto di "entità aliena", conosceva quello di cui erano capaci gli "stranieri" e il pensarci gli procurò un brivido di disgusto lungo la schiena. Ma l’istinto omicida che sicuramente non gli mancava, tornò prepotente a far sentire la propria voce e di lì a poco si ritrovò a pensare che in fondo quello era una soddisfazione da togliersi personalmente. Il "lavoro " sembrava facile, la ragazza abitava in un quartiere di case circondate da piccoli giardini che da Maggio a Settembre dovevano essere pieni di fiori. La maggior parte erano adibite a residenza estiva di famiglie che per tutto l’anno vivevano e lavoravano in città e in questo periodo erano disabitate. L’uomo fece il giro dell’isolato più di una volta, stando attento a non destare sospetti e rispettando rigorosamente tutte le precedenze agli stop che ogni tanto incontrava. Il dover spiegare ad un solerte agente della stradale il perché di quella grossa pistola con silenziatore, non rientrava nei suoi piani giornalieri. Sul sedile del passeggero era adagiata una foto che ritraeva una bella ragazza. Era stata scattata da lontano mentre la donna camminava tranquilla per strada. Quella foto non era molto dettagliata ma lui ne aveva ricevute altre. Alcune meno recenti mostravano il volto di una bambina dai grandi occhi curiosi come solo gli occhi di un cucciolo possono essere. Le immagini erano un riassunto dello stadio evolutivo di quella che sembrava una persona normale. Dalle foto di bambina era passato a quelle di una graziosa ragazzina con i capelli lunghi e lo sguardo incantato dall’obbiettivo, l’espressione ansiosa di chi pone domande che rimarranno senza risposta. Ma c’era qualcosa di strano che accomunava tutte quelle foto. Il soggetto non sorrideva mai. Non c’era nessun segno della spensieratezza tipica dei bambini o degli adolescenti. Quegli occhi erano seri, consapevoli di qualcosa di cui avrebbero dovuto ignorare l’esistenza. Riconobbe quell’espressione per averla vista molte volte stampata sul proprio volto riflesso allo specchio. Quella "cosa", qualunque cosa fosse, conosceva sicuramente il dolore. Ora che il momento si avvicinava era indeciso, si stava chiedendo se fosse giusto quello che stava per fare. Gli capitava sempre di avere degli scrupoli poco prima di ogni "lavoro". In fondo poteva tradirli, era già successo. Solo che questa volta non avrebbe più trovato un posto abbastanza sicuro dove nascondersi. Lo cercavano tutti, e per tutti si intende "tutti, da un emisfero all’altro". No, non era il caso. Vigliacco e traditore, ma non stupido. Non poteva tornare indietro. Joliet, Illinois, Novembre 1997 La torta era molto invitante, ricoperta di cioccolata e piccole perline argentate di zucchero. Quello non era il giorno del suo compleanno ma Daryll non se ne curava più di tanto. In fondo non aveva mai saputo la sua vera data di nascita, né il luogo..... Daryll era una bella ragazza, o perlomeno "somigliava" ad una bella ragazza, capelli rossi e corti, alta e con il corpo sinuoso e scattante di una ginnasta, il volto regolare era impreziosito da due occhi grigio scuro con lampi di azzurro, grandi, strani e affascinanti. La bocca carnosa e il naso diritto come una statua greca la facevano notare quando passava per strada. Ma in quel momento non era l'attenzione degli uomini che avrebbe voluto su di se. Avrebbe voluto sparire, cancellare per sempre il ricordo della propria esistenza, ma sapeva benissimo che questo era un sogno. Presto sarebbero arrivati e l'avrebbero portata via, forse nuovamente studiata, sicuramente uccisa. Suo "padre" non era più molto potente, stava invecchiando, e i suoi ordini cominciavano a non essere più ascoltati dagli altri "consociati". La resa dei conti era cominciata. L'avevano tollerata senza accettarla e senza fidarsi mai completamente di lei, ed ora che gli altri stranieri, quelli senza coscienza