I LIBRI DEI NOSTRI AUTORI
In questa pagina troverete elencate le recensioni e,o, le presentazioni dei libri scritti dai nostri Autor
TITOLO | AUTORE |
ECHI AD INCASTRO | FRANCO SANTAMARIA |
IL TEMPO DELLA VITA | RENO BROMURO |
LA NOSTRA CITTA' VIOLENTA | RENATO MILLERI (Remil) |
MARCO CHIERICI |
Il sito delle Grandi Emozioni!
L’opera di Franco Santamaria
– in poesia come in pittura, disciplina nella quale l’autore concretizza
con accesa espressione le proprie angosce – è eminentemente politica,
sociale: si fa coraggiosamente e caparbiamente carico delle sofferenze altrui
non immaginando di sottrarli al prossimo (così fa chi si ritiene un dio, o il
personaggio di un racconto – penso a The wish house di Kipling), ma
condividendole ed approfittando con generosità della propria facoltà,
essendo egli un artista, di levare il proprio canto sopra la palude di
conformismo ed oppressione che smorza il grido di chi artista non è. Non c’è,
tuttavia, nell’opera di Santamaria la componente dell’illusione: egli sa
bene che l’artista proprio in quanto tale è costituzionalmente ostacolato,
messo a tacere, eliminato, e proprio per questo egli sfrutta al massimo ciò
che il comune nemico (la mediocrità, l’egoismo, lo strapotere…) gli
permette di esprimere, organizzandolo in forme verbali o pittoriche le quali
si nutrono sempre di un sanguinoso agon, di una lotta incessante, corpo
a corpo, violenta e senza esclusione di colpi.
.....
Santamaria sa farsi corda vibrante per simpatia, sconfiggendo quel
soggettivismo soffocante che l’uomo coltiva da sempre (e che nell’artista,
guarda caso, è gioco-forza imperante anche qualora restasse ad di qua
dell’egotismo), un’interpretazione della propria sofferenza come riflesso
del patire umano, sofferenza esistenziale più che condizione di dolore
personale. (dalla Prefazione di Sandro Montalto)
... se è vero che il poeta
dipinge un panorama di solitudine, talora di nichilismo che è solo suo e gli
appartiene tutto, rimane anche vero che il lettore è profondamente coinvolto
(a fresco di lettura, ho avvertito una sensazione di avvolgimento, quasi di
assedio, ad opera della densità della sua lirica) nella ricerca di
consonanze, affratellato nell’inchiesta e nell’indagine (appunto, un incastrare
echi).
La poesia di Santamaria, infatti, ha il dono non usuale di farsi voce comune,
di parlare anche per la sete di verità altrui, anche in conflitto con i
limiti imposti dallo spazio e dal tempo... (dalla recensione di Gian
Domenico Mazzocato)
Le figure retoriche, di senso e
di suono, rimandano di volta in volta alla carnalità e alla metafisica, in
un’alternanza di slancio passionale, “ho lasciato il cuore alle tue
forme”, e meditazione contemplativa, “dalle nostre case se ne andarono
presto i sogni”, che riposano su arcane, sedimentate certezze, frutto di un
lungo, laborioso percorso esistenziale, che si fa cifra di un vissuto
universalmente ed univocamente partecipato.
Monologhi sussultano inquieti, sconfinando su parole e concetti-chiave, Tempo
e Solitudine, che segnano il vissuto inquieto di un’anima sulle tracce di
una sfuggente eternità che irride i nostri sogni. (dalla recensione di
Maria Teresa Manganiello)
_________
Franco Santamaria è nato a
Tursi (Matera), risiede ad Afragola (Napoli), dopo lunga permanenza prima a
Taranto, poi a Napoli.
Ha pubblicato i volumi di poesia "Primo lievito"
(Gastaldi) e "Storie di echi" (Ferraro). Oltre al "Catalogo"
dei suoi dipinti, in Internet ha pubblicato l’opera sperimentale di
poesia-pittura “Parola e Immagine”, presentata in
mostre/recital in molte città italiane e in Svizzera. (1)
Con poesie, racconti, dipinti, è presente in riviste letterarie, antologie,
portali di letteratura e gallerie d’arte.
Ha conseguito, tra gli altri riconoscimenti, il Primo Premio “Poeta Top
2004” e l’onore-onere di rappresentare l’Italia alla 4^ Biennale
Internazionale dell’ Arte Contemporanea di Firenze (dicembre 2003).
Ha all’attivo numerose mostre personali e collettive sia in Italia che
all’estero.
