I Racconti di Vincenzo Montevecchi



Cappelletti Sancta Sanctorum Fermo immagine
Blu notte La formica Iorg
La mattina davanti allo specchio Ristorante Buon Appetito Uno di quei giorni
Beppe Canappia La nave  

Racconti per Bambini


Spazzatura Sei solo un po' storto La collina sarà nostra!

 



CAPPELLETTI

 

”È pronto!”

La voce di mia madre proviene dal cucinino. Un secondo dopo eccola arrivare portando una vecchia terrina in ferro laccato bianco piena di cappelletti in brodo. I suoi occhi luccicano mentre un lieve sorriso le schiude la bocca.

Appoggia la terrina al centro del tavolo poi, con gesti uguali da sempre, prende il mio piatto e lo riempie con uno, due, tre mestoli colmi di cappelletti. Ha badato bene a scolare il brodo. Quello lo aggiungerà dopo, quando sarà sicura che i gialli involtini siano in numero per lei sufficiente. Il che significa che il piatto sarà pieno a dismisura. È una piccola montagnola di pasta quella che emerge dal lago dorato d’essenza di carne di manzo e pollo. Volute di vapore profumato s’innalzano vorticose, toccano il mio naso cedendo parte del profumo appetitoso che trasportano e poi scompaiono più in alto.

Aspetto d’udire la solita frase, mentre riempie i piatti degli altri. “Faccio sempre le solite cose! Ma so che ti piacciono e vieni così poco a trovarci…”

Quella frase ripetuta ogni volta racchiude, in poche parole, un messaggio. Le sorrido e poi mi lascio catturare dal piatto fumante. Afferro il cucchiaio e prendo il primo. Lo buco con la forchetta e lo schiaccio leggermente per fare uscire il brodo che ha assorbito. Così evito di scottarmi. Non me ne rendo conto, ma anche i miei sono gesti ripetuti, ricordo d’attenzioni materne d’altri tempi. Sono gli stessi che mia madre, adesso nonna, ripete con il figlio di mio fratello. Guardo la piccola bocca aperta aspettare con ansia il boccone gustoso.

Soffio un poco sul cucchiaio – se son troppo caldi non si gustano bene – poi imbocco il primo. Buono. Sento la pasta fatta a mano che quasi si scioglie in bocca partorendo il ripieno. Un amalgama fuso dal calore di formaggi e mortadella il cui sapore s’è mescolato a quello del brodo in una combinazione unica, introvabile altrove, eppure costante in quelli che fa lei. Schiaccio il tutto sul palato, mentre mastico lentamente, e il sapore mi riempie la bocca. Ingoio. Sotto un altro. E un altro ancora.

Le getto un’occhiata distratta. Mangia anche lei, a testa bassa, ma vedo che ogni tanto alza brevemente lo sguardo per spiarmi. So che le fa piacere vedermi mangiare di gusto le sue specialità. E come un lampo che squarcia il buio, improvvisamente un’idea si fa largo nella mente. Anzi, non è un’idea, direi più una rivelazione, una presa di coscienza, forse.

Sono più di vent’anni che manco da casa. Il lavoro mi ha portato lontano. Avevo vent’anni allora e tante cose sono cambiate per me. Ora ho una famiglia, una casa, un figlio. Realtà diverse e distanti da quelle di quand’ero bambino. Torno al paese raramente: due o tre volte l’anno. Ed ogni volta è un rito che si compie. Mia madre che si alza di buon’ora per preparare le solite cose, come dice lei…

Adesso si sono raffreddati un po’.

Mangio voracemente un cappelletto dietro l’altro fino all’ultimo, godendo di quei sapori antichi che mi portano indietro nel tempo.

Finito. La vedo soddisfatta. Mi incita a prenderne ancora.

“Ma… mamma,” le dico, “sto già scoppiando. Non hai visto quanti ne ho mangiato?”

Ma già so, e anche lei lo sa, che riempirò nuovamente il piatto per godere una volta ancora di… non avrei saputo definirlo, fino ad un attimo fa, ma adesso so cos’è. Racchiuso in quel piatto di cappelletti fumanti c’è tutto il suo amore. Non ci siamo mai parlati molto, forse ancor meno capiti, in tutti questi anni. La distanza ha poi reso ancora più difficile comunicare. Madre semplice, figlio sordo. Così mi rendo conto che i piatti che mi prepara quando vado a trovarla altro non sono che un concentrato d’amore, un dono da madre a figlio. E il mio gustarli va oltre il semplice piacere gastronomico. Allora scuoto la testa come se stessi per fare una cosa proibita ma irresistibile e prendo il mestolo.

“Va bene. Ma solo un altro mezzo piatto.”

E le s’illumina il viso.

 

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SANCTA SANCTORUM

 

Giovanni inclinò il busto verso Laura e la guardò con occhi languidi, le labbra piegate in un sorriso indefinibile.

“O damigella soave, lasciate orsù che adagi per voi lo mio mantello e che vi porga la mano per render sicuro l’avanzare vostro…”

Laura lo scrutò coi profondi occhi verdi.

“…acciocché non abbiate a rischiar periglio alcuno.”

Poi aggrottò la fronte e allungò la mano.

“Ma come cacchio parli? Passami il pane, va’.” gli disse a denti stretti.

Giovanni sollevò con disappunto un sopracciglio e raddrizzò la schiena scostandosi da lei. Affettò il pane in silenzio e gliene porse una fetta.

“Volevo solo essere carino…” disse non senza un certo risentimento.

“Carino, dice. Se volevi essere carino potevi preparare la tavola.”

“Ero al computer. Bastava che mi chiamassi.”

“Certo, come no: bastava che mi chiamassi.” ripeté la frase facendogli il verso. “Non ti viene mai in mente che potrei aver bisogno d’aiuto? Occorre che te lo chieda? Fa’ funzionare il cervello ogni tanto!”

Giovanni tagliò un’altra fetta per sé e la spezzò in due.

“Lo sai che quando sono al computer perdo la cognizione del tempo. Non è per cattiveria. Se hai bisogno d’aiuto non hai che da chiederlo. Tu chiami e io vengo.”

Laura scosse la testa.

“Invece dovresti immaginarlo, dovresti arrivarci da solo.” disse sconsolata.

“Ancora con questa storia! Non faccio qualcosa solo perché penso che tu potresti pensare che devo farla. Non sono contorto come te. Perché aspettare e arrovellarsi quando con una semplice richiesta puoi ottenere ciò che vuoi?”

“Sentitelo! Contorta! Tutt’al più sei tu che sei troppo semplice e prevedibile. Solo perché mi preoccupo per chi mi sta vicino! La verità è che tendi a banalizzare.”

“Non banalizzo un bel niente, invece! È una questione di buon senso: mi dici come faccio a sapere cosa ti passa per la testa in un certo momento? Sono un indovino, forse? E poi, se che quel che dici è giusto, non è forse una ragione in più per farmi richieste esplicite senza aspettare che io tragga conclusioni che non so trarre?”

Laura sbuffò alzando le spalle e si voltò verso la televisione. Così di profilo sembrava che avesse gli occhi particolarmente lucidi, anzi, appoggiata sulla palpebra inferiore, c’era un accumulo di liquido trasparente che pareva stesse gonfiandosi assumendo la forma d’una goccia. Forse, di lì a poco, sarebbe scivolata.

Aveva occhi belli, Laura.

Giovanni emise un lungo sospiro e le accarezzò la mano.

“Non volevo litigare.” disse a voce bassa.

“Come?” rispose lei senza voltarsi.

“Ho detto che non volevo... ma è così difficile riuscire a…”

“Sì, sì, adesso mangia.” tagliò corto.

Giovanni spostò lo sguardo da lei alla televisione. Dentro al riquadro, Pamela fissava il bicchiere di whisky con le lacrime agli occhi. Alle sue spalle John, la bocca accostata ai capelli di lei, sussurrava: “Perdonami amore, avrei dovuto dirtelo molto tempo fa…”

Tornò con lo sguardo verso Laura e capì che era persa nell’attimo scenico. L’amava profondamente, e avrebbe voluto entrare in lei, scoprirla, studiarla. Ma anche se ci fosse riuscito, avrebbe mai compreso i complessi intrecci dei suoi meccanismi, l’intricata struttura del suo animo?

Sorrise tra sé e cominciò a tagliare la bistecca.

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FERMO IMMAGINE

 

Che c’è di strano?!

A dir la verità… non saprei. Forse nulla. È che a volte…

Prova a immaginare la scena. Sono in ufficio, al centro dell’ufficio, e mi sto dirigendo verso la porta che dà sul corridoio. Mancano un paio di metri, forse meno. Dalla stessa porta, nello stesso istante, entra Giuseppe. Giuseppe “lu Pippi”, per gli amici.

È del sud, e ha il sorriso aperto e caldo e occhi neri brillanti e il capello un po’ ribelle. Trascina scarpe grosse che lo fanno assomigliare a un eterno cucciolo e lo costringono, almeno in apparenza, a camminare con quel passo strascicato che ti fa dire “ecco lu Pippi”, anche se è dietro l’angolo e ancora non lo vedi.

Va be’, non è questo il nocciolo.

Dicevo: entra lu Pippi, ci guardiamo, e i nostri occhi s’incrociano per un momento, una frazione di secondo. Poi i miei gli scivolano dal viso, separandosi dai suoi, e ne percorrono la figura sino ai piedi, effettuando una scansione totale, rapidissima e automatica che termina con un bagliore, il lampo di un flash che non c’è.

È un click, l’interruttore che qualcuno ha girato, il tasto sul telecomando che un dito ignoto ha premuto.

E all’improvviso il mondo si ferma.

Esco da me e mi ritrovo a essere un semplice punto che s’allontana per un metro dalla mia nuca e si sposta di lato fino a raggiungere una posizione equidistante da entrambi.

Da lu Pippi e da me, intendo.

Osservo la scena come se fossi l’obiettivo di una telecamera esterna. Lui ha la gamba sinistra in avanti, con solo il tacco appoggiato a terra; la destra, all’opposto, ha il tacco sollevato e la punta piegata. Il braccio sinistro è buttato indietro e quello destro in avanti, nel naturale movimento di bilanciamento. Stava camminando ed è rimasto bloccato in quella posizione… del resto anch’io mi trovo in una posizione simile.

Ruoto velocemente attorno a noi due che sembriamo statue bloccate in un equilibrio impossibile. Percorro un giro, due, tre. Poi torno al punto d’equidistanza di prima. E guardo.

“Hai già guardato.” dirai.

Sì, ma non nel modo giusto. O meglio, ho guardato nel modo in cui facciamo tutti: senza vedere.

Lu Pippi ha poco più di vent’anni, io quaranta. Che strano, fino a un decimillesimo di secondo fa, prima cioè che accadesse questo, ero convinto d’avere vent’anni anch’io, perché dentro è così che mi sento. Fuori… fuori sono cambiato, ovviamente, e più di quanto avevo pensato finora.

Mi studio, analizzo la mia figura e sento una stretta che non saprei definire, che mi schiaccia da ogni parte. Come sono ingrassato… quand’avevo vent’anni ero come lui, come lu Pippi, e pesavo sessantatré chili, e…

Torno a guardare la faccia. Mia cognata, usando una tipica espressione veneta, dice che ce l’ho come una buassa, uno sterco di mucca cioè: larga e piatta. Rende l’idea, non c’è dubbio. Ah, detti popolari! Con qualche parola ti esaltano o ti rovinano. In questo caso…

Ma… un momento! Perché sono qui? Non è fuori da me che devo stare! Perché mai…

È un attimo, poi ricomincio a osservarmi. Non è solo la faccia, ma tutto il resto, che pesa come i miei quarant’anni e probabilmente anche di più.

Lo so, adesso dirai: “Embé? Che vuoi che siano quarant’anni?”

Non è questo il punto. È strano come in questo momento, bada bene, non prima, ma proprio in questo momento, mi renda conto di avere l’età che ho. Quando i miei occhi, o meglio, la mia vista (che è quella che ora si trova fuori di me) guardavano da dentro, non me n’ero reso conto. Osservavo il mondo e gli altri allo stesso modo in cui lo facevo vent’anni fa e non m’accorgevo che il tempo mi stava impercettibilmente cambiando, giorno dopo giorno.

“Non ce l’hai uno specchio a casa?” chiederai.

Certo che ce l’ho, ma non è la stessa cosa. La mia immagine riflessa dallo specchio non è uguale a quella che vedo ora. Non posso essere proprio io, quell’uomo là. Non è così che sono, non così!

Mi sposto avvicinandomi al volto di lu Pippi. Ecco, adesso è come se fossi lui. Non posso entrargli in testa, vedere coi suoi occhi, ma è come se fossi al suo posto.

Mi guardo da questa nuova prospettiva. Lo spostamento è stato minimo, ma è come se avessi fatto un balzo enorme e mi torna in mente il modo in cui vent’anni fa guardavo il mio capo che ne aveva giusto quaranta. Sembrava così distante… un altro mondo. E mi dicevo: “Chissà come ci si sente a quarant’anni.”

Lo credevo così diverso…

E ora eccomi là, davanti a lu Pippi che di certo pensa le stesse cose di me.

Eppure c’è qualcosa che non funziona, i particolari non s’incastrano come dovrebbero…

Se io non sono come lu Pippi crede, forse anche il mio capo non era come… e allora anche mio padre che ne ha settanta…

Ho capito! Adesso ho capito!

La stretta si allenta di colpo e torno di nuovo libero. Allungo una mano invisibile e strappo dalla mente il velo che la confonde, filtro deformante davanti a occhi già poco capaci.

È una sensazione strana. Così, inaspettatamente, ho preso coscienza di…

Avverto un’energica spinta da dietro e intuisco che si tratta del ritorno. Quello di prima ha riacceso l’interruttore, ha premuto nuovamente il tasto Play e la proiezione continua.

Come una saetta rientro nel mio corpo. Una breve scossa, un leggerissimo sussulto e ogni cosa riprende il proprio moto.

Sfioro lu Pippi che mi dice ciao e tira dritto. Sorrido tra me e sento la piega delle labbra incurvarsi leggermente sotto i baffi.

“Torno subito.” dico, ed esco dalla stanza.

Che c’è di strano? A dir la verità… non saprei.

Forse nulla.

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BLU NOTTE

 

Appoggiò le mani tremanti sul vetro appannato. Il calore della pelle scioglieva in fretta il velo di umidità contornando le dita di goccioline che a poco a poco cominciarono a scendere in minuscoli rivoli tortuosi.

Per un lungo istante fissò lo sguardo su quei piccoli canali d’acqua e sulle sue mani, seguendone con gli occhi le rughe delle dita e le unghie pallide.

Alla fine l’aveva fatto.

Sì, l’aveva fatto.

Chiuse gli occhi e appoggiò la fronte al vetro.

 

Era una bella giornata di sole e lui era contento di guidare, assaporando lo spiffero d’aria fresca che entrava dal finestrino. Angela gli stava accanto. Era voltata verso nord, e guardava le montagne che in quella limpida mattina di marzo sembrava si potessero davvero toccare. Tra i due sedili, dietro, stava il loro Marco. Li interrogava con quella insaziabile curiosità che hanno i bambini di sei anni, sorpresi dal mondo e dalle sue meraviglie.

“Hai visto Marco come sono belle le montagne, questa mattina?” gli chiese ad un tratto guardandolo attraverso lo specchietto retrovisore.

“Papi, è vero che sulle montagne vive l’uomo nero?”

“Ma no, cosa dici... l’uomo nero esiste solo nelle favole...”

“Ma Piero dice che sua nonna una volta l’ha incontrato! Davvero, non sto mica scherzando, sai?”

“Ah beh, se dovessi credere a tutto quello che dice Piero staresti fresco. Credimi: se ti dico che non esiste, non esiste.”

“Sì, ma se Piero ha detto...”

“Ma allora vuoi dire che credi più al tuo amico Piero che non al tuo papi?”

“Noo,” sbuffò, “è solo che Piero mi ha detto...”

Era una battaglia persa in partenza; non sarebbe riuscito a convincerlo neanche con le cannonate. Un brivido lo scosse per un momento e chiuse il finestrino.

“Angela, che ne dici se al prossimo autogrill ci fermiamo a mangiare qualcosa?

Lei non rispose, era assorta a guardare le montagne.

“Angela…”

“Scusa Giovanni, scusa, stavi dicendo?”