o senso della lealtà stavano rivelando il loro volto e stavano per arrivare, anche lei entrava a far parte delle entità da relegare in un ghetto, da studiare e infine distruggere. Non c'era più spazio per le mezze misure: o sei come noi o sei contro di noi. Conosceva i loro metodi brutali e sapeva perfettamente che se avessero mandato qualcuno ad ucciderla voleva solo dire che per una volta la linea della pietà aveva prevalso. Ma non ci sperava. Mangiò la sua porzione di torta e uscì in giardino. Il sole di Novembre le riscaldò la pelle e le mani, fredde e nervose. La strada era deserta ma lei sapeva che di li a poco qualcuno sarebbe arrivato. Sperava che mandassero qualcuno dall'aspetto rassicurante, una persona anziana magari, che non la spaventasse troppo. Quando immaginava l'uomo che avrebbe chiuso il suo "contratto", le piaceva pensare alla faccia di Babbo Natale. Sarebbe stato sorridente e pieno di attenzioni, fin quando non le avesse stretto le mani attorno al fragile collo. In fondo non c'era niente di particolarmente simpatico nell'immaginare Babbo Natale che strangola qualcuno, ma a lei piaceva pensare questo, le permetteva di non scappare (e dove?) di fronte al destino che stava per compiersi. Magari poi, l'uomo incaricato non l'avrebbe nemmeno strangolata, si sarebbe forse limitato a spararle da lontano o avrebbe messo un veleno nel su cibo, Chissà. La macchina arrivò silenziosa e si fermò di fronte alla casa. Era lui, lo "sentiva", ma non assomigliava a Babbo Natale. Era giovane, sospettoso e spietato malgrado il sorriso e i tratti delicati del volto. Daryll seppe in un attimo quello che c'era da sapere. Era un sollievo l'aver capito che non l'avrebbe costretta a seguirlo in un terribile laboratorio dove le avrebbero fatto.....non voleva pensare a ciò che avrebbero potuto farle, a ciò che le avevano già fatto in tutti quegli anni. L'uomo si avvicinò a lei con una scusa banale, disse di essersi smarrito e di non riuscire a tornare all'autostrada. I suoi pensieri non erano tranquilli come lui avrebbe voluto che fossero, aveva paura di lei e non riusciva a controllarsi. Daryll lo invitò ad entrare per mostrargli una pianta della città, e per permettergli di compiere il suo dovere con tranquillità. Si chiamava Alex Krycek (a Daryll non era mai piaciuto usare i suoi poteri per curiosare nella mente degli estranei, ma visto che questo sarebbe diventato il suo assassino, poteva fare uno strappo alla regola), strano nome per un abitante di quella Nazione. Forse anche lui era uno straniero, a modo suo. O forse lo erano stati i suoi genitori. Alex era sicuramente un bell'uomo, capelli neri e corti, il volto aveva qualcosa che ricordava i lineamenti di un bambino e gli occhi grandi, di un colore indefinito, verdi screziati di nocciola, avrebbero ingannato chiunque sui reali pensieri che si celavano dietro di loro. Chiunque tranne lei. C'erano dei ricordi orribili dietro quegli occhi apparentemente sinceri, ricordi dolorosi, sensazioni sgradevoli di odio represso verso il mondo intero e in parte verso se stesso. Non c'era nessuno che potesse dire di avere amato, né c'era nessuno che avesse mai provato ad amarlo. La sua vita doveva essere stata dura se così giovane si ritrovava ad essere arido e senza pietà come un vecchio soldato che ha ucciso mille nemici e l'uccidere ancora non provoca in lui nessun sentimento. Daryll offrì all'ospite una fetta di torta ma lui rifiutò distrattamente. Si stava guardando intorno e cercava con meticolosità ogni possibile via di fuga che avrebbe permesso alla sua vittima di scappare. Povero Alex, non immaginava che Daryll era stanca di scappare o di vivere prigioniera, non immaginava che quella per lei sarebbe stata una liberazione più che una condanna. Lui provava paura e disgusto quando la immaginava "straniera" e questo faceva male a Daryll che