(1) http://web.tiscali.it/santamariaPoesia
_________
Se
vuoi acquistare il libro:
•- Edizioni Joker, Via Verdi 68 - 15067 Novi Ligure (AL) -
Tel. 0143.75043; c/c/postale n.40946642
•- Librerie Fiduciarie: vedere su www.edizionijoker.com
•- www.365giorni.fieralibro.net
•- Franco Santamaria: Via Salicelle pal. Tulipano sc. C -
80021 Afragola (NA) - frasmari@tin.it -
mediante vaglia postale
di Reno Bromuro
IL
LINGUAGGIO DELLA POESIA
La
letteratura italiana contemporanea è povera di poesia. Mentre in altri paesi
(specie nell’Oriente europeo, ma anche in Sudamerica o in India) la produzione
poetica coinvolge molti e validi autori ed è appassionatamente seguita da un
grande pubblico, in Italia dopo la «Stagione dei giganti» della
triade Carducci – Pascoli – D’Annunzio la poesia è
ripiegata su filoni riservati agli intenditori, come il crepuscolarismo,
l’intimismo, l’ermetismo, che non si sono imposti più che tanto
all’attenzione della gente, anche perché ispirati ad un esasperato
solipsismo, e quindi quanto mai estranei alla vita e agli interessi dei
meccanismi comunitari in cui opera e si esprime l’uomo del nostro tempo.
Ho
letto in questi giorni alcune poesie di Reno Bromuro, pubblicate nelle
raccolte «Camminare cantando» (1989) e «Poesie della vita» (1991). E mi ha colpito la sua capacità
di recuperare l'efficacia comunicativa del linguaggio poetico combinando
l’espressione dei sentimenti più delicati ed intimi con la ricerca attenta di
una realtà concreta e quasi terragna, dai ricordi della fanciullezza
all’impatto con gli avvenimenti pubblici che hanno contrassegnato, nel bene e
nel male, lo svolgersi della storia e dei rapporti sociali nell’arco della sua
vita.
In
un mondo distratto, che non ascolta più nulla, Bromuro chiede, nella sua
poesia – programma, «Quando parla
un poeta», di essere ascoltato in silenzio, perché “tutto
ciò che dice un poeta è sempre cosa seria e meditata”. Ed enuncia le
cose che vuole dire:
«Voglio
un mondo che parli
la
lingua universale dell’amore.
Voglio
scrivere per le strade
sui
muri delle case screpolate
sui
vetri degli alti grattacieli
sul
parabrezza delle auto
sui
banchi di scuola
sul
volano del tornio
i
miei versi che vogliono
esaltare
la volontà del poeta
il
desiderio di un mondo
che
parli la lingua universale dell’amore».
Ecco
dunque un poeta che ha qualcosa da dire e non ha timore di dirlo, e in termini
di alto impegno civile, agli uomini che si rifiutano di vedere ciò che li
circonda; ecco un poeta che si ribella – come scrive altrove – alla schiavitù,
all’ingiustizia, alla ipocrisia, alla cattiveria. Ha pertanto tutti i titoli
per chiederci di ascoltarlo e di riflettere sui messaggi che ci manda con lo
strumento ineffabile del linguaggio della poesia; un linguaggio che purtroppo ci
è ormai poco consueto,ma che è pur sempre il solo che arriva non solo alla
nostra mente ma anche al nostro cuore.
Gian Franco Cimurro (Dossier n. 44)
PARERI
DEI LETTORI
Caro
Reno,
non conosco la ragione per cui mi permetto di scriverti solo adesso. Forse hai semplicemente offerto l'occasione, o forse non avevo avuto prima il coraggio di esprimermi a proposito della tua opera.
Ho acquistato "Il tempo della vita" dopo la tua prima segnalazione in lista e ho atteso trepidamente che arrivasse a casa. E' arrivata in un pomeriggio piovoso in cui avevo quasi dimenticato cosa potesse desiderare il postino da me. Stavo attraversando un momento difficile, l'apatia stava cercando di impadronirsi ancora di me e di trasformarsi in unica certezza. Poi, il tuo libro. Esagererei a scriverti che abbia avuto un effetto miracoloso - sarei falsa -, ma ha creato uno status quo da cui mi sono smossa. Se permetti il paragone, è stato come un momento epifanico. Sebbene non abbia vissuto tanti degli avvenimenti che hai scritto, mi sono rispecchiata nelle stesse emozioni. Più di tutti, ho vissuto "L'amore è entrato..." per il particolare momento in cui l'ho letta.
Da quel giorno, il tuo libro giace, anzi "vive" (mi permetto questo verbo per eliminare ogni passività) sul mio comodino, dove vi sono i libri a cui tengo di più, a cui dedico qualche ora notturna. Un abbraccio e un affettuoso saluto, con la stima che nutro da sempre per te,
Gloria
Per ulteriori informazioni contattate direttamente l'Autore al seguente indirizzo: renobromuro3@tin.it
di
Apre la raccolta una considerazione che titola «Amore»
“Quando la città è buona
nascono sovente pagine d'amore
che riempiono l'aria
di misteriosa armonia”.