Si girò verso di lui ravviandosi i capelli. Avevano una strana sfumatura rossiccia con quella luce. La faccia era tagliata a metà dall’ombra dello specchietto.

“Chiedevo se volevi che ci fermassimo al prossimo autogrill... per un caffè...”

“Che cos’è l’autogrill?” chiese Marco.

“E’ un posto dove si può fare benzina e dove c’è anche un bar in cui si può fare colazione, comperare giornali e qualche volta anche mangiare.”

“Sì, sì, fermiamoci. Che ne dici se mi mangiassi un bel gelato?”

 

Gelato.

Anche il vetro era gelato. Riaprì gli occhi scuotendo la testa, come per scacciare quelle immagini.

Una passata con la mano e l’umidità fu spezzata da una specie di semicerchio, attraverso il quale poteva vedere fuori.

Che erano? Le due, forse le tre del mattino. Nessun rumore saliva dalla strada, completamente deserta. Le macchine parcheggiate sembrava dormissero; gli scuri della casa di fronte, di un verde assurdo, innaturale sulla facciata rosa, erano serrati compitamente, l’uno uguale all’altro. Giovanni strizzò gli occhi fino a che i bordi irregolari si confusero con il resto diventando indistinte macchie scure su sfondo chiaro.

 

“Hai visto? Te l’avevo detto di stare attento. Guarda che macello hai combinato!”

S’infuriava di rado, Angela, ma guai a toccarle i vestiti nuovi. Sulla camicetta faceva bella mostra di sé una macchia di gelato al pistacchio. Marco la osservava, incerto se mettersi a piangere o cercare riparo dietro le gambe del padre. L’angolo della bocca leggermente piegato verso il basso faceva propendere per la prima soluzione. In mano stringeva ancora l’arma del delitto: un piccolo cono gocciolante pistacchio, limone e panna.

Giovanni si strinse nelle spalle. Era inutile intervenire, qualsiasi cosa avesse detto in quel momento non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, così si limitò a darle il fazzoletto.

“Accidenti!” imprecò lei, “lo sapevo che non avrei dovuto fidarmi... la camicetta nuova... chissà se riesco a farla venire, questa macchia è così... così... verde, ecco!”

Stava per mettersi a strillare verso il bambino ma quando lo vide in quello stato, mortificato e con il suo prezioso gelato diventato ormai una informe chiazza sulla quale piovevano le prime lacrime, si bloccò. Era come se qualche oscuro ingranaggio, al suo interno, si fosse messo in moto per scacciare la rabbia e far venire a galla l’amore della madre per il suo cucciolo. L’espressione tirata del viso si rilassò come d’incanto mentre gli occhi, imbronciati e stretti s’allargavano diventando grandi e umidi. Piegò la testa da un lato e allungò la mano verso quella del bimbo; lo accarezzò delicatamente senza dire niente.

Marco non si muoveva, con lo sguardo rivolto verso il pavimento singhiozzava: “Scu-sa, mam-ma, non l’ho fat-to apposta...”

E a quelle parole dalla bocca di Angela uscì quella voce calda, rassicurante, che a lui piaceva tantissimo.

“Non è niente, amore, non ti preoccupare. Vedrai che quando sarà lavata tornerà come nuova.”

Ricordava quel momento come se fosse avvenuto il giorno prima. La ricordava chinata verso il figlio con i lunghi capelli castani che le scivolavano sulle spalle. Indossava una gonna corta quella volta e, nonostante fossero già otto anni che erano sposati, si era soffermato con piacere sulle sue gambe.

Sentì che era il momento di intervenire.

“Va bene, va bene, non è successo niente. Basterà che indossi il golfino e nessuno noterà niente. Adesso andiamo, altrimenti arriveremo al lago a mezzogiorno.”

 

Non è successo niente pensò. Che importanza può avere una semplice camicetta sporcata da un bambino?

Ti arrabbi, ti avvilisci, bestemmi, a volte, per delle cazzate e poi ti giri e paf! il mondo ti casca addosso.

Sentiva gli occhi pesanti. I pensieri viaggiavano lentamente, come un pezzo di legno sull’acqua di uno stagno mossa dal vento: un po’ avanti e un po’ indietro, senza una direzione fissa, senza una meta, ondeggiando sulle increspature, affondando per un momento sotto la superficie per poi tornare a galla, esitante, in attesa della prossima onda.

Sospirò. Per un attimo sentì il suo respiro sibilare all’unisono con quell’altro fievole sibilo proveniente dalle sue spalle.

 

“Non potresti andare più piano?” chiese Angela.

“Ma non sto mica andando forte. Guarda, faccio solo i centoventi all’ora.”

“Ma se il vento fischia come un disperato. Non senti com’è fastidioso questo sibilo?”

Giovanni si girò verso il finestrino e inarcò la testa come per dire per forza che sibila, guarda il finestrino, non l’avevo chiuso del tutto!

Si limitò a premere il pulsante. Un lieve ronzio ricacciò il rumore del vento all’esterno della vettura.

“Ecco fatto! Era solo il finestrino chiuso male, non era l’alta velocità.”

“Papi,” mormorò Marco, “ha ragione la mamma. Per me stai correndo troppo forte.”

“Ma no che non sto correndo, cucciolotto, non vedi che le altre macchine ci superano in continuazione? Vanno più forte loro, non vedi?”

“Ma la mamma ha detto che vai troppo forte e ha ragione lei.”

Come al solito era inutile discutere.

“Guarda,” gli disse, “guarda che roulotte grande c’è lì davanti.”

“Ma è una casa?” chiese incuriosito il bimbo.

“Sì, te l’ho già spiegato, le roulotte sono come delle piccole case con le ruote sotto. Così si possono portare in giro.”

“Papi, ce la comperiamo anche noi una roulotte così?”

“Per carità, non mi piacciono le roulotte. Dai retta a me, è molto più comoda una bella stanza d’albergo.”

Marco aveva già perduto interesse per la cosa e si era avvicinato al finestrino laterale della vettura.

“Guarda, papi, guarda laggiù nel campo, ci sono dei cavalli.”

“Belli, belli,” disse Giovanni senza nemmeno guardare, “di che colore sono?”

“Ce n’è uno tutto bianco e due marroni. Ehi, guarda laggiù, papi, ce n’è anche uno tutto nero... deve essere un cucciolo, perché è più piccolo.”

“Non si dice cucciolo, si dice puledro.” intervenne Angela, che si era girata anche lei da quella parte.

Il colpo di clacson li fece trasalire tutti e tre.

“Ma che diav...” imprecò Giovanni, buttando l’occhio prima verso lo specchietto retrovisore interno, poi su quello esterno.

La grossa berlina li sorpassò sfiorandoli; andava fortissimo e lo spostamento d’aria, amplificato dalla vicinanza, investì la macchina facendole compiere una esse.

Giovanni mantenne il controllo dell’auto con una certa difficoltà, mentre imprecava verso lo sconosciuto.

“Ma guarda che razza di deficiente! Solo perché ha l’auto grossa crede di poter fare quel cavolo che vuole?”

Schiacciò l’acceleratore a tavoletta e il motore lanciò un grido di sofferenza, mentre i montanti del guardrail cominciarono a scorre sempre più veloci al loro fianco.

Angela si girò verso di lui cercando di calmarlo.

“Giovanni, ti prego, rallenta. Lascia che vada a quel paese, ormai non si vede quasi più.”

“Ah no, non posso fargliela passare liscia. Lo sai che se c’è una cosa che mi irrita è proprio il comportamento da prepotente che hanno certe persone.”

La berlina scura si intravedeva in lontananza, poi scomparve dietro una curva.

Il motore girava ormai imballato: seimila giri, forse più. Il fruscio aerodinamico era cresciuto e penetrava dentro l’abitacolo permeandolo e intrecciandosi con il rumore del motore.

“Ti prego, Giovanni, rallenta, non fare lo sciocco, lo sai che ho paura quando vai così forte. E poi se troviamo la polizia rischi il ritiro della patente.”

Giovanni non la ascoltava, preso com’era dalla rabbia e da sentimenti di vendetta. Forse lo spavento, o l’arroganza dell’imbecille, o chissà che altro...

“Sta’ zitta! Vedrai che lo raggiungo, e allora gli passerò talmente vicino da fargli saltare via la vernice.”

Sentiva il volante leggero, così leggero come non l’aveva mai sentito. Ad un certo punto...

“Eccolo, eccolo laggiù il cretino. Hai visto che lo stiamo raggiungendo? Deve avere rallentato, forse perché non c’è nessun altro da sorpassare in quel modo. Il gradasso! Solo perché ha la macchina più grossa...”

La berlina si avvicinava sempre più velocemente.

Gli occhi di Giovanni erano ormai due fessure mentre un ghigno gli storceva la bocca. Teneva il volante con forza, avvinghiandolo con dita che sembravano artigli.

Non reagiva alle insistenze di Angela e nemmeno al piagnucolio di Marco che atterrito si era raggomitolato sul sedile posteriore.

“Ecco, vieni, vieni qui caro il mio deficiente, che adesso ti faccio vedere io.”

La grossa macchina scura sembrava quasi aver cambiato senso di marcia, tanta era la rapidità con la quale si avvicinava. Ormai era a poche decine di metri. Giovanni si portò sulla corsia di sorpasso molto lentamente, calpestando con le ruote di destra la linea di mezzeria.

 

Era bianca quella linea tratteggiata, non grigio scuro, quasi nera, come quella delle fughe tra le mattonelle del pavimento.

Passò un dito su una di esse seguendola per un breve tratto, fino all’incrocio con altre piastrelle. Che strano, e poi dicevano che le piastrelle in cotto erano calde. Non gli pareva che fossero così calde.

Sentiva sotto il polpastrello la rugosità della superficie. O forse era la polvere? Non ricordava l’ultima volta che aveva spazzato. Del resto non è che gli importasse granché, e fra poco gli sarebbe importato ancora meno.

Era seduto sul pavimento, appoggiato alla portafinestra che dava sul piccolo terrazzo. Anche da quella posizione, allungando un poco il collo, attraverso le sbarre della ringhiera, riusciva a scorgere il marciapiede opposto.

La stanza era avvolta dalla penombra. Le luci della strada arrivavano fioche lì al primo piano e filtrate anche dai vetri appannati gettavano lunghe ombre sul soffitto. A mala pena riusciva a distinguere i mobili. Non era come nelle giornate di sole quando proprio in quella cucina, esposta a est, la luce entrava prepotente al mattino rimbalzando e rifrangendosi sulle pareti bianche fino ad intrufolarsi nei punti più nascosti. A lui non piaceva molto quella luce così intensa ma ad Angela... Cristo, Angela sembrava che ne traesse nutrimento. Si metteva alla finestra con gli occhi chiusi e si lasciava travolgere da quella marea lucente fino ad esserne sommersa, fino a diventarne parte lei stessa. La guardava con un pizzico di rabbia, lui che faticava a tenere gli occhi aperti, ma si compiaceva di seguirne i lineamenti puliti e sinuosi, ammantati di una specie di alone innaturale. A volte, quando la temperatura lo permetteva, apriva la portafinestra affinché il vetro non le rubasse il contatto diretto con i raggi del sole. E lui ci cascava ogni volta. Ogni volta era colpito da quell’improvviso riflesso del sole sull’angolo del vetro. Lo colpiva in pieno viso facendogli male agli occhi e costringendolo a girare la testa e sollevare un braccio per proteggersi.

 

Quando fu all’altezza del paraurti posteriore della berlina, il respiro gli si era fermato. La rabbia era ora l’unica cosa che lo controllava, l’unico sentimento ad avere il comando. Sentiva il cuore che gli scoppiava in gola e lontano, indistinta, la voce di Angela che ormai era diventata un grido.

Il muso della sua macchina era quasi alla pari con lo sportello posteriore dell’altra, pochi centimetri separavano i metalli. Sentiva chiaramente il rombo del motore. Ormai lui e la macchina erano un tutt’uno che gridava vendetta, mentre l’asfalto nero scorreva sotto di loro a una velocità impressionante.

Poi, di colpo, quel lampo accecante. Il sole, riflesso dal finestrino dell’altra auto, lo colpì agli occhi e gli sembrò che un’esplosione atomica fosse capitata proprio lì, davanti a lui. Gli uscì un urlo strozzato mentre con il braccio cercava di proteggersi il viso.

Sentì la macchina sbandare e il rumore metallico delle superfici che si toccavano.

Fu solo un lungo, interminabile attimo. Il sopra prese il posto del sotto e il di qua e il di là diventarono parole senza senso. Una, due, e chissà quante altre giravolte... Gli sembrava di ricordare le urla di Angela e del piccolo Marco, poi l’urto tremendo della faccia contro il parabrezza e infine buio e quiete.

 

Quiete, come in quel momento. Tutto si era acquietato ormai. Niente avrebbe più potuto scuoterlo o disturbarlo o interessarlo. Aveva saltato il fosso, non poteva più tornare indietro né lo desiderava. Appoggiò le braccia stanche sulle cosce; le mani tremavano ancora.

Il suono di una sirena si avvicinava velocemente. Allungò la testa verso la strada, tenendola appoggiata all’infisso. Lampi azzurri illuminavano a tratti il cielo nero e poi i muri delle case di fronte. La sirena e la luce passarono veloci senza fermarsi, diretti chissà dove; la strada li ingoiò presto e la quiete ritornò.

 

Quando aprì gli occhi era notte. Tutto quello che ricordava era il lampo di luce e poi il botto. Provò a muoversi ma decine di aghi infissi in tutto il corpo fecero sentire la loro voce. Il dolore s’impadronì di lui entrando fin dentro le ossa, fin dentro le viscere, fin dentro al cervello. Non gli rimase che ruotare gli occhi senza muoversi. Intravedeva sulla destra una finestra, con la tapparella abbassata, dalla quale filtrava una debole luce. Poi udì il sibilo lieve e continuo e si rese conto di avere qualcosa su per il naso che gli dava un fastidio tremendo. Fece qualche mossa con i muscoli del viso per liberarsi di quel fastidio, ma fu come se si fosse staccato la pelle dagli zigomi. Un dolore acuto gli ricoprì la faccia e gli fece sfuggire un lamento.

Passi. Piccoli passi veloci provenienti da qualche parte, poi una lama di luce che s’allargava sul soffitto e un viso di donna entrare nel suo campo visivo. Un’infermiera pensò.

Avrebbe voluto chiederle cos’era successo e come stavano sua moglie e il bambino, ma non appena fece il tentativo di aprire la bocca fu di nuovo dolore e riuscì ad emettere solo un altro gemito.

“Stia calmo signor Conti. Sono contenta di vedere che ha ripreso conoscenza. Chiamo subito il medico.”

La faccia svanì e di nuovo sentì quei piccoli passi che s’allontanavano nel corridoio.

Tornò il silenzio e con esso il sibilo.

Ossigeno pensò, deve essere il tubo dell’ossigeno che mi entra nel naso.

Dopo qualche minuto tornarono i passi: erano quelli di prima accompagnati da altri, più pesanti.

Il medico aveva una barba ben curata e sopra di essa un paio di occhiali dalla montatura fine. Gli sorrideva, o almeno così gli parve.

Non sorridono sempre i medici?

“Allora, come si sente signor Conti? No, non parli e non si muova. Non farebbe altro che soffrire di più. Capisce quello che le sto dicendo? Se mi capisce chiuda e apra gli occhi.”

Giovanni sbatté le palpebre un paio di volte, lentamente.

“Bene, signor Conti. Adesso l’infermiera le misurerà la temperatura e la pressione. Ha avuto davvero un gran brutto incidente, sa? Per sua moglie e suo figlio non si preoccupi, sono in buone mani.”

Sentì il braccio compresso dal bracciale che si gonfiava. Altre fitte, altro dolore.

“Abbia pazienza,” disse l’infermiera, “lo so che le fa un po’ male, ma non posso fare diversamente.”

 

Gli ci vollero quasi due mesi prima che fosse in grado di alzarsi dal letto, e fu solo allora, dopo molte insistenze e la minaccia di recarsi nel reparto femminile da solo, che venne a sapere come stavano veramente le cose.

Angela, la sua Angela, era morta.

“L’unica cosa che può consolarla è che di certo non ha sofferto. E’ morta sul colpo. Suo figlio Marco invece è stato trovato ad una decina di metri dalle macchine, vicino al guardrail. E’ vivo, ma non è ancora possibile sciogliere la prognosi.”

