da La Stampa del 7 dicembre 2001
IL PRESIDENTE DELLA BANCA MONDIALE
«L’11 settembre è come se l’Afghanistan fosse sbarcato a Wall
Street da allora non possiamo più ignorare i problemi del Sud del mondo»
7 dicembre 2001
Maurizio Molinari
inviato a WASHINGTON
James Wolfensohn presiede da sei anni e mezzo la Banca Mondiale ma è soprattutto orgoglioso del suo violoncello, nascosto in un ripostiglio dello spazioso ufficio tutto vetrate al 1818 della H Street, e delle foto autografe di Bernstein. La passione per la musica (ogni dieci anni suona in concerto, la prossima volta sarà nel 2004) e per le lettere gli hanno valso l’ostilità degli ambienti più conservatori, che non condividono la sua attenzione per il lato umano nella globalizzazione e lo vorrebbero impegnato solo al rispetto di criteri e parametri. Anche di fronte al crollo delle Torri Gemelle, alla recessione incombente ed al terrorismo Wolfensohn non smentisce l’approccio sui generis: «E’ un segnale di allarme, dobbiamo occuparci della povertà».
Il Rapporto più recente della Banca afferma che
l’attacco dell’11 settembre ha fatto aumentare la povertà. Perché?
«La povertà aumenta quando l’attività economica diminuisce. Ed ora
sta diminuendo: turismo, trasporti, assicurazioni, azioni hanno subito
l’impatto dell’attacco terroristico. Chi ha entrate medie riesce a resistere
alle fluttuazioni economiche, chi è povero ha poche scelte: deve cessare di
mangiare. Per chi sopravvive con un dollaro al giorno la riduzione
dell’attività economica ha conseguenze fisiche. L’ex ministro del Tesoro
dell’Amministrazione Clinton, Larry Summers, fu il primo a dire anni fa che
l’arretramento dell’economia mondiale fa aumentare la povertà. Non è un
concetto economico sofisticato ma aveva ragione».
Prevede che l’arretramento dell’economia mondiale
continuerà nel 2002?
«Dipende dalla fiducia dell’opinione pubblica. Al momento arretra
chiaramente il Giappone, arretrano gli Stati Uniti e anche l’Europa incomincia
a riconoscere di arretrare: assieme sommano 24 mila dei 30 mila miliardi di
dollari dell’economia mondiale, gli altri 6 mila miliardi vengono dai Paesi in
via di sviluppo. Non si può guidare la crescita del mondo con sei mila miliardi
di dollari. E’ molto, molto chiaro che se i tre maggiori motori del mondo
continueranno a perdere i colpi, i poveri ne pagheranno il prezzo. Se invece vi
sarà una ripresa le azioni torneranno a salire e gli investimenti
raggiungeranno i Paesi poveri».
A Wall Street i
brokers ripetono che la ripresa verrà quando la guerra contro il terrorismo sarà
vinta. E’ d’accordo?
«Difficile dire quando la guerra sarà vinta. Mettere le mani su Osama
bin Laden o insediare un nuovo governo in Afghanistan sarà solo l’inizio del
processo. La guerra non sarà vinta fino a quando non affronteremo il problema
della povertà e quindi le origini dello scontento. Non solo in Afghanistan ma
nelle regioni vicine, in molti altri Paesi. Questa guerra si mostra con il volto
di Bin Laden, del terrorismo di Al Qaeda, delle rovine del World Trade Center e
del Pentagono ma si tratta dei sintomi. La malattia è lo scontento che alberga
nell’Islam e, più generale, nel mondo dei poveri. Vincere la guerra significa
occuparsi delle radici di questa protesta».
Quali sono?
«Povertà è ineguaglianza. Non capirlo significa chiudere gli occhi
sull’origine del rancore dei poveri verso il Nord del mondo».
Che cosa bisogna
fare per aprire gli occhi?
«Dobbiamo riconoscere innanzitutto che questo nostro mondo è uno e
unito. Se c’è povertà in un posto, c’è ovunque. Se c’è miseria in
Africa c’è ineguaglianza nel mondo islamico e quindi c’è un problema per
gli Stati Uniti, per l’Italia, per i Paesi del G-7. Bisogna abbattere il muro
che separa il G-7 ed i Paesi industrializzati dell’Ocse dal resto del Pianeta.
Lo sostengo da tempo ma gli eventi dell’11 settembre lo hanno evidenziato. Per
me l’immagine del collasso delle Torri Gemelle è l’immagine
dell’Afghanistan che sbarca a Wall Street, del Sud del mondo che piomba nella
culla del Nord. Qualcosa che non ci aspettavamo, che ci ha messo paura».