Per i romani quest’armonia misteriosa nasce dal Gianicolo e si espande sulla
città, ancora mezza assonnata, che sbadigliando si gode l’armonia che
l’avvolge, dal Borgo alle estreme periferie da Sud Est a Nord Ovest: armonia
d’ogni ceto sociale.
Ho parlato di un viaggio dantesco in senso inverso ed eccolo che inizia,
l’armonia che ha avvolto la città, come il cielo da un orizzonte all’altro,
comincia a dissolversi e mi ritornano alla memoria i versi di Dante:
...« lo mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, ed a quel modo
Che ditta dentro, vo significando ».
Proprio questa definizione assoluta, dell'essenza vera della poesia e dell'arte,
noto nella raccolta di poesie di Remil.
Rivedo dinanzi agli occhi l’incontro di Dante con Bonagiunta Orbicciani
da Lucca, nel balzo del VI canto del Purgatorio e questi gli chiede se lui abbia
iniziato la nuova poesia « Le nuove rime » con la canzone della Vita Nova «
Donne che avete intelletto d'amore ». Dante non risponde direttamente; dice
solo: Io son uno che, quando sento qualche cosa dentro di me, ascolto
attentamente ed esprimo quel che sento, con tutta sincerità. Ecco perché mi
sento di affermare che il canone fondamentale con cui Remil dichiara:
«Quando la città è buona
nascono sovente pagine d'amore…»
Con questi versi egli definisce e spiega il concetto del suo principio,
che potrà essere accettato come un giudizio, per definire il comportamento
della “sua” Città.
Remil non è un Poeta artificioso, retorico come oggi se ne vedono e in
grandissima quantità, specialmente in Internet, non c’è Web o Sito che non
faccia spazio a questo tipo di pseudo poeti (grafomani, in verità), che hanno
sempre nelle loro opere qualche cosa che finisce col disturbare, con lo
stancare. Remil è convinto che, come la sincerità è la prima e più pregevole
dote dell'uomo, così dobbiamo dire che deve essere il fondamento di ogni poesia
e di qualsiasi manifestazione artistica.
Remil è straordinariamente sincero. Nella «Nostra città violenta» ha
espresso sempre con gran forza e con meravigliosa immediatezza quel che sentiva
dentro il suo animo. La stessa cosa, io credo, che si debba dire di tutti i veri
grandi poeti che noi conosciamo.
La limpidezza del verso mi riporta alla scorrevolezza dell’ottava ariostesca,
mentre il contenuto de "Il Principe" del Machiavelli che, per quanto
scritto in prosa, è una vera e propria creazione della mente e della fantasia.
De «La nostra città violenta» mi attrae proprio la straordinaria sincerità
con cui l'autore espone le sue esperienze, la vita degli uomini, il modo di come
violentano la sua amata – odiata città, le conclusioni e gli insegnamenti che
va traendo da esse.
Quello che mi piace di più è la chiarezza della sua espressione, l’evidenza
delle descrizioni, l’immediatezza con cui esprime tutto quello che passa nel
suo animo. La stessa dote che lo avvicina molto al Petrarca le cui poesie hanno
il profumo della sincerità, sia che egli esprima il sentimento che lo lega a
Laura, sia che ci faccia sentire gli scrupoli da cui è tormentato il suo
spirito.
«Un giorno ti porterò con me
a conoscere le acque buone e sapienti
dell'amore felice.
Anche le terre aride del silenzio
dove abbiamo costruito la nostra casa
troveranno le parole
che non sono state mai dette
nel lungo gioco delle assenze.
Vedrai amore
un giorno verrai con me
fino a conoscere
la luce bianca dell'infinito!»
Il discorso è ripreso dopo aver detto al suo amore che il sole sta
morendo. E’ stato solo un attimo di incertezza che subito stacca gli occhi
dall'astro e ripensa che anche le terre aride del silenzio, troveranno le
parole.
In quel medesimo istante egli si sente trasumanato e inizia effettivamente,
senza accorgersene, il volo attraverso gli spazi infiniti. Solo avverte
un'armonia mai sentita:
«Vedrai amore
un giorno verrai con me
fino a conoscere
la luce bianca dell'infinito!»
e si trova immerso in un lago di luce. L’amore gli viene incontro come la
primavera agli uccelli.
L'interesse evolutivo del Canto è costituito soprattutto dalle immagini che
sono veramente poetiche: le acque buone e sapienti, le terre aride del silenzio
troveranno le parole che non sono state mai dette.