Il medico fece un lungo sospiro. Era evidente che cercava parole che non riusciva a trovare. Giovanni guardava il suo camice bianco, pulito. Dal taschino sporgevano tre o quattro penne colorate.

“Ha subito una lesione importante alle prime vertebre lombari... più o meno a questa altezza...” e portò la mano dietro la schiena, all’altezza della vita, muovendola su e giù per una decina di centimetri, “non possiamo ancora stabilire esattamente quanto midollo è stato danneggiato, anche se la TAC... solo fra un po’ di tempo potremo essere più precisi... al momento è ancora in coma... ma è un coma leggero, sa? Potrebbe svegliarsi da un momento all’altro...”

Le parole del medico cominciarono a ruotargli attorno alla testa e lui non riuscì più a seguirle. Poi, assieme alle parole, cominciò a ruotare tutta la stanza e l’oscurità lo avvolse di nuovo con il suo mantello.

 

Tornò al buio della stanza. Erano passati più di due anni da quel giorno, ma quelle immagini riaffioravano alla mente prepotenti, ad ondate, senza che fosse in grado di arginarle, e lo sommergevano ogni volta con il loro carico di dolore e di angoscia.

C’erano voluti diversi mesi prima che Marco uscisse dal coma, e come quasi sempre accade in questi casi, il suo cervello non era più quello di prima. Inoltre, come se non bastasse, era paralizzato dall’addome in giù.

Nonostante tutta la buona volontà, Giovanni non era riuscito ad adattarsi alla situazione. Non riusciva a guardare suo figlio in quelle condizioni senza che gli venissero in mente immagini di quando giocava in giardino o con i compagni o con lui e Angela sul letto. Sembrava un fiore reciso, ecco quello che sembrava. Non era giusto, non era giusto che ad un bambino capitasse una cosa così.

Si era maledetto mille volte per quello che aveva fatto, ma ormai nulla poteva cambiare lo stato delle cose, lo sapeva. E sentiva tremendamente la mancanza di Angela. Se fosse uscita viva dall’incidente, lo avrebbe mai perdonato? No, era sicuro di no. Del resto, come si può perdonare una cosa simile? Nemmeno lui l’avrebbe fatto, probabilmente. E nemmeno gli altri.

Nessuno glielo diceva, ma sentiva su di sé gli sguardi accusatori di tutti. Come poter dare loro torto? Ma tutta la sofferenza che lo accompagnava incessantemente non era nulla a confronto dell’angoscia che sentiva quando era vicino al suo Marco.

Stava fermo a guardarlo per ore, piccolo corpicino perduto nel grande letto. Era così pallido ed assente, con grandi cerchi scuri attorno agli occhi. Giovanni gli parlava. Gli parlava sperando di stabilire un improbabile contatto, ma sarebbe poi stato un bene? Non era meglio che avesse continuato a vegetare senza rendersi conto della propria situazione?

La città era fuori dalle mura. Pensò a tutte le famiglie che in quel momento avevano una vita normale. Certo non pensavano a quelli come lui. E perché avrebbero dovuto, poi? Neanche lui pensava a questo genere di cose, prima. Certo l’attenzione si accendeva per un attimo ascoltando la notizia di questo o quell’incidente trasmessa dal telegiornale, ma era solo una cosa passeggera, scacciata qualche istante dopo dalla pubblicità o dall’arrivo del secondo piatto.

Non si pensa mai a fatti di questo genere, e tanto meno che possano capitare a noi. Sono così fuori dalla logica delle nostre cose che le consideriamo estranee alla nostra vita, e anche solo l’ombra del pensiero che possano succedere proprio a noi viene immediatamente rimossa dalla nostra mente. Non riusciamo a comprenderle, perciò le rimuoviamo. E’ più semplice, più immediato. E poi, anche se ce ne preoccupassimo, a cosa servirebbe?

A cosa servirebbe?

A nulla, semplicemente perché sono cose troppo grandi per noi, anche se possono stare tutte dentro ad un bimbo di appena sei anni.

Così la situazione era peggiorata sempre più fino alla sera del giorno prima. Aveva cenato di mala voglia, come sempre. Anzi, si era dovuto imporre di mangiare qualcosa, poi, come al solito era andato in camera di Marco per stare insieme a lui.

La stanza era in penombra. Solo la fioca luce sul comodino impediva che l’oscurità totale se ne appropriasse.

Sedette sul bordo del letto, come faceva da mesi, e prese la mano di Marco tra le sue.

Le parole gli uscirono a fatica, erano poco più che un sussurro.

“Povero amore mio, cosa mai ti ha combinato il tuo papi. Lo so che tu avresti bisogno della mamma, ma lei non è qui adesso. Forse verrà più tardi.”

Il nodo in gola si formò con facilità, come sempre gli accadeva. Cercò con lo sguardo di entrare in contatto con quello del piccolo. Cercò di capire cosa suo figlio potesse capire di quella situazione e ad un tratto accadde qualcosa al suo Marco, qualcosa che gli aprì gli occhi.

Una lacrima, una piccola lacrima spuntò faticosamente all’estremità dell’occhio destro e rotolò giù per la guancia. Non riuscì nemmeno ad arrivare al cuscino, tanto era piccola e fragile. Si inaridì all’altezza dell’orecchio lasciando solo un’esile striscia di pelle luccicante. L’esistenza di quella lacrima era finita precocemente, come quella di suo figlio.

Giovanni ne fu sconvolto e d’improvviso capì. Capì che Marco capiva, e s’immaginò quella piccola mente prigioniera d’un corpo inutile che avrebbe voluto volare libera, senza limiti, come sarebbe stato giusto. Sentì il petto che stringersi fin quasi a soffocarlo mentre lacrime amare cominciarono a cadere sulla coperta.

Contro ogni sentimento ed ogni istinto decise che lo avrebbe liberato.

Gli appoggiò una mano sul viso chiudendogli la bocca e il naso, mentre con l’altra gli accarezzava la fronte.

Fu un barlume di lucidità quello che passò per gli occhi del piccolo? Quello sguardo, quello sguardo che lo fissava mentre la vita sfuggiva lo stava forse ringraziando?

Il petto del bambino cominciò debolmente a contrarsi e a espandersi senza che nulla entrasse o uscisse dai suoi polmoni. Non un gemito, non un movimento, solo il piccolo petto che si alzava e abbassava sempre più affannosamente.

Poi, dopo un po’, si fermò anche quello.

Un silenzio assordante s’impadronì della camera e Giovanni urlò. Non fu un urlo umano, ricordava di più l’ululato di un cane che ha perso il proprio cucciolo o il proprio padrone. In quell’urlo c’erano tutto il suo dolore, la sua incapacità di capire, la sua piccolezza d’uomo di fronte agli eventi del destino.

 

Il sibilo continuava a insinuarsi tra i suoi pensieri. Era sicuro di avere fatto la cosa giusta. Lo aveva liberato, liberato da tutto. Lo vedeva correre incontro a sua mamma, felice e libero come sarebbe giusto che ogni bambino fosse. E Angela era là, inginocchiata, con le braccia aperte che lo aspettava. E fra poco sarebbe andato con loro anche lui. Sì, fra poco, quando la casa sarebbe stata satura di gas e lui avrebbe chiuso gli occhi per sempre.

Si alzò con fatica ed andò in camera di Marco. Lui era ancora lì, o meglio il suo corpo era ancora lì. Si sedette sul pavimento vicino al letto e gli strinse una mano.

E mentre la mente gli si annebbiava e le cose cominciavano a perdere i contorni, pensò a cosa si sarebbero chiesti gli altri.

Diranno che sono impazzito, perché solo un pazzo può fare una cosa del genere. Ma non è forse più da pazzi permettere a qualcuno di vivere una vita in quello stato ? Non è forse più da pazzi tenere prigioniera una mente in un corpo che non si muove ? Non è forse più crudele ? Per quante supposizioni facciano, non potranno mai capire. Non potranno mai capire che tutto quello che volevamo era solo di stare insieme di nuovo, liberi come un tempo.

Le pareti della stanza gli si chiusero addosso, formando una specie di tunnel buio, ma lui non ebbe paura. Sapeva già che alla fine di quel tunnel avrebbe trovato la sua Angela e il suo Marco che lo aspettavano. Già li vedeva, l’uno accanto all’altra, mano nella mano, che gli sorridevano sereni per ricominciare una nuova vita.

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LA FORMICA

 

(Nota: Il racconto è stato pubblicato nell’antologia comprendente i selezionati al Premio Lido di Roma – IV ediz. 1997)

 

La vedo arrancare lentamente trascinando una grossa briciola di pane tra un sasso e l’altro del viottolo. E’ abbastanza grossa, per essere una formica; è una di quelle tutte nere, dal corpo affusolato e lucido. Esplora il terreno con le sue antenne vibranti, che si muovono incessantemente in ogni direzione e poi riparte.

Ma perché ti affatichi così tanto, penso, dopo tutto ci sono briciole anche più piccole, non potresti prendere una di quelle?

Ecco la classica mentalità da impiegato statale venire a galla anche in un momento come questo. Quasi quasi mi ci riconosco in questo piccolo insetto nero. Penso al mio lavoro che costituisce per me un fardello altrettanto grande che mi trascino dietro da quasi vent’anni. Oggi è l’ultimo giorno di ferie per quest’anno, e siamo solo in agosto. In più fa un caldo boia e io odio il caldo boia!

Sono venuto, stranamente, al parco comunale. Un piccolo parco, adeguato alle modeste dimensioni della cittadina in cui vivo. Ho scelto con cura una panchina all’ombra, una delle poche tra tutte quelle che seguono il viottolo serpeggiante tra il prato, dal quale emergono, qua e là, grandi pini secolari, ma nonostante questo piccolo accorgimento il caldo mi opprime, inculcandomi pensieri tragico-filosofici di bassa lega.

Da dove vieni piccola formica? E dove sei diretta? E io, io da dove vengo? E sono diretto da qualche parte?

Ecco la vera tragedia della mia vita: non ho mai acquistato un biglietto per nessun posto. Sono sempre salito e sceso da un treno all’altro ma senza mai sapere in che direzione fossi diretto. Oh, non solo treni, ma anche tram, automobili, motociclette, aerei e ogni altro mezzo di locomozione disponibile sul pianeta (un momento: sui cammelli a dire la verità non ci sono mai andato. Non importa: non sarà un cammello a fare la differenza! E poi loro viaggiano solo nel deserto e io odio il caldo e il deserto.)

E allora? Cambia forse qualcosa? Certo che no!

“Il problema sta nello scoprire il vero obiettivo della propria vita. Che cosa vogliamo diventare, che cosa vogliamo davvero fare...” avevo letto questo concetto in qualche libro del tipo “Diventa un guru in cinque lezioni.” o “Fare i soldi è facile: se vuoi te lo dico.” o ancora “Perché hai aspettato fino ad ora? Hai la fortuna a portata di mano...”

Sì, la fortuna! Loro hanno fatto fortuna, tutti quelli che scrivono questi libri insulsi che poi gente deficiente come me compera con la speranza che possano svelare i segreti della vita.

Insomma, mentre dialogo tra me e me su questi pensieri masochisticamente autodistruttivi, continuo ad osservare la piccola formica che, di certo ignara di quale alta mente stia ragionando appena un metro sopra di lei, continua imperterrita a trascinarsi dietro il suo fardello. Chissà se le formiche sudano! Cazzo, se sudano, quella a quest’ora dovrebbe lasciare dietro sé rigagnoli di liquido incolore e puzzolente. Con sei ascelle poi (o sono solo quattro? o due?).

Cammina lentamente badando bene a schivare i sassi più grossi ma scalando caparbiamente quelli più piccoli. Uno scarto a destra poi un altro a sinistra... inspiegabili cambi di direzione caratterizzano il suo avanzare.

Ma così allunghi, non vedi? Se passi da quella parte fai almeno dieci centimetri in più. No, no, ti conveniva passare a destra di quella cicca di sigaretta, non a sinistra...

Poi mi rendo conto, improvvisamente, che la meschina non può avere una visione globale come ce l’ho io. E già, è come se io fossi su un satellite al suo confronto. Posso distinguere chiaramente il territorio, di qualche metro quadrato, che costituisce probabilmente tutto ciò che la formica ha mai potuto vedere in tutta la sua esistenza. Istintivamente alzo gli occhi verso l’alto cercando di vedere il cielo tra un ramo e l’altro.

E se Dio guardasse me allo stesso modo in cui io guardo lei? Voglio dire, e se ci fosse qualcuno molto più in alto e molto più grande di noi che ci osserva così come noi osserviamo le formiche?

Beh, anche se ci fosse, non è detto che stia guardando proprio me. In fin dei conti io ne sto osservando solo una, tra tutti i milioni che sicuramente esistono sulla terra. Se Dio guardasse sulla Terra, sarebbe molto improbabile che scegliesse proprio me: diciamo una probabilità su qualche miliardo (quanti miliardi di esseri umani siamo? Boh!).

Caspita, è davvero un duro colpo per il mio bisogno di attenzione, sempre presente in verità ma in questo momento acuto in modo particolare.

Faccio spallucce come se volessi dire al mondo che della cosa non mi importa poi un gran ché.

Basta con il cielo e con Dio, basta con le formiche. Accidenti, dopo tutto oggi è il mio ultimo giorno di ferie...

Sarà per questo che sono così depresso?

Così abbasso lo sguardo ad altezza d’uomo e lo sposto lentamente da sinistra verso destra effettuando una panoramica dell’intero parco (o parchetto, date le dimensioni? Ma se non sbaglio i parchetti sono i listelli di legno con cui si fanno i pavimenti...).

Anche se sono quasi le undici, non ci sono molte persone disposte a dividere con me questo ritaglio di verde cittadino, imbottigliato tra condomini grigi e strade piene di traffico.

Ma in agosto, non dovrebbero essere tutti in ferie?

Qualche decina di metri alla mia sinistra un paio di signore spingono stancamente un passeggino parlottando di chissà cosa con un modo da cospiratrici. Staranno organizzando la “rivolta del pannolino” o forse la “presa della tettarella”? Mah! Magari parlottano su quella o quell’altra delle loro amiche o si consolano a vicenda raccontandosi i difetti dei loro legittimi consorti.

Continuo a spostare lo sguardo verso destra. Ecco laggiù un cane scodinzolante dal pelo a metà tra il grigio e il nero. Un randagio? No, solo pochi metri dietro di lui (o lei?) un’anziana signora cammina a fianco di una bicicletta che, per come si presenta, deve appartenerle fin dai tempi della comunione. Anche il cane non dev’essere tanto giovane ; si ferma ad ogni ciuffo d’erba intrufolando il muso fino alle radici, forse drogandosi di odori che solo lui può sentire.

E poi dicono vita da cani! Ma se fossi un cane, non starei meglio? Non fare niente tutto il giorno, non rincorrere qualcosa che non sappiamo neanche che cos’è, mangiare, dormire e grattarsi via le pulci senza preoccuparsi delle bollette, del capoufficio, delle code, del prezzo della benzina, della pubblicità...

Ma certo! La pubblicità! Mi scorrono davanti agli occhi quelle odiose pubblicità sul cibo per gatti. Ma dico io, tutte quelle scene di gatti superviziati dai loro padroni con scatolette extra-mega-lussuose al salmone, aragosta e magari con un pizzico di caviale, non è un affronto a tutta la gente che su questa Terra non ha di che cibarsi? Bleah! 

Scaccio il pensiero e proseguo nella mia apatica esplorazione. Un paio di bambini che si azzuffano per il possesso di un pallone a spicchi colorati che dalle dimensioni pare proprio stia esalando l’ultimo respiro.

Anch’io mi sento sgonfio. Va beh, continuiamo...

Ho quasi un sussulto quando, arrivato con lo sguardo a coprire la panchina davanti alla mia, vedo che è occupata da un anziano signore.

Non l’ho proprio sentito arrivare. E sì che le scarpe sulla ghiaia ne fanno di rumore. Lo sguardo scende automaticamente verso i suoi piedi. Non ha scarpe, bensì un magnifico modello di ciabatte stile Rimini o Riccione, di quella plastica particolare che, nel tentativo di imitare la pelle, finisce col non assomigliare ne all’una né all’altra lasciando interdetto chiunque si accinga ad effettuarne una classificazione merceologica. Roba da mercato settimanale, c’è da giurarci. All’interno delle ciabatte i piedi (due naturalmente) ricoperti da un paio di calzini rigorosamente corti di un blu slavato, timido, probabilmente intossicato da decine di lavaggi con relative centrifughe. Una bella porzione di stinco dalla pelle bianca, attraversata da sottili linee blu, e poi il bordo dei calzoni.

