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Pisodeuorrior
Art Has Gone

Quando chiesi ad Arthur se non gli pesava non avere la musica in macchina mi rispose, col consueto corredo di fuck e motherfucker, che non gli serviva nessun fottuto lettore cd, con tutta la fottuta musica che aveva nella sua fottuta testa.
Gli anglosassoni non hanno molta varietà nel turpiloquio, mi era parso di capire quella volta.
Ad ogni modo, la musica che aveva nel suo cranio da irlandese la tirava fuori quando non c’era altro in giro, ragion per cui facevamo sempre in modo di avere un qualsiasi tipo di diffusore audio a portata di mano.
Io no ho mai, e dico mai, sentito nessuno più stonato di lui. Se cantava col cervello e se stava sulle ottave basse, diciamo, era persino bello. Ricordo una meravigliosa canzone che accompagnava con la chitarra, una canzone antica tradotta addirittura dal gaelico, con cui era capace quasi di far piangere. Però lui col cervello non cantava mai, non gli piaceva avere troppi freni, diceva che i suoi pensieri arrivavano perlopiù dal muscolo cardiaco e dalla borsa dei coglioni. Così, quando quella potenza che aveva dentro premeva per uscire, lo si vedeva caracollare per le colline con la sua improbabile Lancia Fulvia color amaranto, spesso ciucco come solo un irlandese sa essere ciucco, sporco e trasandato con quella disinvoltura che può avere solo un anglosassone, a cantare stonato e sguaiato la musica che aveva sotto quel buffo cappello a scacchi.
Cantava, dondolava e cantava col suo metro e novanta ricurvo sotto il tetto basso della Fulvia, e rideva, e si fermava e scendeva di corsa ad osservare la prima cosa che attirava la sua attenzione o lo incuriosiva.
Stare in macchina con lui era snervante se si aveva fretta, però non mi ci sono mai annoiato una volta. Non una.
Era la curiosità che mi piaceva, una curiosità che non ho mai visto nemmeno in un animale, in un gatto, mettiamo. Non riusciva proprio a contenerla, ci provava, spesso, ma non ce la faceva.
Lui stava immobile, concentrato, si vedeva quasi che ci si stava applicando. E senza dirgli niente le mani si muovevano da sole, di soppiatto, sollevavano, manipolavano, e immancabilmente facevano il disastro.
Tipo alla mostra delle macchine di Leonardo. Avevamo cercato in tutti i modi di evitarlo, di tenerlo d’occhio, ma alla fine ha voluto ASSOLUTAMENTE sapere se quell’aggeggio funzionava davvero.
Funzionava. Bravo Leonardo.
E anche l’allarme del museo funzionava. Cherridere.
Ecco, davvero, era quella, la curiosità. Era la cosa che mi piaceva. Ce l’aveva per tutto e tutti, era quello che lo spingeva a viaggiare, a parlare con chiunque, a smontare le cose per capirle, ad entusiasmarsi per le piccolezze, a sostenere che osservare le persone era meglio che andare all’università, a ridere OGNI istante, era quello che lo portava ad ascoltarti con quella concentrazione così profonda, quasi avida.
Mi è venuto anche da pensare che con me si concentrasse così spasmodicamente a causa del mio inglese, però è sempre stato così delicato da fare almeno finta di capirmi sempre.
O forse voleva evitare il rischio di farmi ricominciare una frase d’accapo.
Umm… può essere quello, temo.
Ieri prima di abbracciarmi la sua ragazza mi ha detto semplicemente “Art has gone”, il resto delle parole le era rimasto lì congestionato, alla base della gola, tanto che l’ingorgo era quasi visibile.
E singolarmente in quello strano momento non sono riuscito ad essere triste. Quelle parole me lo hanno fatto immaginare a curiosare in qualche posto mai visto, a toccare cose proibite custodite dentro a bacheche, mentre qualche angelo o santo o sailcazzo cerca di fargli capire che QUELLO NON SI TOCCA. E lui con le mani ora dietro alla schiena a dire, con quell’aria da bambino, “Sure, ok, it wasn’t me!”.
La tristezza è venuta solo dopo, ma a tratti, in fondo per niente protagonista, solo una degli invitati.
Il resto era troppo bello perché lo si potesse guastare. Va bene, siediti pure con noi, ma fai la brava, non disturbare.
C’è il sole rossissimo delle otto, che ondeggia dietro alle vampe di calore del falò, acceso sulla collina più alta.
C’è la sua chitarra, che però non abbiamo suonato, e un pavone che fa il verso del gatto e non c’è verso di fargli fare la ruota nemmeno a minacciarlo.
Ci sono due o tre cani, uno dei quali metodicamente cerca di scopare la gamba di tutti i presenti, e ci sono due taniche da dieci di barbera nonché del Whisky irlandese mica male.
E c’è una ciucca sontuosa, e doverosa, e cose buttate nel fuoco, e parecchie risate, e cose intraviste da dietro alle lacrime.
E un abbraccio virtuale, di quelli duri, tra fratelli, da italiano a irlandese, con gli auguri di buon viaggio.
E amici che vanno via alla spicciolata, quando ormai c’è solo brace, e i soliti che rimangono fino a quando è chiaro, con la faccia che poi stamattina è così.
Ecco, e un delirio che, tutto sommato magari in questo posto non ci stava, per cui forse mi tocca chiedere scusa, però davvero, trattandosì di lui non mi andava di lasciarlo lì, confinato, stretto, tra la solite pagine di un Moleskine.