Questa poesia è di argenteo nitore. Basta soffermarci a considerare i versi già
accennati per perderci nell’immensità delle immagini che in essi appaiono.
Sono immagini tanto limpide che ci si può smarrire in quella luce bianca
dell’Infinito.
«Anche l'ultima lacrima
raccoglie l'azzurro del giorno
dei fiori il sole giallo
e del vento
l'ultimo tormento dei capelli
che muovono verso l'addio».
Sono immagini concepite serenamente e rese nella scelta delle parole colla
medesima serenità con cui sono state immaginate. Il verso è così semplice e
nello stesso tempo così scultoreo, da farci balzar vivo davanti agli occhi il
tormento del vento nei capelli e l’ultima lacrima che raccoglie l’azzurro
del giorno. Le facce attonite che guardano la lacrima, l’ultima, che
raccoglie l’azzurro del giorno, stanno effettivamente davanti a noi, balzate
fuori all'improvviso per virtù del verso semplicissimo con straordinaria
evidenza. Allo stesso modo, sempre con la medesima semplicità di mezzi, dal
gruppo il poeta fa spiccare in netto rilievo la figura del treno fermo al
binario numero 21, un binario gelido, dove
«C'e' un treno in arrivo
e tanto amore che attende.
C’e’ un’arancia tra le mani
e tanto freddo.
E le mani sbucciano l'arancia, piano,
come una carezza sulla pelle».
Com’è bella quest’immagine in piena luce invernale, che pur raggelando le
mani non vieta il caldo al cuore che sente “quelle” mani come una carezza
sulla pelle; ed è luce dal sorriso dolce e folgorante nello stesso tempo.
Gli ultimi due versi sono di meravigliosa potenza nei quali si esprime la
grandezza dell’amore, principio e fine di ogni cosa e come sempre datore unico
della vera pace.
L’ILLUSIONE
«Quando la
città delude
spesso ci abbandona al sogno
e la speranza sostituisce l’amore
e la vita non e’
che continua illusione».
MI SONO
IMMERSO DI CIELO
«Mi sono
immerso di cielo
e coperto di nubi.
Ho piovuto lacrime di mare
salate come il vento
che le asciugava sul volto
(…)
E da questa terra
e’ nato il fiore dell'amore
e mi sono abbracciato
cercando la vita di un sole caldo
e l'ho trovato nel colore di un'ape
corsa a baciare il fiore.
Il suo sapore
era il miele dei miei sogni
e mi sono nutrito del suo nettare
fino a quando la notte della luna
m'ha piegato gli occhi».
Superbamente splendide sono poi le immagini pittoriche e luminose che si
scatenano a prendere la parte di sole più lucente per essere coccolati e letti,
per rimanere impressi nella memoria: soprattutto per la nitidezza di queste
immagini che Remil continua a rappresentarci:
«Il suo sapore
era il miele dei miei sogni
e mi sono nutrito del suo nettare
fino a quando la notte della luna
m'ha piegato gli occhi».
Si pensi al miele dei sogni nutrito dal nettare dell’amore. Questa immagine
del “nettare” dei sogni incolla sugli occhi un caleidoscopio per farci
vedere la vita sotto un altro aspetto: immersa in una miriade di colori.
Quella di Remil è una pittura piena di luce e, nello stesso tempo,
delicatissima. Appunto per questo esercita sul lettore un grande fascino e può
giungere ad effetti straordinari. Penso, per esempio, a quando le mani ghiacce
sbucciano l’arancia e avvertono come una calda carezza sul cuore. E' evidente
che le mani, in attesa dell’arrivo del treno, stanno a dimostrare quanto
l’ansia non dava sosta all’attesa spossante. Qui la semplicità della poesia
di Remil tocca veramente il sublime.
Come ho già detto, il Poeta sta compiendo un viaggio che lo deve portare dallo
stato di beatitudine alla travolgente peccaminosità in cui vive la sua città,
perché convinto che questo è l’unico modo per salvarla dal peccato in cui si
troverà. E’ cosciente che per arrivare al possesso della grazia, cioè alla
felicità e quindi a Dio, questo viaggio dev'essere compiuto solamente da lui,
in modo che sia la sua parola testimonianza e documento per le future genti,
poiché il poeta scrive non solo per se ma anche per i suoi fratelli, per gli
altri uomini che, leggendo, si sentiranno spinti a fare lo stesso. In che cosa
consiste questo raggiungimento? Noi sappiamo che la risposta è amare e servire
Dio in questa vita e andarlo poi a godere nell'altra. Quindi, fondamento della
vita spirituale è il conoscere, il sapere. Non c'è nessuna cosa che tanto
degradi l'uomo quanto l'ignoranza.