Calzoni grigio topo. No, forse sono più grigio antracite. O grigio canna-di-fucile?

I pantaloni terminano con una cintura in pelle, intonata con il colore delle ciabatte, che fascia gentilmente, senza costringerlo, un addome ampio e rilassato ricoperto da una camicia a maniche corte sul verdino chiaro. E infine il volto. Barba fatta, capelli a posto di un bel bianco-non-ho-più-l’età. Un volto tondo ma non troppo, calvo ma non troppo, con tante rughe ma non troppe.

Un pensionato!

Non c’è dubbio alcuno. E’ di certo un pensionato. La personificazione del mio sogno, del mio idolo, del mio obiettivo finale: la pensione!

Un turbinio di pensieri inonda la mia testa. Che bello! Che bello sarebbe poter essere un pensionato. Svegliarsi la mattina quando abbiamo voglia. Passare tutta la giornata a non fare niente, o meglio, a fare solo ciò che più ci piace, non sarebbe un sogno? Poter leggere, viaggiare, andare al cinema. Poter fare ore e ore di fila agli uffici postali e bancari o a quelli del comune, godendo nel vedere le facce biliose dei poveri lavoratori costretti a chiedere ore di permesso, stracciandosi il fegato e l’anima nel tentativo impossibile di superare quelle code che per noi rappresentano invece un delizioso diversivo. Oppure passeggiare con l’auto a trenta all’ora stando ben attenti a non discostarsi di più di cinque centimetri dalla linea di mezzeria incuranti di ciò che accade intorno a noi. E chiedersi con innocenza come mai il conducente che ci segue non va dal medico, visto il colore che ha...

La pensione! Il termine ultimo, la meta agognata, la fine dell’attività più massacrante e barbara che l’uomo è condannato ad espletare: il lavoro!

Sta leggendo il giornale, o almeno così sembra, anche se a dire il vero non riesco a notare alcun movimento del capo o degli occhi.

Forse si è addormentato. Con questo caldo? Con il giornale aperto? No, non è possibile. Forse sta solo pensando. Forse sta solo riflettendo su qualche notizia. O avrà ricordi che gli saltano davanti agli occhi senza sosta, confondendosi con le immagini reali...

Cosa avrà fatto nella vita? Le spalle curve richiamano lavori pesanti: il contadino? L’operaio? Il muratore? Poi mi rendo conto che tutti gli anziani hanno le spalle curve e poi, che ne posso sapere di quest’uomo? Magari era un professore universitario o un medico o un ingegnere... insomma, qualcuno che a dispetto dell’apparenza può a ben ragione guardarmi dall’alto in basso. Anzi, al quale dovrei io guardar dal basso all’alto. Ma perché poi? Forse che il professore ha diritto di guardare dall’alto in basso il muratore? O il medico può fare altrettanto con il contadino? Che sciocchezze! Di più, che orribile modo di pensare inculcatoci fin dai primi giorni dell’infanzia! Come se il valore di una persona dipendesse dal suo titolo di studio, come se il rispetto dovuto ad un uomo fosse proporzionale agli zeri sullo stipendio. Mi vergogno come un cane di essere scivolato in questo fosso pieno di pensieri putridi, dalle sponde scivolose che è difficile risalire.

All’improvviso alza lo sguardo e fissa gli occhi sui miei, con aria interrogativa.

Accidenti, e adesso? Mi sento un po’ imbarazzato a dire la verità. Mi rendo conto di avere trafitto la sua intimità, di avere attraversato il confine che separa ognuno di noi. Sento con rammarico che le guance si fanno rosse.

“Viene qui spesso?” mi domanda all’improvviso.

La domanda mi coglie impreparato. Non perché non sappia la risposta, ma perché non mi aspettavo che mi rivolgesse la parola.

“No,” replico brevemente con voce incerta.

“In ferie, eh?”

Al diavolo tutti i pensieri buoni, lo sapevo! Ecco il godimento di chi ha finalmente raggiunto le ferie eterne.

“Sì, ma oggi è l’ultimo giorno.”

“Ah, capisco. E’ spiacevole, lo so. Mi ricordo quando anch’io lavoravo... sono passati ormai dieci anni da quando sono andato in pensione, sa?”

Ci avrei giurato. Adesso farà di tutto per farmi crepare d’invidia. Non dargli soddisfazione, mi raccomando.

“Beh... insomma... effettivamente non è il massimo,” gli rispondo, “ma anche ritornare al lavoro ha i suoi vantaggi...”

Beccati questa stoccata.

“Oh, sicuro che li ha, e di certo lei non può sapere quanti...”

Sembra del tutto tranquillo. Forse se la sta ridendo sotto i baffi. Come no, quello di punzecchiare i poveri giovani condannati ad una vita di lavoro è senz’altro il suo sport preferito.

“Che vuol dire? Non vorrà mica farmi credere che è meglio andare tutti i giorni a lavorare che non poter fare quello che si vuole.”

Ripiega con cura il giornale, attento a rispettarne le pieghe originali, e lo appoggia sulla panchina.

“Vorrebbe essere al mio posto?” mi chiede.

Cavolo! Certo che lo vorrei, ma non te la do mica la soddisfazione!

“Perché, a lei non piace fare il pensionato?”

Ecco, così, non rispondergli, controbatti con domande...

“Lo conosce il detto - quando si hanno i denti non si ha il pane e quando si ha il pane... -?”

“Lo conosco, lo conosco. Ma mi creda, lei sta sicuramente meglio di me.”

“E cosa glielo fa pensare?” mi chiede sempre con quel tono tranquillo che mi lascia interdetto.

“Io... beh, ecco, io credo che avere a disposizione tutto il tempo che si vuole sia una gran bella cosa.”

“Già, già. E lei non ce l’ha a disposizione? Sicuramente ha davanti un bel po’ d’anni più di me. Sa quante cose può fare in tutto questo tempo?”

Ah, ma allora lo fa apposta. Ha deciso di farmi arrabbiare, ha deciso. Ma non gliela do certo vinta.

“Quali cose? Che cosa vuole che possa fare se devo lavorare dalla mattina alla sera tutti i santi giorni? Se avessi il tempo che ha lei, allora sì che potrei fare un sacco di cose...”

“Forse,” risponde, “sarebbe più giusto dire se lei avesse il tempo che ho io ma la sua età, non crede?”

“In che senso, scusi?”

Ho capito il senso della frase, naturalmente, ma voglio che continui, per dimostrare quanto errato sia il suo punto di vista.

Il signore si ferma prendendo fiato. Di sicuro l’ho messo in difficoltà. Adesso deve spiegarmi bene che cosa voleva dire... deve dimostrarmi che ciò che sostiene ha una validità.

Si guarda intorno, come se volesse carpire qualche suggerimento da ciò che lo circonda poi si volta di nuovo verso di me.

“Lo sa cosa faccio per la maggior parte del tempo?” mi chiede. Adesso non è più tanto tranquillo, una lieve nota di impazienza copre le sue parole.

“Non lo so.”

“Penso a cosa avrei potuto fare quando avevo la sua età e che poi non ho fatto. Ci crede?”

Colpito! Mi aspettavo una cosa del genere, ma non che volesse capovolgere le parti.

“Andiamo,” gli dico, “lei l’ha già avuta la mia età...”

“Appunto. E’ per quello che so quello che dico. Anch’io alla sua età pensavo a come sarei stato bene una volta raggiunta la pensione. Sognavo di fare viaggi, di visitare musei, di coltivare hobby... di studiare perfino. Ma erano tutte cose che potevo fare già allora, se solo lo avessi voluto. Ora che sono vecchio e ho tutto il tempo che mi serve, non ho più la forza... non ho più la voglia... il corpo invecchia e la sera si avvicina. Non rimane molto spazio per guardare avanti, è per questo che si guarda indietro.”

Le ultime parole mi trafiggono come una spada e immagino che la vita sia come un lungo corridoio pieno di porte ai lati e chiuso in fondo. Vedo quelle porte come le opportunità che ho avuto, che ho e che avrò. Basta entrare nelle stanze. Sono là, a mia disposizione, invece le ignoro tirando dritto verso un punto oscuro laggiù in fondo. Poi mi immagino vecchio, alla fine del corridoio. Non ci sono più aperture ai lati e i muri si avvicinavano stringendosi sempre più. Il muro di fondo è nero, anzi, sembra che non ci sia nemmeno un muro vero e proprio, ma un buco, un nulla nel quale finirò per precipitare. Allora mi volto a guardare tutte le aperture che ho trascurato, le opportunità che non ho colto, i misteri che non ho esplorato...

Abbasso lo sguardo verso terra. L’occhio coglie un piccolo movimento di lato, tra i sassi. La piccola formica, con la sua grande briciola di pane continua a muoversi ostinata un paio di metri più in là. Adesso la vedo bene, fra poco avrà raggiunto l’ingresso del formicaio animato da un via vai incessante di altre formiche simili a lei.

Guardo l’orologio: è quasi mezzogiorno e mi avvio verso casa.

 

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IORG

 

Iorg osservò il globo. Avanzava a velocità spaventosa verso il centro. Non era molto grande, una nana bianca di medie dimensioni, e brillava d’una luce strana.

L’ultima scintilla, l’ultimo punto di luce stava per scomparire fondendosi con la massa scura posta nel centro esatto dell’universo. Ancora un poco e...

 

Tornò con la mente a quando, eoni prima, era ancora normale, un essere come gli altri. Quasi come gli altri. Ricordava d’essere sempre stato preda d’una fame sconosciuta ed insaziabile. Fin da piccolo s’aggirava senza sosta tra gli oggetti di casa, curiosando tra i libri, spinto dalla smania di vedere, conoscere, capire. A quel tempo non sapeva ancora quale futuro gli era stato riservato.

“Ha lo sguardo intelligente.” diceva suo padre parlando con gli amici.

“È talmente curioso...” si vantava sua madre con le amiche, gli occhi brillanti e il sorriso sulle labbra.

Avevano ragione, ma nemmeno loro sapevano. Non potevano sapere, né intuire, accecati dall’orgoglio di quel figlio che frequentava la scuola senza alcuna difficoltà, che invece di giocare studiava. Mattina, giorno e sera studiava senza sosta.

Era il più bravo, ed era diventato un famoso scienziato. Il migliore, nel campo della cibernetica e della bioingegneria. Tanto avanti da essere considerato pazzo, quando alla fine aveva esposto le sue teorie ardite, il suo sogno inconcepibile. Ma non gl’importava: non s’aspettava che capissero. La sete che lo muoveva veniva prima di tutto. E dopo aver pensato, intuito e teorizzato, era passato alla pratica usando se stesso come cavia per il grande balzo.

La traslazione bioenergetica, come l’aveva battezzata, era la sua creatura, il frutto del lavoro di una vita, e toccava a lui sperimentarla per primo.

Così un giorno, miliardi di anni prima, era riuscito a trasferire la sua mente, il suo spirito, l’essenza di sé, in una bolla d’energia invisibile, impalpabile, libera. Aveva realizzato ciò che gli altri non osavano nemmeno pensare. S’era affrancato dal corpo, dalla materia stessa... ed era sparito.

Un successo strepitoso, ineguagliabile, che nessuno gli avrebbe mai riconosciuto. Ma non cercava la gloria, voleva solo il sapere, e quel cambiamento non era che un punto di partenza per nuove e più audaci esplorazioni.

La sua mente, non più ostacolata dai lenti scambi chimici, aveva acquistato improvvisamente la rapidità del fulmine e una capacità inesauribile. Nessun limite si frapponeva più tra lui e la conoscenza. Poteva vedere e imparare tutto.

Aveva cominciato studiando la vita dei suoi simili e lo sviluppo della sua razza fino al momento in cui, migliaia di anni dopo, si era estinta. Allora aveva deciso di fare un salto più grande e aveva cominciato a esplorare la galassia.

Ricordava bene la meraviglia provata di fronte a quella complessità, a quell’insieme sterminato di stelle e pianeti. Un lauto banchetto sul quale s’era gettato avidamente. Aveva visto nuove specie, molte simili alla sua, altre completamente diverse, altre ancora neppure descrivibili. Aveva spiato le vite di innumerevoli mondi, seguito il corso delle loro storie.

Poi era arrivato il giorno in cui anche la galassia aveva esaurito i propri misteri. Allora s’era avventurato in spazi remoti, verso altre galassie, con nuovi soli, nuovi pianeti, nuove anime. Le aveva viste nascere, vivere e morire. Aveva oltrepassato il tempo, lo spazio e la vita stessa dell’universo, aveva visto tutto ciò che c’era da vedere, imparato tutto ciò che c’era da imparare. Non rimaneva più nulla.

Nulla se non quel piccolo sole che stava avvicinandosi rapidamente alla fine.

 

Il globo accelerò sempre più, attirato dalla forza spaventosa dell’immenso buco nero che racchiudeva tutti gli atomi dell’universo. Attraversò lo spazio vuoto come una gigantesca cometa e di colpo sparì.

Anch’esso, ultimo frammento di materia, era stato inghiottito. Non era rimasto davvero nient’altro, a parte l’enorme buco nero, il buio e Iorg.

Rimase attonito. Aveva desiderato per tutta la sua lunghissima esistenza di conoscere ogni cosa, di svelare ogni mistero, di vedere ciò che agli altri era negato. E aveva avuto tutto questo. Ma proprio in quel momento, davanti all’oscurità che lo circondava, capì che era stato inutile. Aveva desiderato e ottenuto quel che voleva, eppure non era soddisfatto, la sua fame non era stata saziata. Perché? Cos’altro gli mancava?

Sentì dentro sé una stretta angosciante, e si rese conto di avere un altro desiderio. Piccolo, innocente, eppure impossibile da soddisfare.

Avrebbe voluto possedere di nuovo un corpo e avere sua madre vicino per potersi rifugiare nel suo grembo. Avrebbe voluto sentirsi avvolgere dalle braccia amorose e gustare le carezze sui capelli. Avrebbe voluto portarsi le mani al viso e abbandonarsi finalmente al pianto. Un pianto struggente e silenzioso.

 

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LA MATTINA DAVANTI ALLO SPECCHIO

 

“Il tema è: la mattina davanti allo specchio.” così ha detto il prof. “Breve, mi raccomando.”

Che ci vuole? penso. È un’esperienza di cui è facile parlare.

Faccio mente locale.

Dunque... questa mattina mi sono guardato allo specchio e...

Accidenti, non ricordo. Non ricordo affatto cos’ho visto. È possibile? Eppure ogni mattina... Mi concentro. Non è possibile che non ricordi cosa...

Niente! Niente di niente! Al diavolo, domani starò più attento. Sì, domattina sarà fatta.

 

Bip... bip... bip...

Emergo dall’oscura profondità della notte.

È ora di alzarsi, dico a Laura. Lei fatica più di me.

Trascino le gambe lungo il corridoio fino al bagno.

Flash! La lampada al neon, dopo un paio di timidi tentativi, esplode accecandomi. Non resisto, devo chiudere gli occhi. Solo qualche secondo. Nel frattempo mi avvicino al lavandino, apro l’acqua e...

Cazzo! Fredda, naturalmente, ma è così tutte le mattine, niente di nuovo. Mi lavo il viso, lo asciugo e prendo il prebarba, quello per la rasatura elettrica.

Ciaff, ciaff, eccomi prebarbato. Accendo il rasoio.

BZZZZZZZ...

Il rumore è terribile. Con la casa ancora immersa nel silenzio poi...

Mi rado con gesti meccanici. La guancia, il collo, l’altra guancia, il mento. Lo sguardo segue, nell’immagine riflessa, la posizione della testina. Controlla con occhi miopi eventuali zone rasate male. Un’altra passata, meglio. Ecco fatto! Adesso posso far tacere il maledetto.

BZZZZZZT!

Ah! Finalmente!

Mi chino sul lavandino per un’altra lavata. Asciugamano.

Dalla cucina arriva il borbottio della moka. La colazione. Bene! Interrompo le abluzioni. Terminerò dopo, altrimenti il caffé si raffredda.

 

Siedo e afferro la tazza. Mentre il profumo del caffé m’inonda le narici, un pensiero fuggiasco mi attraversa la mente. Cosa dovevo fare? Ah, sì, lo specchio...

