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coll

Giacomo Leopardi

"Dialogo della Natura e di un Islandese" Operette morali

         L'operetta fu scritta fra il 21 e il 30 maggio 1824. lo spunto fu offerto dalla "Storia di Jenni" di Voltaire, dove, nel contesto di un discorso sui flagelli da cui sono tormentati gli uomini, si parla delle terribili condizioni degli Islandesi, minacciati insieme dal gelo e dal vulcano Hekla. Di qui probabilmente è venuta a Leopardi l'idea di assumere un Islandese come esempio dell'infelicità dell'uomo e dei mali che lo affliggono.

         Questo dialogo è una delle espressioni più compiute del "pessimismo cosmico" leopardiano. È scelto a protagonista un Islandese, in quanto abitante di un paese inospitale, dove più si fa sentire la crudeltà della natura, e forse anche per quel tanto di favoloso che può legarsi al nome di un popolo così lontano e ( al tempo di Leopardi) primitivo: questi caratteri lo rendono adatto a farne un personaggio simbolico dell'intera umanità.

          Un Islandese, viaggiando per fuggire la Natura, attraversando la parte più interna dell'Africa e passando sotto l'equatore, la incontra personificata. Era partito per tenersi lontano dai patimenti e da un continuo disagio materiale senza speranza di affievolimento dello stesso. Ha visitato quasi tutto il mondo, facendo esperienza di quasi tutti i paesi, cercando di non dar fastidio ad altri e di procurare   la sola tranquillità della vita. Ma è stato arso dal caldo, tormentato dal freddo, afflitto nei climi temperati dal vento ed ha avuto malattie. Ora, vicino alla vecchiaia, scorge in essa un altro male.

       Chiede quindi alla Natura, che lo ha posto in questo universo, di renderlo lieto e contento sulla terra, estendendo questa sua richiesta a tutto il genere umano. La Natura risponde che la vita è un perpetuo circuito di produzione e distruzione e una serve l'altra per la conservazione del mondo. A questo punto sopraggiungono due leoni che lo divorano.

         Con questa operetta il libro raggiunge il suo momento più acuto con la radicale affermazione di pessimismo, dominato dalla voce ferma dell'Islandese, che, convinto della "vanità della vita, e della stoltezza degli uomini", ha sempre cercato di vivere appartato, lontano da ogni desiderio, ma è stato ugualmente perseguitato dagli infiniti mali creati dalla Natura, e si è convinto che essa sia "nemica scoperta degli uomini".

       Il suo incontro con la figura inquietante della Natura "una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna", si risolve nell'affermazione dell'assoluta indifferenza di questa nei confronti delle sofferenze umane.

         L'operetta segna una fondamentale svolta nel pensiero leopardiano: il passaggio da un pessimismo sensistico-esistenziale a un  pessimismo radicalmente materialistico e cosmico, dalla concezione di una natura benefica e provvidente a quella di una natura nemica e persecutrice. L'infelicità non è dovuta solo a cause psicologiche, ma a cause materiali delle stesse leggi del mondo fisico che non hanno affatto per fine il bene degli uomini. Anzi il dolore, la distruzione, la morte, sono elementi essenziali del suo stesso ordine. La sofferenza è la legge stessa dell'universo, e nessun luogo, nessun essere ne è immune.

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