Remil ha fatto sua questa concezione dantesca della fede nei confronti
dell’umanità, ha capito che la verità non si presenta tutta intera e
immediata a noi fin dal primo momento nel quale abbiamo incominciato ad aver
contatti con essa. Spesso, dopo che l'uomo ha raggiunto una verità, o meglio un
nuovo aspetto della verità, ecco che nel suo cuore sorgono dei dubbi: se la
nostra mente, davanti a quei dubbi, si ferma o stanca o sfiduciata o angosciata,
non giungerà mai alla verità. Il dubbio non deve far piombare l'uomo nello
scetticismo o, peggio, nell'indifferenza e nella negazione. Il dubbio non è
nient'altro che una delle tante difficoltà che si oppongono all'uomo nel
cammino della sua esistenza. La virtù consiste proprio nel superare le
difficoltà a mano a mano che si presentano. Noi dobbiamo adoperare la nostra
intelligenza per risolvere i dubbi, rendendocene ragione, e cavando dal nostro
ragionamento nuovi argomenti per illustrare al nostro spirito, sempre meglio,
l'essenza del vero. La storia dell'umanità è tutta intessuta di queste lotte
contro il dubbio. Se Cristoforo Colombo avesse ceduto ai dubbi che dovettero
spesso nascere nella sua mente nel sentire le argomentazioni e le irrisioni dei
dotti ai quali esponeva le sue teorie, la partenza da Palos non sarebbe mai
avvenuta e la verità intorno alla forma, alla grandezza di questo nostro globo
non ci sarebbe mai apparsa in tutta la sua luce.
La verità è come una piramide: la base è formata dalle verità minori, diremo
così, più facilmente accessibili. Quanto più si sale e la piramide va
restringendosi, le verità da conquistarsi diventano più ardue e richiedono un
maggiore impegno. Per chi sale la stanchezza è un grande pericolo. perché
potrebbe far nascere la sfiducia. Sta nella potenza del volere, superare queste
crisi di sfiducia e salire sempre, finché si è raggiunta la vetta della
piramide dov'è la verità assoluta. La conquista dell’amore sarà possibile
solamente se noi avremo approfittato del dubbio per elevarci sempre più. E'
questa la grande lezione che il poeta ci vuole dare per mezzo di queste stupende
immagini che sono di per se stesse già una grande verità umana. Noi dobbiamo
tendere al vero; esso e raggiungibile, perché, se non lo fosse, il genere umano
cesserebbe di potersi dire creato a immagine e somiglianza di Dio.
Nella verità l'uomo trova attuata compiutamente la sua missione e la sua
natura, perché senza la verità ogni altro bene umano cesserebbe di essere un
bene reale e sarebbe pura e semplice apparenza contingente e transeunte.
Il dubbio è il mezzo che la natura ci offre per fare della verità un bene
essenziale, un elemento costitutivo della nostra natura.
«Ho visto
qualcuno spostarsi e poi sparire
E’ forse il gioco d'ombre dell'anima
o forse e’ soltanto la solitudine
unica eterna compagna
che non t'abbandona mai».
Nella opprimente solitudine notturna, quando appena si vede arrivare il mirabile
riflesso dei propri pensieri e ci si sente pellegrini, Remil, si stacca dal
punto dov'era e viene a porsi proprio davanti, per parlarci di sé, per dirci il
suo dolore, la sua preoccupazione, il suo amore e la sua repulsione per questa
sua città, che perde giorno dopo giorno la propria dignità e la sua potenza, e
forse anche il ricordo della gloria passata; ma non si arrende poiché il dubbio
o la speranza? Lo fa ancora cantare:
«Forse in fondo alla via
o in fondo al cuore,
nel fondo d'un bicchiere colmo di vino…
(…)
dovrà pur esserci
da qualche parte.
(…) voglio abbandonarmi
lasciando che il vento mi consumi
e mi trascini via
e che per caso
trovi qualcosa che conosco
o qualcuno che mi riconosca
questo è importante».
Queste parole sono quelle che esaltano la santità del ricordo, la santità dove
vorrebbe ancora abbandonarsi per ritrovarla nell'antica vita familiare. Questi a
mio avviso sono tra i più bei versi della raccolta, perché il poeta comincia a
tentennare sulla forza infallibile e potente della sua poesia e vorrebbe
lasciarsi abbandonato per farsi consumare dal vento e nello stesso tempo
desidera che qualcuno lo riconosca ancora, specialmente se fosse sua madre:
questo è importante. In questo modo egli parla a tutte le mamme, lui che
«ha perduto tutto,
stupidamente,
bussando alla porta dei sogni»
aspettando per anni forse che qualcuno aprisse una porta per farlo entrare,
affinché potesse far svanire i sogni e realizzare la vita, perché
«E' un uomo
che non ha più un ricordo
perché il tempo che manca
per raggiungerlo
va sempre più in fretta
e tra non molto
nelle nostre città
non ci sarà più posto
per nessun ricordo.