Ma è solo un istante.

 

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RISTORANTE BUON APPETITO

 

Giorgio si girò verso il comodino: l’orologio segnava le tre e un quarto. Da quanto era sveglio? L’ultima volta che aveva guardato l’ora erano le due e venti, ma era già da un po’ che aveva gli occhi aperti.

Imprecò silenziosamente contro l’insonnia. Non gli capitava spesso di svegliarsi nel cuore della notte e non riuscire più a prendere sonno, e quando gli capitava…

Anche Anna dormiva male. La sentiva respirare pesantemente e rigirarsi di continuo, a tratti boccheggiando o emettendo deboli lamenti.

Di sicuro non aveva digerito.

Sarà stato quella specie di polpettone… pensò. eppure l’avevamo trovato tanto buono. Chi avrebbe detto che sarebbe stato così pesante?

Ne risentì in bocca il gusto speziato, un gusto che non aveva mai provato.

Alzò lo sguardo verso il soffitto lasciando che gli occhi si perdessero nella fitta rete d’ombre che la luce dalla strada proiettava attraverso le tende.

 

Quand’erano arrivati, al ristorante Oasi li aspettava un’amara sorpresa. Sulla saracinesca abbassata spiccava il cartello con su scritto chiuso per turno.

Anna lo aveva guardato con occhi stupiti e irritati al tempo stesso.

“Ma non avevi prenotato?”

“Veramente… pensavo che non ci sarebbero stati problemi. Chi immaginava che…”

“Sei sempre il solito. Mi porti fuori a cena una volta l’anno e non ti assicuri nemmeno che il ristorante sia aperto!”

“Va bene, hai ragione, colpa mia. Adesso ne cerchiamo subito un altro.”

“Sì, un altro. Sono quasi le dieci e oggi è lunedì. Scommetto che sono tutti chiusi.”

Povera Anna. Dopo tutto chi poteva darle torto? Come spiegarle che non aveva proprio avuto tempo per telefonare? Era davvero infuriata e lui doveva trovare una soluzione. Subito.

L’aveva seguita in silenzio mentre si dirigeva con passo svelto verso l’automobile. Proprio una bella figura aveva fatto! Ma non voleva che finisse in quel modo, così era montato in macchina e aveva cominciato a girare per i vicoli del centro poi più a nord, verso il fiume. L’aria era fredda e nel frattempo, quasi ci fosse stata una volontà maligna ad orchestrare il tutto, era scesa la nebbia. Non c’era nessuno per le vie della città, immerse in un’atmosfera irreale. Dopo un po’ di svolte a casaccio, si era reso conto d’essersi perso. Eppure conosceva la zona abbastanza bene. Si sentiva come una mosca nella tela: più s’agitava e più ne rimaneva impigliato.

 

Impigliato nelle lenzuola, che lo avevano avvolto nel suo dimenarsi immobilizzandolo.

Bestia d’una bestia di notte! Come cavolo farò domani in ufficio? Se non dormo almeno qualche ora sarò peggio d’uno zombie! Così dopo una nottata di merda dovrò anche passare una giornata di…

 

“Hai intenzione di girare ancora per molto?” era sbottata Anna.

Giorgio aveva incassato la testa tra le spalle, vinto.

“No, adesso torniamo a casa.” le aveva detto. Altro che anniversario di matrimonio! Non ricordava d’aver passato una serata così da almeno…

Ma quando stava per decretare la propria sconfitta invertendo il senso di marcia, indistinta tra la nebbia era comparsa un’insegna illuminata. Ristorante Buon Appetito diceva, Specialità esotiche.

“Ehi, hai visto? Un ristorante! Forse la serata non è ancora persa.” L’aveva detto con entusiasmo. La fortuna non l’aveva abbandonato del tutto.

Anna aveva risposto con una specie di grugnito, ma era già qualcosa, dopo quasi mezz’ora di silenzio totale.

Il parcheggio era deserto. Erano scesi dall’auto e si erano diretti verso l’ingresso, camminando a fatica su un abbondante strato di ghiaino che faceva risaltare ancor di più, col proprio rumore, il silenzio ovattato che li circondava.

“Strano,” aveva detto, “non ricordo d’avere mai sentito questo nome. Probabilmente è un locale nuovo.”

“Nuovo? Vedrai che sarà un’osteria o qualcosa del genere.” commentò acida Anna.

Era decisamente arrabbiata. Non sarebbe stato facile fargliela passare. Aveva pregato che quel locale non peggiorasse le cose.

“Beh, finché non entriamo non lo sapremo.” aveva risposto.

 

Accidenti! Gli pareva d’avere un serpente dentro alle budella. Si sentiva gonfio oltre misura e le bolle d’aria intestinali andavano qua e là infliggendogli dolori acuti.

Ma non era solo mal di pancia quello che sentiva. C’era dell’altro. Toccò la fronte col dorso della mano: era calda. Qualche linea di febbre.

Febbre! Ci manca solo la febbre. Non basta il mal di pancia!

Guardò la sagoma di Anna. Era girata su un fianco, verso la finestra. Respirava peggio di prima. L’aria emetteva, uscendo, piccoli gorgoglii. Ma almeno dormiva. Di sicuro aveva anche lei difficoltà di digestione, nonostante avesse mangiato molto meno…

 

Era entrato per primo tenendole aperta la porta. Il locale era piccolo e non prometteva granché. Cinque tavolini in tutto. Sul fondo, il banco del bar, proporzionato al resto. Dietro al banco, una signora di mezz’età piuttosto cicciottella intenta a lavare dei bicchieri.

Appena s’era accorta di loro gli era andata incontro sorridente.

“Giuseppe!” aveva chiamato quasi urlando. La voce era sottile ma piacevole, musicale.

“Vieni, Giuseppe, ci sono due clienti! Prego Signori, accomodatevi pure dove volete. Stasera non c’è molta gente.”

Precisazione inutile, aveva pensato.

Avevano appoggiato i soprabiti ad un attaccapanni in ferro battuto dirigendosi poi verso il tavolo vicino al caminetto, dal lato opposto all’ingresso. C’era uno strano silenzio nel locale, rotto solo dal crepitio della legna e dai loro passi. S’erano appena seduti quando dalla porta di quella che doveva essere la cucina era sbucato un uomo. Giuseppe: non poteva essere che lui. Di corporatura simile a quella della donna, anche se un po’ più alto, aveva gli stessi occhietti piccoli e distanti. Solo quando era giunto vicino al tavolo, la donna aveva parlato nuovamente.

“Lui è Giuseppe, il cuoco, e io sono Dora, sua moglie. È la prima volta che venite, vero?”

Aveva proseguito senza dar loro modo di rispondere.

“Offriamo un trattamento speciale ai nostri nuovi clienti. Giuseppe, diglielo tu.”

Il cuoco aveva estratto dalla tasca un cartoncino ripiegato.

“Con piacere, Dora. Ecco, questo è il nostro menu. Se volete potete ordinare da qui. Ma ai clienti nuovi suggeriamo di assaggiare una porzione di Buon Appetito: è la specialità della casa. Sono sicuro che la troverete molto particolare.”

Dora sottolineava le parole del marito con ampi sorrisi e occhietti ammiccanti, muovendo la testa su e giù.

Lui aveva guardato Anna sperando di scorgere un cenno di disgelo, ma si era accorto che non aveva nessuna intenzione di facilitargli il recupero della serata. Era chiaro che avrebbe dovuto fare tutto da solo portando sulle proprie spalle la responsabilità di un’ulteriore, pesante sconfitta. Così, rivolgendosi nuovamente ai gestori del locale, aveva detto: “Vada per la specialità della casa. Ne porti pure due porzioni. Per il vino faccia lei.”

“Bene. Vedrà che sarà soddisfatto.” aveva risposto gentilmente Giuseppe. Si era inchinato leggermente e poi, girando sui tacchi con leggerezza inaspettata, s’era diretto verso la cucina.

La donna invece era andata verso il bar, da dove era tornata poco dopo con una bottiglia di rosso.

“Che tipi strani,” aveva detto sottovoce Anna, “hanno un viso così particolare. Più che marito e moglie sembrano fratelli, tanto si somigliano.”

Beh, se non altro aveva ricominciato a parlargli. Segno che l’ambiente le piaceva e che l’arrabbiatura le stava passando. Doveva prendere la mano che gli aveva teso.

“In effetti hanno qualcosa di insolito. Quel viso paffuto ma allungato… e soprattutto gli occhi. Sono così piccoli e scuri e… brillanti. Però sono gentili. Sembrano due brave persone.”

“Già.” Speriamo che la loro specialità sia buona come dicono.

 

Anna s’era rigirata nuovamente. Si lamentava ma aveva gli occhi chiusi. Un brutto sogno, probabilmente, dovuto al mal di pancia che di certo tormentava anche lei. Sentiva il borbottio degli intestini di entrambi fare a gara nel rompere il silenzio della stanza. Allungò il braccio per sentirle la fronte. Anche lei era calda. Anzi, era molto più calda di lui. Ed era tutta sudata. Doveva svegliarla? Forse un digestivo le avrebbe fatto bene. E avrebbe fatto bene anche a lui, a dire la verità, ma si sentiva così stanco. Non aveva voglia di alzarsi…

 

E buona lo era davvero, la specialità Buon Appetito. Avevano portato due piatti molto larghi, quasi come quelli per la pizza. Su ognuno c’era una specie di tortino con un buco al centro. Stranamente, le due porzioni erano di taglia diversa: più grande per lui, più piccola per lei, quasi fossero proporzionate alla corporatura dei commensali. Sembrava un polpettone di carne e verdure, ma già dall’odore si capiva che non era un polpettone come gli altri. Non come quelli che conosceva, almeno. Sicuramente faceva uso di spezie che donavano all’insieme un aroma particolare. Ricordava benissimo le sensazioni che il primo boccone gli aveva dato. La carne morbida si scioglieva in bocca, amalgamandosi egregiamente con le verdure e con gli aromi e formando un tutt’uno dal sapore vagamente agrodolce. Un retrogusto leggermente piccante ed acidulo prolungava per un po’ i sapori del boccone appena ingoiato.

Avevano mangiato di gusto fino a ripulire completamente i piatti. Nessuno dei due però era stato capace di capire quali ingredienti dessero al cibo quel sapore così particolare. Erano sazi ma non appesantiti. Non avevano più fame e la cosa doveva essere molto visibile, visto che i gestori, dopo aver atteso per un po’, gli avevano portato direttamente il conto.

Giorgio si era stupito, ma non aveva detto niente. Era contento. Contento che la serata si fosse tutto sommato risolta per il meglio. Anna aveva riacquistato buon umore e ciarlava allegramente del più e del meno.

Così aveva pagato ed erano usciti nuovamente nella nebbia. Aveva guidato a naso, sperando in un colpo di fortuna che gli facesse ritrovare la strada di casa. Anna parlava e parlava, e per fortuna non si rendeva conto del passare del tempo. Alla fine, non ricordava come, aveva imboccato una via conosciuta e da lì avevano raggiunto in breve casa.

 

Un’altra fitta. Questa volta davvero dolorosa. Giorgio portò la mano sul fianco sinistro comprimendo leggermente l’addome. Cercò anche di piegarsi, assumendo la posizione fetale. Aveva letto da qualche parte che poteva servire, in caso di dolori addominali, a sentire meno male. Ma non ottenne risultati apprezzabili. Era madido di sudore e il pigiama gli si era appiccicato addosso. Sollevò la coperta per raffreddarsi.

La rete d’ombre sul soffitto aveva cominciato a tremare. No, era lui che vedeva le cose girargli intorno. Allungò la mano verso il comodino per prendere un fazzoletto, quando improvvisamente Anna lanciò un urlo agghiacciante. Si girò di scatto. La vide in controluce, inarcata e rigida. Appoggiava solo le natiche e il collo, e la schiena era sollevata di almeno dieci centimetri. Teneva la bocca spalancata, aspirando convulsamente in cerca d’aria. Le braccia erano tese e rigide lungo i fianchi, con le dita aperte a ventaglio.

“Anna! Anna!” urlò, ma non ottenne risposta. Cercò disperatamente l’interruttore della luce, ma azionandolo non ottenne nulla. Erano senza corrente! Com’era possibile? Avevano una pila, da qualche parte, ma non poteva perdere tempo a cercarla, con Anna in quelle condizioni. Doveva cercare di aiutarla, ma in che modo?

Ormai il suo respiro era poco più che un rantolo. L’orribile rantolo di una persona in punto di morte.

Morire!

Lo sentiva, non sapeva come, ma sentiva che Anna stava per lasciarlo. Disperato, tentò di scuoterla, di scoprirla, di aprirle la camicia da notte sul collo per farla respirare meglio, ma era come maneggiare un tronco contorto. Non c’era modo di spostarla da quella spaventosa posizione innaturale. Pensò allora di chiamare aiuto, anche se sapeva perfettamente che non l’avrebbe sentito nessuno. Urlò una, due, tre volte finché non riuscì a riprendere il controllo. Giusto in tempo per vedere Anna, la sua Anna, accasciarsi di colpo sul materasso. Sapeva cos’era accaduto ma la mente si rifiutava di credere ad un’assurdità simile.

Morta! La sua Anna era morta!

Perché? Perché stava capitando questo? Vacillò, la vista annebbiata, e s’accasciò sul cuscino, di fianco all’amata. Era debole. Tanto debole da non riuscire più ad alzarsi. Non poteva nemmeno fuggire, non poteva nemmeno andare a cercare aiuto. Non capiva perché, ma era certo che tutto avesse a che fare con quel ristorante strano e con quel piatto ancora più strano.

Erano stati avvelenati? Per quale motivo? Che cosa avevano fatto per meritarsi una morte così terribile? Un’altra fitta, ancora più dolorosa delle altre, partì dall’addome e si sparse per tutto il corpo, rendendolo un unico ammasso di carne dolorante. Cominciò ad incurvare la schiena. Non solo per il dolore. I muscoli si contraevano quasi fossero dotati di volontà propria. Stimoli dolorosi provenivano ormai da tutte le parti costringendo il cervello ad un impari lotta nel tentativo di ignorarli. La pazzia era alle porte. Si può impazzire per il dolore? Per un dolore continuo e penetrante, sfibrante, maligno, incomprensibile? Sì, si può.

Aveva gli occhi sbarrati e la schiena ormai contratta a formare un arco, proprio come poco prima la sua Anna. Se anche lui era ridotto in quelle condizioni, ormai non aveva molto… non gli rimaneva molto per soffrire. Era un bene o un male? Non sapeva dirlo. Tutto ciò che desiderava in quel momento era di uscire da quell’assurda gabbia di dolore indicibile.

Fu proprio allora che vide una specie di lampo ai piedi del letto. Forse stava morendo e cominciava ad avere le allucinazioni. Non dicono che le persone in punto di morte vedono cose strane, negate agli altri? Era un lampo di luce verdognola. Anzi, più che un lampo era un chiarore dovuto a strisce luminose parallele al pavimento. Sembrava che ci fosse nebbia, dentro la stanza, e che quelle strisce di luce la attraversassero venendone rifratte, disperse. In mezzo alla nebbia gli parve persino di vedere qualcos’altro. Forse qualche persona morta venuta a prenderlo per accompagnarlo nell’aldilà. Non era così che aveva letto in un articolo, una volta?

 

“Sei uno stupido, Garth! Non dovevi aumentare le dosi. Il protocollo parla chiaro. Un aumento dello zero virgola cinque per cento per ogni coppia di soggetti. O devo ricordartelo? Pensi che la sperimentazione clinica abbia più valore cercando di saltare i passi per arrivare prima al risultato? Adesso dovremo riprovare su altri due.”

Garth emise un suono gutturale. Era chiaro che aveva sbagliato, ma c’era bisogno di scaldarsi tanto? Lavorare con la dottoressa Thia non portava solo vantaggi, a quanto aveva modo di vedere. Questa volta s’era davvero arrabbiata.

“Dottoressa Thia,” disse in un sussurro, “non posso che darle ragione. Perdoni la mia sciocca iniziativa. Mi creda, pensavo di agire per il meglio.”

“Ah! Per il meglio, dice. Voi specializzandi siete tutti uguali! Venite nei laboratori di ricerca con l’idea di fare rapidamente carriera e pensate che le regole siano state messe lì apposta per essere infrante. Non sei il primo caso che mi capita. Sarò costretta a segnalare il tuo comportamento nel rapporto.”