straniera non si era mai sentita, né come tale si era mai comportata. Era arrivata piccolissima sul pianeta e dei genitori non serbava nessun ricordo. Aveva considerato padre un uomo che di paterno poteva avere l'aspetto ma non il cuore, anche se piano piano si era affezionato a lei e aveva cercato in tutti i modi di tenerla nascosta, lontana da quella follia. Ma la follia stava dilagando e gli amici di suo padre avevano vinto le resistenze di un uomo che era stato potente, ma che i sentimenti nei confronti della ragazza avevano reso debole. Così, qualcuno era arrivato per chiudere finalmente la partita. Il killer aveva paura e non si avvicinava più di tanto, immaginava tentacoli ed altre assurdità uscire dal corpo di quella che in un altro contesto sarebbe stata per lui una preda sessualmente appetibile, da circuire con abilità e piacere. Si stava chiedendo perché mai non reagisse. Si era accorto che lei "sapeva" e la mancanza di paura nel suo sguardo lo spiazzava. Tirò fuori da sotto il giaccone la sua pistola con silenziatore e la puntò su Daryll che non si scompose. L'avrebbe fatto in casa o l'avrebbe portata fuori, lontano, in un posto dove nessuno sarebbe mai andato a cercare il suo corpo? Non aveva molta importanza, l'importante era che lo facesse bene e senza farla soffrire troppo. Decise di facilitargli il compito e accennò una timida reazione, giusto una mossa per dargli il pretesto di sparare, e quando la pallottola la colpì proprio in pieno petto, sentì solo un lieve bruciore e cadde a terra come un animale narcotizzato. La ferita era mortale, Alex sapeva fare il suo lavoro, ma c'era ancora tempo. Cadde bocconi sul tappeto che suo padre le aveva regalato solo un anno prima insieme alla casa. Il suo sangue blu macchiò la preziosa trama e si sparse sul pavimento. Krycek trovò finalmente il coraggio di avvicinarsi, inquieto, ancora sospettoso. E se stesse fingendo? No, era troppo bravo con la pistola e da quella distanza non poteva averla mancata. Si chinò su di lei e girò il corpo per constatare la bontà del suo operato. In quel momento lei gli afferrò la mano destra e la strinse con tutte le forze che ancora le rimanevano. Erano vicini ora, i loro occhi si stavano incontrando e gli sguardi non erano più sfuggenti come pochi minuti prima. Alex era stupito e confuso, la vista di quel sangue che non aveva niente di umano lo infastidì, ma non quanto avrebbe voluto. La morte che arriva è uguale per tutti, in qualsiasi parte dell'universo succeda e qualunque sia il colore del sangue versato. Gli occhi della ragazza lo scrutavano senza rimproverarlo, erano calmi e sereni, belli e lucenti e stavano scavando dentro di lui alla ricerca di un'anima che non avrebbero trovato. Quello sguardo lo costrinse a pensare e a sentirsi un po' a disagio. Per una frazione di secondo la coscienza di Alex si era svegliata e lui si stava chiedendo "perché l'ho fatto?", "che senso ha questa storia e cosa sono diventato?" Daryll credette di vedere nelle pupille dell'uomo, dilatate dalla sorpresa, qualcosa che somigliava ad un rimorso. Ma fu solo l'impressione di un momento. La dura corazza che per un istante era caduta, stava tornando al suo posto, a mascherare di nuovo le emozioni (ma aveva mai provato delle emozioni?) ed i pensieri più intimi di Alex Krycek. Daryll non provava dolore, solo una grande pace. I suoi dèi, quelli che di lei si erano dimenticati in un caldo giorno d'estate di molti anni prima, quando l'astronave sulla quale viaggiava era precipitata uccidendo i suoi veri genitori, ora la stavano chiamando e il suo ultimo pensiero fu che stava morendo tra gente che non era la sua gente e nel giorno in cui avrebbe dovuto festeggiare un compleanno che non era il suo, su un pianeta che non era il suo.....tra le braccia di un uomo che non era e non sarebbe mai stato suo. Luciana Ad Antonio. Con amore