Lui è un uomo
che odia tutto questo
ma non ha niente
per darne un prezzo,
perciò ogni sera
attende l'amante del paradiso»
Ora invece, l’amante del paradiso non appartiene più alle antiche e oneste
donne del passato quando la città era abitata dai galantuomini.
Roma un tempo era piccola e, nello stesso immensa, tanto aveva esteso il suo
impero, ma la gente che l'abitava era onesta; oggi appare grande e ricca, ma la
ricchezza e la potenza derivano dalla confusione delle persone,
dall'immigrazione in città del contadiname arricchito che non è ancora
riuscito a liberarsi degli abiti rozzi la cui stoffa era stata tessuta al telaio
a mano; dal puzzo del concime portato dalla campagna. La ricchezza ha generato
l'ambizione e da questa sono nate le violenze e gli stupri, gli eccidi e gli
infanticidi; i fratricidi e i matricidi.
Il poeta si cosparge il capo di cenere e continua a parlarci di sé e delle sue
aspirazioni, che sono poi, le stesse che vorrebbe per la sua città.
Ma forse è meglio che lasci la parola al poeta che meglio di me esprime i
propri sentimenti, palesa le sue ansie, confessa il suo desiderio di un amore
come quello che ha perduto: gli anni giovanili e le scorribande infantili per
vie acciottolate di quella Roma amata e al godimento provato nel sentire il
suono roboante dei suoi passi sui ciottoli (sampietrini – così li chiamano a
Roma -), che il silenzio notturno faceva echeggiare fino all’inverosimile come
l’eco del cannone sparato a mezzogiorno sul Gianicolo.
«Quando la città è amara
dimentichi tutto, anche
l'amore
e la voglia di andarsene
diventa
l'unico credo di una
ribellione
senza speranza»
giacché il destino decreta che egli deve correre il rischio di vivere… bere
fino in fondo il calice amaro della delusione se vuole che il suo canto si libri
libero e diventi il canto di tutte le genti; per questo non deve cercare alcun
rifugio; e d'altra parte, se volesse riferire tutto quello che serra in una
morsa la sua anima facendola sanguinare deve necessariamente soffrire.
Ho detto in principio che il protagonista di questa raccolta di versi di Remil
(Renato Millèri) è il viaggio a ritroso dal Paradiso all’Inferno, ebbene
l’Inferno il Poeta lo sta sopportando con fede, cosciente che il suo canto
riuscirà a scuotere gli animi e vedrà gli uomini guardarsi ancora dentro per
ritrovare se stessi e il proprio amore per sé e per i figli dei figli.
Come abbiamo visto Egli è attaccato alle tradizioni, ma non contrario
alle novità, però desideroso di un affratellamento dell’umanità inspirato
all'amore, al rispetto per le leggi, alla libertà e all'accettazione della
suprema legge morale. Ed è tanta la passione personale con cui il poeta parla
che a un certo momento irrompe in un grido di dolore tanto forte che par di
udire le trombe di Gerico:
«Dove vai Pietro?
Là non c'è posto per nessuno.
Dove corri ora?
E’ tutto pieno
come un vagone di seconda classe.
In periferia i borgatari annoiano
con le loro penose avventure.
Lascia stare, che serve andare?
I benpensanti annoiano ancora di più
sui loro trampoli di soldi raffinati
e basta inciampino un istante
per vederli coperti di merda.
Pietro
per te forse non c'è posto
su questa terra
ma non morire,
aspetta!
Se quelli come te muoiono
dimmi
chi resta a cantare la pazzia acuta
che vive il nostro tempo?»
L'elemento fondamentale del mondo poetico di Remil è l’amore – odio per la
sua città martoriata dal caos della modernità e da quello più deleterio
dell’urbanistica. Senza questo sentimento «La nostra città violenta» o non
ci sarebbe stata o sarebbe stata ben diversa.
Per ulteriori
informazioni scrivete a: renobromuro3@tin.it
"BARCALUNA"
di
Chierici Marco
Sassoscritto
editore Firenze
Prof.
Enrico Nistri
I
sogni che si fanno nel cuore della notte, chi mai se li ricorda dopo l’alba?
Belli o brutti che siano, la maggior parte di noi li rimuove: li serra a doppia
mandata nel cassetto dove, durante le ore di lavoro, chiude le cose che non
considera serie e razionali e di cui dopo, il più delle volte, getta via la
chiave. Marco Chierici, invece, accanto al suo letto, insieme a molti altri
oggetti di incerta utilità pratica, tiene un quaderno nero che ha battezzato il
“libro dei sogni”. Il lettore è libero d’immaginarselo con la copertina
lucida e un po’ rugosa, a scaglie, come ai suoi tempi non dovevano venire
richiesti nemmeno dai maestri più pignoli. Forse, anch’esso proviene da una
visione onirica, e comunque gli serve per annotare
i sogni che lo hanno sconvolto durante la nottata.