“La prego, dottoressa, non lo faccia. Ormai sono più di sei mesi che lavoro con lei e non le ho mai dato motivo di lamentarsi.”

Thia scosse la testa e fece un lungo sospiro.

“Questo è vero. Non dovrei dirtelo, ma penso che tu sia uno dei migliori allievi che abbia mai avuto. È per questo che il tuo gesto mi fa imbestialire ancora di più.”

 

Giorgio era ormai agonizzante. Sentiva il dolore sempre più intenso, ma gli sembrava anche che provenisse da più lontano, come se si stesse allontanando da lui. O forse era lui che si allontanava dal dolore? Ma era tutto così confuso. Era accaduto tutto così rapidamente. Con uno sforzo enorme cercò di mettere di nuovo a fuoco i piedi del letto. La nebbiolina verde era ancora là. Anzi, adesso gli sembrava proprio di vedere delle ombre muoversi al suo interno. Che strani scherzi gioca la mente quando non può appigliarsi a niente di reale. Sembravano due persone, ma c’era qualcosa d’inquietante in quei lineamenti appena accennati.

 

“Va bene,” disse infine Thia non riuscendo a nascondere un sorriso, “per questa volta ti perdono. Dopo tutto capita di fare qualche errore. Anche ai migliori. E tu sei uno che la stoffa ce l’ha, per diventare uno dei migliori.”

Garth fece un leggero inchino.

“Grazie, dottoressa, le giuro che non accadrà mai più. Vedrà, d’ora in poi mi atterrò scrupolosamente ai protocolli.”

“D’accordo, d’accordo, Garth, chiudiamo qui l’incidente. Comunque non tutto è perduto. I dati che stiamo registrando torneranno utili più avanti. Dammi il tempo della femmina.”

“Un momento… ecco: venticinque cicli dalla prima reazione. Calcolando peso e corporatura, e trasformando secondo le equazioni di Parrant, equivarrebbero a tre cicli e mezzo per noi. Meglio della volta scorsa, mi pare.”

“Uhm… sì, non c’è male. E se ti fossi attenuto al protocollo sarebbe stato ancora meglio. Ma c’è ancora tanto da fare. Sono sempre più convinta che gli effetti collaterali possono essere controllati, se non eliminati del tutto. Il maschio?”

“Registro ancora una tenue attività cardiaca e cerebrale, ma non ne avrà per molto. Posso invitarla a cena, dopo? Ho una fame!”

La guardò con occhi languidi.

La dottoressa si voltò dall’altra parte cercando di nascondere il sorriso di soddisfazione. Non l’aveva mai invitata a cena, prima. E quello sguardo… Garth era un bell’esemplare di maschio e anche lei, nonostante fosse più vecchia di lui, non si presentava male. Chissà…

 

Giorgio sentiva che la vita stava per abbandonare anche lui, dopo che aveva già lasciato la povera Anna. Sarebbe stata una liberazione, anche se ciò che lo aspettava forse sarebbe stato peggio. Ma in quel momento voleva solo che il dolore cessasse e a quanto pare l’unico modo era quello di abbandonare il campo. Non ce la faceva più, ma sentiva che non sarebbe durato per molto. Era sempre più preda di un torpore anormale e doveva essere questo a giocargli brutti scherzi. Ma lui lo sapeva. Sapeva che le sue sensazioni erano distorte da una mente ormai sull’orlo dell’abisso. Così quando la nebbiolina si diradò e vide chiaramente cos’erano le due ombre, si sforzò assurdamente di piegare la bocca in un ultimo, delirante sorriso.

Là davanti, ai piedi del letto, vedeva due topi. Due enormi topi bianchi che squittivano amabilmente mentre il soffio di vita ch’era in lui stava per sfuggirgli. Poi notò un particolare, un piccolo particolare che trasformò il sorriso in una smorfia: avevano entrambi due piccoli occhi neri e brillanti.

 

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UNO DI QUEI GIORNI

 

 

(Nota: Il racconto è stato pubblicato sul n° 51 della Nuova Tribuna Letteraria)

 

 

Ho appena dischiuso gli occhi e già l’avverto. La mente è ancora intorpidita e già la sento.

Di mattina. Comincia di mattina.

Le persiane filtrano la luce dell’alba. È quella luce incerta che fatica ad entrare, mescolandosi al buio ancora denso e compatto della notte. Entra piano e si posa sui mobili, sul letto, per terra. I contorni, indistinti e sfumati, quasi m’impediscono di realizzare che sono proprio qui, a casa mia, nel mio letto.

Pian piano ritorno al presente, al reale. Devo alzarmi… andare al lavoro...

E stasera? Chissà, vedremo. Ma adesso è diverso. È uno di quei giorni in cui sento che non sono solo. Accanto a me c’è qualcos’altro. Un’aura indefinibile, una sensazione…

Mi sento disturbato. Anzi no, a disagio. Sì, mi sento a disagio. Sul principio è una percezione leggera, vaga, inconsistente. Però c’è, è lì con me. Me la sento addosso, velo impalpabile che mi ricopre. Allora mi chiedo cos’ho, cosa c’è che non va. Poi faccio colazione, come tutte le altre mattine, come se fosse una mattina qualunque. Caffè, dentifricio, vestiti e via, di nuovo dentro il lager. Meglio tuffarsi nel lavoro. Meglio. Però non riesco a lavorare bene, non ho la mente serena, perché sono sempre più inquieto, con quel mantello che m’avvolge e mi costringe. Fatico a muovermi, vedo confusamente chi mi sta davanti, non l’ascolto. Sono solo. E questo senso d’oppressione, questo indefinibile presagio d’un qualcosa che sta per accadere, diventa più forte, riduce la distanza e mi si appiccica addosso, aderente come una seconda pelle. Aderente a tal punto che la mia non respira più e comincio a sudare. Sudo per un nonnulla: un telefono che squilla, una voce indistinta che grida nel corridoio, un’immagine che mi passa nervosa davanti agli occhi, senza darmi il tempo di catturarla, esaminarla, capirla. Ombre che si muovono in pieno sole e mi seguono anche dove il sole non può arrivare. Mi giro, a volte, con gli occhi sbarrati. Non posso. Non posso vivere tranquillo. Non oggi. Vedo le facce sorridenti dei colleghi, degli amici. Sono maschere grottesche deformate da una realtà distorta, diversa da quella che sento, reale ma irraggiungibile, ad un passo da me.

Sono le cinque del pomeriggio. Il sole è già basso, ma non così tanto. Arrivo a casa esausto. Non ho fatto tutto quello che dovevo? Sì, forse l’ho fatto, ma non ne è rimasta traccia. L’irrequietezza che monta dal mattino è ormai pronta, pronta per partorire qualcosa che m’immagino funesto, orribile, immeritato. Sento che quest’idea inafferrabile sta per ghermirmi, sta per entrare concretamente nella mia giornata.

Guardo mia moglie con occhi appannati. Lei mi rimanda un’occhiata avvilita. È uno di quei giorni, lo sente, lo sa. Tace. Non potrebbe far altro. Non è possibile entrarmi dentro per una carezza, un tentativo di consolazione. Lo sa e sopporta. Domani. Domani sarà diverso, sarà come prima forse, ma oggi no, oggi è meglio lasciar perdere, lasciare che passi…

Così mi ritrovo nuovamente a letto. È buio e gli occhi aperti non possono vedere che il nero. Poi diventano uno schermo. Un piccolo schermo televisivo sul quale scorrono immagini che non m’appartengono. Le guardo distaccato, mentre sento che sta per esplodere, è vicina, è qui.

Eccola! È arrivata!

È una briciola di coscienza, nulla di più, ma è come un mare che mi travolge, mi sommerge, mi soffoca. Il pianto di milioni di persone m’inonda la mente, raggiungendone i meandri più profondi e oscuri. Sono sorpreso, stordito. Membra invisibili mi strattonano, mi respingono, mi calpestano… è una calca di menti cieche e ottuse in cerca d’una scheggia di luce… anche loro, come me.

Percepisco il tocco d’un mondo sconosciuto che per un momento, per un’infinitesima particella di tempo, mi sfiora. Poco distante c’è un universo cui appartengo ma che non so come raggiungere.

Eppure basterebbe… non so… la risposta è talmente vicina ma così inafferrabile… non ci riesco… è troppo difficile…

E allora lacrime silenziose scivolano sulle tempie, precipitando a fatica verso il cuscino.

Domani. Forse domani sarà diverso. Forse domani sarà più chiaro.

Lei respira lievemente al mio fianco. Sospiro e chiudo gli occhi.

 

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BEPPE CANAPPIA

 

M’avvicino alla scala. La ringhiera è sepolta dal gelsomino col verde occultato da un tappeto di stelle bianche. Il profumo mi raggiunge e m’avvolge in una nube eterea. Avanzo di un passo e mi sembra d’attraversare una porta, un sottilissimo varco che mi porta indietro nel tempo.

Beppe aveva un naso enorme.

Anzi, più che enorme era presuntuoso, sfacciato, devastante. Torreggiava sul volto equino in modo così evidente che sembrava fosse stato aggiunto in un secondo tempo. Era riconoscibile a parecchi metri di distanza: alto, magro e con quell’andatura ciondolante che lo faceva oscillare di qua e di là quasi fosse costretto ad equilibrare, col corpo intero, il peso della propaggine carnosa. Seguivi i movimenti del corpo man mano che s’avvicinava e nemmeno ti rendevi conto che lo sguardo, tuo mal grado, si spostava verso l’alto per finire appiccicato all’orribile escrescenza, sormontata da due occhietti neri e lucidi, scure capocchie di spillo, troppo minuscoli per essere notati. Eppure, guardando più attentamente, avresti scoperto che ti fissavano velati, rassegnati forse a non esser altro che insignificanti puntini, piccoli nei a contorno dello spropositato naso.

A dispetto della forma grossolana e sgraziata, però, l’organo possedeva una sensibilità unica, in grado di percepire, selezionare e riconoscere un odore dall’altro, una tenue fragranza appena accennata, gl’ingredienti d’ogni improbabile miscuglio. Questa strabiliante capacità compensava, in parte, la bruttezza fisica e come succede a volte in questi casi, Beppe ne aveva fatto motivo d’orgoglio. Cominciò per gioco a indovinare, con gli occhi bendati, ciò che gli mettevano davanti. Dapprima in modo sommario: un piatto di spaghetti, un mazzo di margherite… Poi sempre più dettagliato: il condimento di una pizza, l’essenza d’un profumo, un materiale strano o addirittura una persona…

Ben presto divenne l’attrazione del paese, quasi un fenomeno da baraccone: “Beppe, annusa questo… Beppe, vediamo se riconosci quest’altro…”

Riusciva quasi sempre, e allora si toglieva la benda con un gesto vigoroso, felice d’aver dimostrato una volta ancora la sua capacità. E rideva. Rideva a scatti, con la bocca schiusa a mostrare denti gialli e irregolari e gli occhi impegnati a scrutare la reazione degli spettatori. Ma il trionfo durava poco, il tempo d’un sospiro…

Non eravamo amici. Nessuno era amico di Beppe. Così, senza una ragione precisa. Forse per la voglia di tener lontano un fardello troppo pesante da sopportare a tredici anni. E l’evitarlo gli procurava ferite di certo dolorose quanto quelle inferte dalle battute sceme e indelicate o dalle risate aperte di noi normali. Allora piegava la bocca in un modo strano, una specie di sorriso abortito, prima di voltar la schiena e allontanarsi oscillando a testa bassa.

Eravamo ragazzi allora, e crudeli e insensibili come solo i ragazzi sanno essere. Poi diventammo adulti e il lavoro ci separò portandoci in città lontane dalla nostra Romagna. Lui fu assunto, non seppi mai come, da una fabbrica di profumi di Roma, io invece mi diressi a nord, verso Treviso. Da allora non l’ho più rivisto né ho sentito parlare di lui. Ancora oggi però, dopo tutti questi anni, ogni tanto, quando mi capita d’avvertire un odore pungente o un profumo intenso e particolare, il ricordo prende forma, si condensa e il suo naso è di nuovo lì, sovrastato dai piccoli occhi neri e tristi, al centro di un’immagine sospesa e inalterabile di com’eravamo allora.

 

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LA NAVE

 

Gli occhi del piccolo che ho di fronte mi scrutano curiosi. Allunga la mano esitante; non si fida ancora ma sente che non deve avere paura di me. Ha lo sguardo intelligente e mite: è proprio lui che cercavo. Ancora non lo sa, e non lo saprà per molto tempo ancora, che quest’incontro fortunoso gli cambierà la vita. Gliel’ha già cambiata. È il predestinato e nulla può sottrarlo al suo destino.

Verrà, verrà un giorno in cui mi guarderà con occhi diversi e pieni di stupore. Verrà il giorno in cui saprà la verità e sentirà il cuore sprofondargli in petto e la mente vacillare confusa. E quel giorno piangerò con lui, come lui, e non ci sarà nessun altro, al di fuori di noi, capace di sapere e di comprendere.

 

La mente oscilla, vibra e parte verso un tempo remoto. È accaduto tanti anni fa. Quanto, esattamente, non saprei dire, ma il ricordo è vivo, come se tutto si fosse appena concluso.

Il vecchio Ben se ne stava, come al solito, seduto sulla panchina al margine del parco alto, quello posto sul fianco della collina a nord e dal quale si vedeva tutta la città.

Quando mi sentì arrivare alzò la testa. Aveva uno sguardo strano. Sembrava sul punto di chiedere qualcosa, come se avesse una domanda urgente e lacerante alla quale solo io potevo rispondere e che soffocava a fatica ricacciandola all’interno, negli angoli più oscuri e nascosti.

Aspettai un suo cenno per sedermi.

Era buio ormai e le luci sottostanti, vibrando nell’aria fresca, disegnavano la solita, geometrica ragnatela. Lo guardai mentre aspirava, forse più con l’animo che con i polmoni, il fumo di un sigaro trovato chissà dove.

Ancora non sapevo cosa mi avesse spinto proprio là quella sera; ancora non sapevo perché, tra tante persone alle quali avrei potuto rivolgermi cercai proprio lui.

Lo conoscevo fin da quando, bambino, venivo al parco con mia madre, nelle giornate di bel tempo. Nessuno sapeva con esattezza chi fosse o da dove venisse. Era capitato lì per caso, tanti anni prima, e non se n’era più andato. Ricordo ancora quando, incantato dal lavorio abile delle sue mani, mentre intagliava un pezzo di legno, mi avvicinai a lui quasi senza accorgermene.

“Come ti chiami ?” chiesi.

Posò lo sguardo su di me e quasi mi punse con i suoi occhi neri, lucidi.

“Ben,” disse, “e tu ?”

“Alex.” risposi e non aggiunsi altro.

Avevo cinque anni allora, ma il fascino di quell’uomo, così misterioso e al tempo stesso così familiare, colpì irrimediabilmente la mia fantasia. Gli sorrisi e scappai via, senza sapere che quell’attimo mi avrebbe legato a lui per sempre.

Negli anni che seguirono, la nostra strana amicizia, fatta di silenzi più che di parole, di sguardi più che di azioni, sopravvisse ai miei problemi di bimbo prima e d’adolescente poi, sorretta dal suo tacito modo d’essere presente.

Quella sera, vent’anni dopo, mi stupivo ancora di come, in tanto tempo, non avessi mai cercato di sapere di più sul suo passato, sulla sua storia. Mi fidavo di lui istintivamente, e questo mi bastava. Aveva la rara capacità di leggermi dentro. Sapeva sempre cosa dire e lo faceva con poche parole, a volte solamente con uno sguardo o un gesto.

La luce fioca del lampione, accarezzandogli le spalle curve ma ancora poderose, lo avvolgeva, rendendo indistinti i profondi solchi del viso dovuti, oltre che all’età, a chissà quali vicissitudini. Aspirava dal sigaro con gesti lenti e misurati, socchiudendo gli occhi e spargendo poi il fumo in volute delicate che s’innalzavano pigramente fino a dissolversi nell’aria tersa della notte.

“E’ per domani mattina.” gli dissi bruscamente, irritato dal contrasto tra la sua calma e la mia inquietudine.

Continuò a fumare senza girarsi: muto, assorto, proiettato chissà dove.

“I tecnici del Centro hanno deciso di provarla.” aggiunsi.