E’ per questo che suggerisce nel suo ultimo
rapporto l’abolizione delle barriere commerciali del Nord verso il Sud?
«Se riconosciamo che la povertà degli altri è un nostro problema interno
allora lo possiamo affrontare nella maniera giusta. Primo: i Paesi in via di
sviluppo devono mostrare maggiore responsabilità. Secondo: il Nord deve aprire
i mercati e incrementare l’assistenza economica. Terzo: bisogna creare le
condizioni per lo sviluppo del settore privato. Il passo essenziale però è
quello di aprire i mercati».
Come giudica i
passi intrapresi finora dall’Unione Europea in questa direzione?
«L’Unione Europea ha cominciato a compiere dei piccoli passi verso
l’Africa ma prevede ancora sussidi per l’agricoltura per un valore di 350
miliardi di dollari all’anno, quasi un miliardi di dollari al giorno. Il
totale degli aiuti elargiti è invece di 50 miliardi di dollari. Questo
significa che, ogni giorno, l’Europa aiuta se stessa sette volte di più di
quanto fa con i Paesi in via di sviluppo. Abbiamo di fronte nei prossimi anni
negoziati difficili su agricoltura e tessili. Mi auguro che riusciremo a
stabilire un calendario per la liberalizzazione del commercio e l’aumento
degli aiuti dell’Ue dall’attuale 0,2-0,3 allo 0,7 per cento».
L’accordo raggiunto a Bonn sul governo ad interim a
Kabul apre le porte alla ricostruzione dell’Afghanistan. Quali sono a suo
avviso le priorità?
«L’incontro di Bonn è stato importante ma altrettanto si può dire
per quello avvenuto a Islamabad, dove duecento afghani, incluse numerose donne,
per tre giorni hanno parlato della ricostruzione, che avrà certo bisogno di un
governo centrale a Kabul ma che dovrà avvenire capillarmente, regione per
regione, villaggio per villaggio, area per area. A Islamabad gli afghani sono
stati molto concreti, hanno chiesto di affrontare subito la questione dello
sminamento, dell’educazione, della sanità, delle infrastrutture di base.
"Non uccideteci dandoci subito troppi soldi" hanno detto. Bisogna
ascoltarli. La ricetta per la ricostruzione non può venire da Washington,
Parigi o Roma ma dall’Afghanistan. Bisogna affidare a loro la gestione degli
aiuti obbligandoli così ad assumersene la responsabilità».
Nei Balcani un modello simile di ricostruzione ha dato risultati dubbi, gli
investimenti privati arrivano lentamente...
«Elemento chiave per la ricostruzione, nei Balcani come a Kabul o in
Cisgiordania e Gaza, è la creazione di un sistema legale di garanzie per chi
investe e di un sistema giudiziario capace di combattere la corruzione. Oltre,
ovviamente, alla stabilità. Lo sviluppo deve sommare più caratteristiche.
Primo: presenza di un governo responsabile. Secondo: garanzia che lo sviluppo
non leda i diritti umani e non favorisca la corruzione. In molti Paesi nulla di
tutto ciò è presente».
L’Argentina è alle soglie del collasso economico.
Quale è stato l’errore commesso?
«L’Argentina per anni ha preso troppi prestiti, si è indebitata
eccessivamente. Ora il ministro dell’Economia Cavallo sta tentando di tenere
sotto controllo il bilancio ma è molto difficile. L’errore di fondo
dell’Argentina è che per anni ha ignorato i segnali di allarme per la sua
economia così come noi oggi rischiamo di ignorare i segnali di allarme che ci
vendono dalla povertà. I prossimi due miliardi di abitanti della Terra
nasceranno nei Paesi in via di sviluppo, in India, Cina, Africa. Avremo a che
fare con loro. Meglio occuparcene subito».
Il suo violoncello
è finito nelle vignette di molti quotidiani. La musica l’aiuta a lavorare?
«La musica aiuta di più i poveri. E’ una grande risorsa, grazie alla
quale riescono a resistere. Ovunque si vada, nell’angolo più oscuro della
povertà del Pianeta, c’è la musica, base dell’identità».
mio commento:
I cervelloni lo hanno capito? Il problema è che stanzieranno miliardi che si fermeranno nelle (loro) mani dei nostri e loro dirigenti e ai veri poveri giungerà pochissimo. Quindi il problema non sarà risolto. Il problema vero è la corruzione, è quello di risanare le classi dirigenti.