Un
dettaglio, a volte, conta più di un intero edificio. Da questo piccolo, ma non
troppo, particolare affiora un tratto saliente del carattere di Chierici e
soprattutto del suo atteggiarsi dinanzi all’esistenza: il suo amore per essa,
un amore che però non è dispersivo abbandono all’attimo fuggente, diaspora
di sentimenti, inseguimento di emozioni all’insegna del carpe
diem. Ma è consapevolezza che la vita è un bene troppo prezioso per
poterne disperdere anche i frammenti più minuti, per cui registrarne ogni
emozione è il solo modo degno per evitare che ci sfugga di mano.
Chierici
- non è il frutto di una confessione personale, ma un dato che ogni lettore
potrà desumere dalla lettura di questo libro - conserva, moralmente e spesso
anche fisicamente, ogni ricordo che ne sia minimamente degno. Usa come
segnalibro vecchie fotografie. Tiene sul comodino, da autodidatta qual’è, un
Bignami che gli riassume la macrostoria del mondo, ma porta sempre con sé i
ricordi, i rimpianti e a volte i rimorsi della sua microstoria personale. Giorno
per giorno annota, registra tutto e quello che non consegna ai suoi
diari lo affida alle lettere inviate ad amici e familiari. Crede nella
memoria in un mondo che tende ad annullare la storia. Ama il passato proprio
perché crede nel futuro. “Noi viviamo per avere un bel passato”: in questo
splendido aforisma, che da solo giustificherebbe un libro, è il significato più
profondo di questo “zibaldone”.
Come
ogni uomo del nostro tempo – e forse come ogni uomo in ogni tempo - Chierici
è anche un fastello di contraddizioni. Contraddizioni vitali, feconde, senza le
quali non ci sarebbero né arte né letteratura. Ama la famiglia, ma gli va
stretta la fedeltà coniugale; crede fermamente in Dio, ma in un Dio col suo
“lato beffardo”, che non interviene provvidenzialmente nella storia del
mondo e nella vita degli uomini; ama la solitudine, ma nutre un profondo
desiderio di affetti. E’ un individualista e teorizza, avallando gli antichi
rimproveri materni, un suo personale diritto all’egoismo, ma stravede per la
figlia e nei suoi delicatissimi dialoghi con lei, come
nella vibrante lettera scritta a un figlio nascituro sono comprese alcune
fra le pagine più belle di quest’opera. Ama addobbare l’albero per la
figlia, come non lo preparava suo padre, troppo assorbito dai suoi impegni
(“papà lavorava sempre”), ma odia il Natale, e ce lo spiega in una delle
sue riflessioni più amare e convincenti. Rimpiange la purezza dell’infanzia,
ma è consapevole che l’innocenza, come la verginità, si perde una volta per
sempre. Odia la morte, ma poi confessa di aver trascorso molte ore a fotografare
tombe al cimitero, “le più belle, le più antiche, le più liberty”. Ama la
donna, ma la teme per la sua instabilità, come del resto la maggior parte degli
uomini, che però non hanno il coraggio di confessarlo.
Anche
nella sfera politica e sociale, che non è quella prevalente, quest’opera è
ricca di contraddizioni vitali, che poi sono le contraddizioni di gran parte
della società occidentale all’inizio del nuovo millennio. Classe 1961,
Chierici è nato in un’epoca di fiducia nel futuro, quella in cui
un’Europa risorta dalle rovine archiviava la guerra mondiale e Kennedy apriva la sua nuova
frontiera. Ha assorbito, come capita anche in tenerissima età, questo ottimismo
dai discorsi dei genitori, dall’eco dei telegiornali, dalle vetrine addobbate,
dal luccicare della carta patinata dei primi rotocalchi a colori. Ha avuto
vent’anni nel decennio del riflusso; si è trovato a compierne quaranta
l’anno dell’Undici Settembre e le sue convinzioni ne sono rimaste segnate.