Non c’era motivo che ne parlassi con lui. Ero certo che non sapesse nemmeno di cosa stessi parlando, ma sentivo che, come al solito, il suo intuito mi avrebbe stupito.

Un alito di vento fece ravvivare la brace del sigaro illuminando con riflessi rossastri le dita della mano chiusa a pugno.

Guardai giù, verso il fiume, oltre la città. Il grande spazio riservato al Centro Ricerche circondava l’enorme costruzione in vetro e acciaio.

Tutti sapevano che al suo interno era custodita la Nave; ormai la notizia era di dominio pubblico da quasi due anni. Mi chiedevo però quanti fossero a comprendere ciò che quell’oggetto avrebbe potuto rappresentare.

La Nave, com’era comunemente chiamata, era un’astronave precipitata sul pianeta trent’anni prima. Nessun segno di vita era stato trovato a bordo né nelle vicinanze del vasto cratere causato dall’urto. Il Governo decise di occultarla, attribuendo boato e cratere all’impatto di un meteorite di grosse dimensioni. La popolazione non era pronta ad un evento del genere, né lo sarebbe stata ancora per molto. E poi il suo studio avrebbe potuto fornire conoscenze preziosissime ed impagabili. Non era proprio il caso di pubblicizzare l’evento. Per questo fu creato il Centro: un complesso di laboratori che avevano l’unico scopo di studiare la provenienza e, soprattutto, la tecnologia di quell’apparecchio dall’apparenza così fragile, che la forza della caduta non aveva però minimamente segnato.

Gli animi di molti s’infiammarono. Finalmente avevano tra le mani uno strumento che avrebbe permesso loro di compiere il salto definitivo, che avrebbe regalato un vantaggio incolmabile nei confronti del Blocco Esterno. Finalmente il Blocco Interno avrebbe potuto schiacciare e sottomettere con facilità tutto ciò che stava oltre la zona di non ingerenza. Era del tutto irrilevante che la Nave fosse la prova dell’esistenza di una civiltà aliena.

Ma non tutti la pensavano così; per alcuni rappresentava invece la possibile apertura di un ponte tra le rive di un fiume mai attraversato prima, la possibilità di un balzo in avanti. Io, nel mio intimo, ero tra questi. E cominciai ad aspettare, paziente.

Quell’oggetto puro, lucido, perfetto, fu studiato, torturato, violentato, allo scopo di spiarne i recessi più segreti, custodi materiali dell’ingegno di menti lontane e sconosciute. Ma tutti gli sforzi naufragarono di fronte ad una tecnologia così diversa ed indecifrabile. Le menti più brillanti non riuscirono a carpire che poche briciole di quel sapere; ciò che bastava, forse, a farla volare. Erano più di sei mesi che gli studi s’erano arenati di fronte a quell’ermetico scrigno colmo di segreti. Non cera nient’altro che gli scienziati potessero fare, nulla che potessero sperimentare per saperne di più.

Alla fine, non restò che provare. Se non si poteva capire, forse l’esperienza diretta avrebbe svelato qualche particolare in più, quel tanto sufficiente per usarla. Nel bene e nel male. Bene per noi e male per gli altri, naturalmente.

Di settanta, due sembravano adatti e di quei due, fui scelto io. Non tanto per gli studi fatti o l’esperienza di pilota, quanto per il profilo psicologico, dissero. Solo un tipo freddo, controllato e fidato come me poteva...

Mi girai di nuovo verso Ben, tornando al parco, alla panchina, a noi.

“Credi che ci stiano guardando?” dissi quasi sottovoce. “Loro, intendo, quelli che l’hanno costruita.”

Alzai lo sguardo verso il cielo. Le stelle, nella stagione di mezzo, sembravano più vicine, più vive. Immaginavo strani esseri, davanti a misteriosi apparecchi, intenti a scrutare il nostro pianeta.

“No, credo di no.” rispose.

“Ascolta Ben, non dovrei parlarne, ma di te mi fido. Non sono ancora riusciti a provarlo, ma credono che la stessa energia in grado di muovere e proteggere la Nave possa essere utilizzata anche come arma. Non vogliono solo che provi a pilotarla, ma che oltrepassi la zona di non ingerenza e cerchi di sfruttarne la potenza contro gli Esterni.”

Cercai di vedere che effetto gli facevano quelle parole, ma non si mosse di un millimetro. Non mi aspettavo nulla di diverso. Non ero nemmeno certo che ciò che dicevo avesse un significato per lui. Non so perché ma continuai: “Ma non lo farò, non tenterò di usare la sua forza contro di loro.”

“Non lo farai.” disse Ben facendomi eco. Aveva un tono strano.

“Non è possibile distruggerla, non con quanto conosciamo almeno, e se mi rifiutassi di andare, il mio sostituto non esiterebbe un attimo a prendere il mio posto. No, devo farla sparire.”

“Sparire?” ridacchiò amaro tra colpi di tosse. “E dove vorresti farla sparire ?”

“Lassù,” dissi, indicando col dito lo sciame di soli lontani che ci sovrastava.

“Non pensi all’occasione che ti viene offerta? Diventeresti un eroe, da questa parte. Dopo tutto, se potessero, gli Esterni farebbero altrettanto.”

“Non posso. Sono sicuro che tanta perfezione non è stata creata per fare del male. Di certo chi l’ha costruita inorridirebbe di fronte alla nostra barbarie. Siamo troppo piccoli, troppo ciechi, legati così avidamente alle cause della nostra sofferenza.”

“Non potresti più tornare, lo sai.” disse con voce pacata, mentre mi fissava con occhi grandi e tristi.

Lo guardai perplesso. Adesso avevo la netta impressione che Ben sapesse esattamente di cosa stavo parlando. Anzi, sembrava che ne sapesse più di me, molto di più.

Esitò un attimo, diede una lunga tirata al sigaro poi, espirando il fumo con lentezza, alzò una mano e mi toccò la fronte.

Sentii un tocco caldo e gradevole, nonostante la pelle della mano fosse arsa e rugosa. Ebbi l’impressione che la sua pelle si fondesse con la mia e che la sua mano penetrasse all’interno della mia testa. Chiusi gli occhi istintivamente mentre un turbinio di fumo colorato mi riempiva la mente agitandosi e aggrovigliandosi fino a quando, d’improvviso, si dileguò come il vapore sul vetro d’una finestra, lasciandomi scorgere ciò che stava al di là.

Era una pianura desolata immersa in un’atmosfera giallognola. Attraverso la foschia intravidi la Nave appoggiata al suolo e poco distante un gruppo di esseri sconosciuti e minacciosi che s’avvicinavano velocemente correndo. No, forse è meglio dire saltando, anche se il movimento di traslazione, compiuto per mezzo di arti lunghi e sottili, avveniva in un modo difficile da spiegare. Era come se un polipo corresse sui tentacoli appoggiandosi ora su uno ora sull’altro, in un vorticoso sollevare e appoggiare d’estremità. Uno di loro precedeva il gruppo e da come correva pareva che fosse inseguito dagli altri. Lampi azzurri cercavano di fermarlo sfiorandolo ed infrangendosi sul terreno intorno a lui con secchi schiocchi di terra frantumata.

Ero sbigottito. Avevo la netta sensazione di vivere un sogno ad occhi aperti, ma tutto era così vivo e reale…

Alla fine l’essere che scappava entrò nella Nave. Non riuscii ad afferrare bene cosa accadde. Un istante prima il buco d’ingresso era ben visibile sulla fiancata e poco dopo, quando l’essere si era buttato all’interno con un balzo, il buco era scomparso. La fiancata era diventata liscia ed ininterrotta come tutto il resto della superficie. Lampi azzurri s’infrangevano contro il metallo venendone riflessi e dispersi con facilità. Poi, qualche secondo dopo, quella specie di uovo allungato e liscio si sollevò dal suolo e senza alcun rumore cominciò ad allontanarsi con tale rapidità che presto scomparve alla vista.

Il sogno cambiò. Vuoto, nero e solitudine cominciarono a penetrare dentro me avvolgendomi in un gelido abbraccio.

Le immagini scorrevano veloci, come se appartenessero ai miei ricordi e non a quelli, forse, dell’uomo che mi sedeva di fronte.

Stelle, vuoto, altre stelle. Per quanto tempo?

Infine vidi un piccolo pianeta azzurro che si avvicinava rapidamente. Il parco, freddo, neve, vento e fame. Poi il tiepido sole di primavera, i fiori e le foglie sugli alberi e un piccolo bimbo che si avvicina curioso.

Riconobbi in quel bimbo il fanciullo che ero. E d’improvviso capii.

“Tu ... sei ...” balbettai.

Annuì e tolse la mano dalla mia fronte. L’espressione del viso divenne meno tirata. Sembrava sollevato.

“La mia gente è come la tua, sempre pronta a combattersi, a sopraffare i propri simili. Ho dovuto strapparla dalle loro mani, così come aveva fatto il vecchio Nor, prima di me, con quelli della sua gente ed altri ancora prima di lui.”

Osservò il sigaro ormai ridotto ad un mozzicone.

”È la meravigliosa eredità d’una razza ormai estinta. Può aiutare a progredire, ad avanzare, ma solo se usata giustamente. È nostro compito impedire che mani sbagliate la profanino. Dobbiamo cercarle un popolo adeguato al quale possa svelare i segreti che racchiude.”

“Ma gli esseri che ho visto sono diversi da te e da me!” dissi cercando un appiglio per non credere a quanto stava accadendo.

“E’ vero, ma lei nasconde le mie vere fattezze, così come nasconderà le tue.”

Girò la testa dall’altro lato e aggiunse piano: “Se credi giusto quello che pensi, fallo.”

Rimasi in silenzio. Solo in quel momento mi resi conto di quanto avesse sofferto e di quanto avrei dovuto soffrire io se avessi deciso di seguire la sua strada.

Non occorrevano più parole, né gesti, né altro.

Mi alzai e andai alla vecchia fontana in pietra. Bevvi adagio dalle mani chiuse a cucchiaio, assaporando con tutti i sensi l’acqua gelida di fonte. Poi m’incamminai senza fretta sul sentiero che portava al parcheggio.

Un’ora dopo ero davanti a lei. I riflettori illuminavano a giorno l’area di decollo. La guardia mi ispezionò con diffidenza. Ero noto al Centro, ma presentarsi lì a quell’ora era tutt’altro che normale. Riuscii a convincerla che si trattava solo di un ultimo controllo: dopo tutto ero io quello che l’indomani avrebbe tentato di farla volare. Mi lasciò entrare poco convinto. Sentivo i suoi occhi incollati alla schiena.

Era là, appoggiata su un carrello costruito su misura. Sembrava davvero un uovo: un luccicante uovo di metallo dorato lungo una decina di metri e alto sei. Non aveva nulla che spezzasse la continuità della superficie. Nulla a parte l’oblò d’ingresso: un’apertura ellittica alta un paio di metri e larga sì e no ottanta centimetri che ne interrompeva il fianco più o meno a metà. Sembrava disegnata. La superficie esterna s’incurvava verso l’interno e non c’era niente che assomigliasse ad un portello, una paratia o semplicemente ad una cerniera. Niente. Ed era sempre stata così, per quanto ne sapevo. L’avevano trovata così, trent’anni prima e così era rimasta a dispetto di tutti gli strumenti utilizzati per cercare di ferirla.

Le diedi un’occhiata da cima a fondo, poi mi fissai sull’interno. Fu in quel momento che cominciai ad avvertire una specie di ronzio in testa. Non era fastidioso. Anzi, più che un ronzio era una vibrazione. Una vibrazione sommessa ma continua che aumentava o diminuiva a seconda che mi concentrassi sull’interno o che invece facessi scivolare lo sguardo di nuovo verso l’esterno. Non avevo mai avvertito una sensazione così. Era lei che mi stava parlando? Cercava di comunicare con me?

Con un balzo entrai nell’apertura, mentre il soldato gridò un “Hei! Si fermi!” allarmato e cominciò a correre verso di me.

Mi girai verso di lui ma non lo vidi per molto. Il metallo si animò di vita propria e l’apertura sparì separandomi dall’esterno.

Buio. Mi trovai completamente al buio. Dannazione, se almeno avessi una pila! Come ho fatto a non…

A quel pensiero le pareti cominciarono ad illuminarsi. Era una luce soffusa, senza un’origine precisa. Tutta la Nave si stava illuminando per permettermi di arrivare alla cabina di pilotaggio.

Anche se sapevo che ormai ero isolato dall’esterno e che niente e nessuno avrebbero potuto fermarmi, sentivo di dover fare in fretta, di voler fare in fretta. Qualche passo e arrivai nel piccolo vano di comando. Mi ero sempre chiesto che dimensioni avesse il pilota per il quale era stata costruita; di certo doveva essere molto piccolo per potersi muovere agevolmente in uno spazio come quello. Entrai goffamente urtando con i gomiti contro le pareti laterali. L’ambiente era vuoto e spoglio ad eccezione di un paio di leve poste vicino al pavimento a ridosso della parete di fondo. Secondo gli studi fatti era con quelle che si poteva governare la Nave. Ma osservandole sentii un tuffo al cuore. Non avevo con me il computer di manovra preparato dai tecnici del Centro. C’erano voluti mesi per programmare il modulo di realtà virtuale che avrei dovuto indossare il giorno dopo durante il collaudo. Sul visore mi sarebbero stati proiettati, nella sequenza giusta, tutti i movimenti necessari, ammesso che fossero serviti a qualcosa. Ma senza quello, non possedevo che piccoli frammenti di conoscenza e non potevo certo muovere le leve a caso! Ragioni di sicurezza, avevano detto. Solo all’ultimo minuto e non prima!

Ma come potevo essere stato così stupido? Mi maledissi ad alta voce. Il mio viaggio era finito ancor prima di cominciare. Adesso sarei dovuto uscire da lì, sempre che ne fossi stato capace. E di certo la guardia all’esterno aveva già dato l’allarme. Non l’avrei passata liscia. Ero stato davvero uno stupido ed avevo rovinato tutto. Scossi la testa sconsolato. Era inutile aspettare oltre. Feci per girarmi indietro ma con mio grande stupore mi accorsi di avere i muscoli del collo completamente bloccati. Una scarica di adrenalina mi attraversò tutto il corpo facendomi vibrare di paura. Tentai nuovamente di forzare i muscoli, ma più li forzavo e più s’indurivano. Poi accadde qualcosa che mi fece sprofondare nell’angoscia più cupa. Il mio corpo cominciò a muoversi indipendentemente dalla mia volontà. I muscoli delle gambe si piegarono facendomi inginocchiare sul pavimento, poi la schiena si piegò in avanti e così le mani, che andarono ad afferrare le due leve di comando. Cercai invano di sollevarmi. Ero una mente scollegata dal proprio corpo e completamente in preda al terrore più cieco. Perché? Perché mi stava capitando una cosa del genere? Ben non mi aveva detto nulla di tutto questo. In breve mi trovai letteralmente sdraiato sul pavimento. Avevo gli occhi sbarrati e il vano di comando sembrava essere diventato ancora più piccolo di prima. Pensai ad un effetto ottico dovuto alla posizione, ma ben presto mi accorsi che era tutt’altro che un’impressione. Ripensai, con accresciuto terrore, a come il metallo dello scafo si fosse animato chiudendo l’apertura d’ingresso. E ora si stava nuovamente muovendo e mi si stava chiudendo addosso. Urlai con tutto il fiato che avevo in corpo. Dio, che mostruosità. Mi sentivo soffocare. Vedevo le pareti avvicinarsi sempre più fino a quando non furono a pochi millimetri dal mio corpo, dalle mie mani, dal mio viso. “No, noooo!” gridai disperatamente, ma l’urlo mi fu ricacciato in bocca dalla parete che mi si appiccicò sul viso e su tutto il resto seguendo ogni curva, ogni anfratto, ogni increspatura, come una seconda pelle.

Pensai che di lì a poco sarei morto soffocato e senza la possibilità di muovere neanche un mignolo.