Chierici crede nella necessità di una difesa dell’Occidente dalla
colonizzazione musulmana. Al rischio, paventato dall’ammiratissima Oriana
Fallaci, che l’Europa si faccia “Eurabia” preferisce che il Vecchio
Continente si riconosca in un’“Euroamerica”. Avverte per un’Italia già
sovraffollata il rischio che comporta uno “smisurato numero” di
extracomunitari “innocentemente ineducati”. Non ama i lodatori di Fidel
Castro, i no-global carichi di gadgets dell’odiata società dei consumi, gli intellettuali alla
Nanni Moretti promotori di “inutili girotondi”. A differenza di molti
neoconservatori, passati spesso da un acritico filomarxismo a un altrettanto
acritico filoamericanismo, avverte
però anche i limiti della civiltà occidentale, del suo consumismo eversivo
degli equilibri ecologici, della sua etica del lavoro che è anche incapacità
di attribuire al tempo il suo giusto valore. In questo ci appare nobilmente
romano, nel suo ideale dell’otium philosophicum, nella sua aspirazione a vivere di rendita
(“chi non lo vorrebbe?”), nella sua convinzione che il tempo sottratto alla
lettura sia tempo sottratto alla vita.
E
le letture si affacciano e a volte irrompono nelle pagine di questo zibaldone,
senza quasi mai, però, sopraffare l’ispirazione originaria di Chierici. Primo
fra tutti l’Irraggiungibile Immaginifico d’Annunzio, seguito a ruota da
Fedor Dostoevskij. E poi, senza discriminazioni geografiche o ideologiche,
Isabel Allende ed Ezra Pound, Oscar Wilde ed Hermann Hesse, e Pavese e tanti
altri. E poi i compositori, i cantanti, gli attori, i sassofonisti, le colonne
sonore dell’infanzia e dell’adolescenza di un ragazzo che a sedici anni ha
pianto per la morte di un imbolsito Elvis Presley: James Dean e Joe Ontario,
Stan Getz e i Deep Purple e Jack Daniel, che non è un cantante ma, mescolato a
coca cola light, guida discretamene
come un buon CD le sue dita sulla tastiera del computer, in un’insonne notte
estiva.
Può
sorgere spontaneo nel lettore il quesito se Barcaluna
sia un libro ottimista o pessimista. E’ una domanda legittima ma oziosa: per
una delle tante sue (e nostre) più o meno apparenti contraddizioni, Chierici è
un uomo che ama troppo la vita per accettarla così com’è. E’ un pessimista
attivo, che cerca la felicità, ma è consapevole di quanto sia fragile e
ammette coraggiosamente che il suo assillo della scrittura è anche un modo di
sfuggirle: “quando si è felici non si scrive”. Può riuscire spontaneo al
lettore anche chiedersi che cosa, oltre a questo, spinga Chierici a dedicare
tanto tempo alla scrittura. Forse, anche un desiderio di affermazione dell’io:
“Scrivere è il solo modo per parlare a lungo senza essere contraddetto”,
sosteneva Jules Renard, il padre di “Pel di Carota”. C’è un fondo di verità in tutto questo, ma solo in parte.
A una lettura superficiale questo libro può sembrare un lungo monologo, e
invece l’autore dialoga, con se stesso, ma anche con molti altri: con i grandi
del passato, prossimo e remoto, con la figlia, con la moglie e la madre (sia
pure con maggiore difficoltà), con il padre precocemente scomparso, col suo e
nostro tempo. In realtà, dietro la cucina di questo zibaldone c’è un altro
intento: l’obiettivo di salvare il passato e con esso i suoi frammenti di
felicità, perché – come ricorda alla figlia nella conclusione del libro –
“i ricordi scritti non saranno sbiaditi dal tempo, ma rimarranno vivi”.
Il
fascino di Barcaluna, questo libro di
un pessimista attivo capace di contagiare una non comune voglia di vivere,
risiede anche in questo. Nell’era della telemania e della telecrazia, in cui
c’è chi teorizza la fine della “galassia Gutenberg”, Chierici nutre una
fede commovente nel potere salvifico della parola stampata. La scrittura è il
mezzo più sicuro per salvare i ricordi di un’infanzia cullata dalle grandi
illusioni degli anni Sessanta, i piaceri puliti di un’adolescenza in cui si
poteva “ridere forte senza spendere un soldo” e la vita non c’era ancora
“sfuggita di mano”, i frammenti di felicità della vita matrimoniale,
l’amore per la figlia, ispiratrice fra l’altro del tenerissimo titolo del
libro. Certo, a differenza della poetessa inglese Dorothy Lees, che aveva come
motto “I record only the sunny hours”, Chierici annota in questo zibaldone
anche le giornate tempestose; ma è difficile non scorgere in una di queste
pagine, anche la più ciclotimicamente malinconica, il balenare di un arcobaleno
che spesso ha intinto i suoi colori nella tavolozza della memoria.
In
una delle pagine più riuscite del suo libro, all’interno di un lungo elenco
di tipi umani detestati, l’autore confessa il suo odio per “quelli che non
sfogliano mai i loro album di vecchie foto”. Marco Chierici non è uno di
loro: difficilmente può esserlo chi è in grado di apprezzare questo libro.
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