Ma fu proprio in quel momento che un’onda di tranquillità mi pervase. Sì, proprio un’onda: non saprei descriverla in nessun altro modo. Sentivo il corpo che si rilassava e così anche la mente. Mi accorsi che potevo respirare normalmente, o meglio, che non avevo affatto bisogno di respirare. Ero morto? Sì, pensai proprio di essere morto. Così era quella la vita oltre la vita…

Ma la sensazione di tranquillità passò ben presto in secondo piano. Uno strano lampo colpì i miei centri visivi come se mi avessero proiettato in faccia un fotogramma di un film. Poi un altro lampo e un altro ancora. Le immagini si susseguirono, mutarono, si accavallarono sempre più velocemente fino a quando non vidi chiaramente un altro me che giaceva immerso nel metallo della nave. Riuscivo contemporaneamente a vedere l’intera figura e nello stesso tempo i dettagli più minuti. Osservai i punti d’unione del metallo con le mie fibre. Gli atomi della Nave si confondevano con quelli del mio corpo, del mio cervello… Io ero diventato lei e lei era entrata in me. Mi ci volle un po’ per capirlo ma non appena afferrai il concetto, l’immagine cambiò, come se fosse ripresa da una telecamera che si allontanava da me e dalla nave stessa. Adesso ero all’esterno. Il mio punto di vista si era spostato una decina di metri fuori dalla nave e sopra di essa. Vedevo chiaramente l’area di decollo e l’uovo dorato attorniato da decine di soldati e tecnici in camice bianco che si agitavano tutt’intorno come formiche impazzite. Non so perché ma sorrisi, o almeno immaginai di farlo. Avevo capito. La Nave stava entrando in comunicazione con me. Era così che potevo manovrarla: fondendomi con lei. Pensai di sollevarmi e mi trovai qualche metro sopra le teste degli uomini. Pensiero, ecco cosa serviva. Si era sollevata senza il minimo sforzo, senza la più piccola vibrazione ed ora galleggiava a qualche metro dal terreno. Chiesi mentalmente di poter vedere meglio e come d’incanto ogni centimetro di metallo diventò trasparente, permettendo al mio sguardo di spaziare tutt’intorno.

E mentre io osservavo il mondo da quella nuova prospettiva, lei parlava con gli anfratti più remoti del mio subconscio e mi trasmetteva informazioni, raggiungendo tutti i livelli di coscienza. Scoprivo, secondo dopo secondo, di possedere capacità mai sospettate, di sapere cose mai sapute, come se fossero sempre state dentro me e solo ora me ne rendessi conto.

Lasciammo la Terra in una frazione di secondo. Sostai un poco fuori dall’atmosfera: un ultimo saluto, prima di partire verso il cuore della galassia. E poi via. Un tuffo nel buio più buio, attraverso il nulla.

Sapevamo dove andare. La prossima tappa era già segnata. Durante il lungo viaggio imparai tutto quello che dovevo sapere. Ben aveva detto il vero. Era l’eredità di una razza estinta da millenni. Un’eredità che non doveva essere lasciata in mani indegne. Era destinata a vagare da un mondo all’altro, fino a quando non avesse trovato una civiltà che fosse degna di appropriarsi della sua conoscenza, la conoscenza accumulata in milioni d’anni da esseri ormai scomparsi. Ma per vagare aveva bisogno d’un pilota, un compagno che si fondesse con lei e la completasse, permettendole di spostarsi e raggiungere nuove mete.

Quanti Ben c’erano stati prima di me? E quanti Alex sarebbero venuti dopo? Ero solo un atomo nella lunga catena di trasmissione di quella conoscenza. Un atomo e nulla più. Ma ne ero fiero, e avrei fatto il possibile per essere all’altezza di quelli che mi avevano preceduto.

 

Non ho più rivisto Ben, naturalmente, né ho rivisto il parco, la città e tutto il resto.

Gli occhi del piccolo alieno che ho di fronte, vedono ora un essere simile a lui. Non hanno paura, sono intelligenti, curiosi e buoni.

Capirà anche lui, un giorno.

 

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Racconti per bambini


 

SPAZZATURA

 

 «…così, circa centoventi milioni di anni fa, i Morgoth si estinsero.»

Il maestro Devios scrutò davanti a sé per saggiare l’effetto di quelle parole. L’aula era gremita come al solito e, come al solito, più di qualche alunno bisbigliava col compagno a fianco. Avrebbe dovuto dar loro una bella strigliata, e prima o poi l’avrebbe fatto. Non poteva permettere che un branco di piccoli…

«Maestro!» gridò uno sulla sinistra.

Devios si voltò da quella parte e lo individuò.

«Maestro… ehm, sono l’alunno Jebba.»

«Sì, sì, Jebba, so chi sei. Che c’è?»

«Ecco… questa storia dei Morgoth… è provata scientificamente? Voglio dire, sono esistiti veramente?»

Devios sollevò il capo di scatto.

«Cosa?! Ma dico, pensi forse che mi paghino per raccontarvi fesserie? Certo che è una storia vera.»

Lo sbotto del maestro aveva riportato il silenzio nell’aula.

«Naturalmente le loro esatte fattezze, le loro abitudini di vita e tutto il resto sono ipotetiche. Centoventi milioni di anni non sono uno scherzo, e di loro non è rimasto praticamente nulla.»

«Ma allora…» cominciò Jebba.

Devios lo interruppe. Sapeva già cosa Jebba avrebbe chiesto. Quante volte aveva sentito quella domanda?

«Allora come possiamo dedurre tutti questi particolari su di loro? È questo che vuoi sapere?»

Jebba annuì.

«Ci stavo arrivando. Se solo mi lasciaste finire di parlare una volta tanto. La verità è che tutti i dati di cui disponiamo sono stati ricavati da alcuni reperti fossili risalenti a poco più di cinquanta milioni di anni fa. Chi mi sa dire cos’accadde cinquanta milioni di anni fa?»

«Io lo so!» gridò un alunno poco distante da Jebba, che gli lanciò un’occhiataccia. «A quell’epoca comparvero i Flaren.»

Tirò fuori un paio di pupazzetti colorati e li sollevò in aria mostrandoli orgoglioso.

«Sììì! I Flaren! I Flaren!» si unirono in coro gli altri.

Decine di pupazzetti di varie dimensioni spuntarono come fiori tra i banchi.

«Basta! Basta!» urlò Devios. «Mettete via immediatamente quei giocattoli. Siamo in una scuola, non in un parco giochi!»

I pupazzi scomparvero rapidamente così com’erano apparsi.

«Esatto Livel, esatto. Ti chiami Livel, vero?»

«Sì, maestro.»

«Bene Livel, vedo che sei più preparato del tuo compagno Jebba. Mi sai dire anche per quanto tempo vissero i Flaren?»

«Io… be’… ecco, veramente non saprei, maestro Devios,» rispose Livel imbarazzato.

Jebba sghignazzò a testa bassa.

«Non importa, Livel,» disse Devios. «Te lo dirò io. I Flaren si estinsero circa quaranta milioni di anni fa. Vissero cioè per circa dieci milioni di anni. Un periodo piuttosto breve, se consideriamo la media. La nostra razza, per esempio, esisteva già quando i Flaren erano ancora agli albori e, come vedete, siamo ancora qui. Però abbiamo avuto un’evoluzione più lenta. La natura è stata indulgente con noi. Ci ha permesso di progredire senza fretta, e questo è stato un bene. Abbiamo avuto il tempo di adattarci all’ambiente che ci ospita, non abbiamo tentato di modificarlo per renderlo adatto a noi. I Flaren invece hanno avuto uno sviluppo rapido, troppo rapido. Ora, dovete sapere che il nostro pianeta è come un immenso organismo, e possiamo considerare ogni essere vivente come una cellula di questo organismo. Ogni cellula fa la propria parte in armonia con le altre, ma ditemi, se alcune cellule crescessero troppo rapidamente, cosa accadrebbe?»

Jebba e Livel si alzarono di scatto.

«Si forma un tumore!» urlò Jebba un istante prima del rivale.

«Bravo. Hai detto bene, si forma un tumore. E qual è la caratteristica principale di un tumore?»

Jebba rimase perplesso. Si grattò la testa.

«Si espande a spese delle cellule sane,» rispose gongolante Livel, «fino a quando l’organismo muore.»

«Appunto. Non trovate che sia un comportamento stupido? È un suicidio bello e buono, non credete?»

Un mormorio di consenso si levò dagli allievi.

«D’altra parte, non si può pretendere che un tumore dia una qualsivoglia prova d’intelligenza.»

«Ma i Flaren erano intelligenti,» ribatté Jebba. «Lo dimostrano i…»

«Lo so, ragazzo, lo so. Avevano sviluppato una certa tecnologia. Primitiva, inaffidabile, inefficiente, ma l’avevano. Ti riferisci a quella?»

«Sì, maestro.»

«Be’, caro Jebba, risponderò ricordandoti che anche nel corso della nostra lunghissima storia ci sono stati periodi più o meno tecnologici, ma l’intelligenza, quella vera, è un’altra cosa, non si misura dal grado tecnologico. Potrei, a sostegno di questa tesi, citarti almeno una dozzina di esempi, ma non c’è tempo. Quindi non divaghiamo e torniamo ai nostri Flaren. Abbiamo detto che si svilupparono come un tumore, ma lo sviluppo rapido e incontrollato non fu l’unica causa della loro scomparsa. Ci fu un altro elemento che giocò in loro sfavore. Erano esseri giganteschi, se rapportati a noi, e in quanto tali abbisognavano di spazi smisurati e di quantità incredibili di cibo, acqua ed energia. Il nostro pianeta è immenso, ma non ha risorse illimitate. E c’è mancato veramente poco, proprio quaranta milioni di anni fa, che non soccombesse per causa loro. Fortunatamente, andò tutto bene. I Flaren saccheggiarono la dispensa, per così dire, ma per quanto consumarono, produssero anche rifiuti. Quantità spropositate di rifiuti. Ne produssero talmente tanti che il pianeta divenne un’immensa pattumiera. L’equilibrio biologico mutò di conseguenza, ma i Flaren non riuscirono ad adattarsi a quei cambiamenti che loro stessi avevano provocato. Non erano come noi, non erano capaci di adattarsi all’ambiente, perché avevano sempre adattato l’ambiente ai loro bisogni, e così…» inspirò a fondo e assunse un’aria grave, «si può senz’altro affermare che furono uccisi dalla loro stessa spazzatura.»

«Spazzatura… uccisi dalla spazzatura…» borbottò Jebba.

Gli alunni guardarono il maestro con occhi vitrei, paralizzati dalle immagini evocate dalle sue parole.

In quel mentre suonò la campanella e si scatenò il caos. Jebba, Livel e gli altri si precipitarono vocianti nel corridoio sotto lo sguardo sconsolato del maestro.

Devios sospirò e sorrise tra sé. Erano giovani, molto giovani. Non poteva pretendere che si comportassero in modo diverso.

Fece vibrare le antenne e si lisciò con le zampe il corpo nero e lucido.

 

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SEI SOLO UN PO' STORTO

 

Guardai fuori dal finestrino posteriore. C’è molto traffico alle sette del pomeriggio e attraversare la città non è uno scherzo. Ma non era quello che mi interessava. Di lì a poco avrei finalmente conosciuto Niccolò e ogni minuto di ritardo mi sembrava un’ora.

«Quanto manca?» chiesi a mio padre.

«Poco, poco.»

«Hai detto così anche prima. Non puoi essere più preciso?»

Imprecò contro un’auto che gli si era infilata davanti tagliandogli la strada.

«Non lo so, con questo traffico ci vorranno altri dieci minuti,» disse infine.

Era stanco, e gli ero molto grato per il fatto che mi stava portando da Niccolò.

 

 

C’eravamo conosciuti tramite Internet. Mio padre mi aveva fatto vedere come parlare con altre persone pur rimanendo a casa: una cosa divertente. Mi ero inserito in un canale in cui si parlava di fumetti e di cartoni animati e con mia sorpresa avevo scoperto che, tra tutti gli adulti che parlavano di collezioni, di fiere e di personaggi che non avevo mai conosciuto, c’era un bambino come me. L’avevo capito perché continuava a fare domande sui cartoni televisivi senza che gli altri lo degnassero di una risposta.

Timidamente, gli avevo chiesto quanti anni aveva, e lui mi aveva risposto che ne aveva dieci.

“Grande!” avevo pensato. “Ha la mia età.”

Gliel’avevo scritto e così era cominciata la nostra amicizia.

 

 

All’improvviso sentii come un senso di angoscia, una stretta al petto. Non capivo da dove arrivasse e perché. Mi guardai attorno confuso.

«Papà, forse è meglio se ci andiamo un’altra volta da Niccolò.»

«Cosa?! Ma se siamo quasi arrivati! E poi cos’è questo cambio d’idea?»

«Non lo so… forse dovevamo conoscerci meglio, parlare di più…»

«Ma va’, che sciocchezze stai dicendo? Sono più di due mesi che non fai che parlare di lui. Niccolò di qua e Niccolò di là. Niccolò mi ha spiegato l’esercizio, Niccolò mi ha aiutato a fare la ricerca… Non siete diventati amici?»

Certo che eravamo amici. Anzi, forse era il mio più grande amico. Ma come potevo spiegare a mio padre l’agitazione che mi aveva preso all’improvviso? I grandi non capiscono certe cose. Per loro quello che facciamo noi bambini è tutto facile, tutto semplice. Invece…

Era meglio lasciar perdere. Se avessi insistito si sarebbe innervosito più di quanto non fosse già.

 

 

A Niccolò non piaceva parlare di sé. Sapevo solo che aveva i capelli castani e gli occhi azzurri. Discutevamo dei nostri interessi, della scuola, dei compiti e dei cartoni, ma parlavamo poco delle nostre famiglie o di noi stessi.

La sua famiglia era povera. L’avevo capito perché, quando parlavamo su Internet, ci metteva un sacco di tempo a rispondermi. Probabilmente aveva un computer vecchio e suo padre non aveva i soldi per comperargliene uno nuovo e più veloce. Ma non m’importava. Anzi, quei momenti che trascorrevo in attesa della sua risposta mi piacevano.

Niccolò era molto intelligente, e non dava mai risposte scontate. Così ogni volta mi chiedevo cosa mi avrebbe scritto. Cercavo di immaginare il suo pensiero prima che comparisse sul monitor, ma non ci riuscivo mai, e leggendo ciò che scriveva, avevo spesso la sensazione che fosse più grande di me.

 

 

«È possibile che un bambino della mia età sia più maturo di me?» chiesi a mio padre che, attraversato il centro, guidava con più calma.

Aggrottò la fronte e mi lanciò un’occhiata dallo specchietto retrovisore.

«Be’… sì, è possibile. Non tutti ci sviluppiamo allo stesso modo e negli stessi tempi.»

Avevo fatto una domanda sciocca. Bastava che pensassi a quel cretino di Oscar: altro che quinta elementare! In seconda dovevano rimandarlo!

«Perché me lo chiedi?»

«Niente, niente.»

Mi buttai sul sedile guardando i palazzi che scorrevano oltre il vetro. Li guardavo ma non li vedevo. Avevo la testa da un’altra parte. Pensavo a come poteva essere Niccolò, e la sua casa, e i suoi genitori.

Eravamo vicini ormai.

«Ecco,» disse mio padre, «dovremmo essere arrivati. Niccolò dovrebbe abitare in quel palazzo dietro il distributore.»

Cercò un parcheggio e fermò l’auto.

Quando fummo davanti al portone, non potei fare a meno di alzare lo sguardo. Il palazzo era di sei piani, piuttosto vecchio ma ben tenuto. Non sembrava uno di quelli che si vedono in certi quartieri popolari. Anche il pannello in ottone dal quale spuntavano i campanelli era in buono stato.

«Munari…» borbottò papà mentre scorreva col dito i nomi sul pannello. «Eccolo qui. Munari Ing. Paolo. Accidenti!» esclamò, «Niente di meno che un ingegnere!»

L’agitazione che covavo sembrò sussultare, dare gomitate, farsi largo tra i miei visceri. Dunque non era una famiglia povera, c’era da scommetterci. Inspirai a fondo mentre lo guardavo premere il bottone e parlare al citofono.

Lo scatto della serratura del portone mi fece sobbalzare.

«Andiamo,» disse, «abitano al quarto.»

Poi mi appoggiò una mano sulla spalla e mi spinse dentro.

«Ehi! Cos’è quella faccia? Non sei contento di vedere il tuo amico di persona?»

Non risposi. Qualcosa non quadrava, ma non riuscivo a capire cosa.

Mio padre si diresse verso le scale, ignorando l’ascensore. Cominciammo a salire lentamente senza parlare. Ascoltavo i nostri passi ripetersi cadenzati, ipnotici, e non avevo il coraggio di guardare in alto, verso i pianerottoli superiori.

«Buona sera,» disse una voce di donna all’improvviso.

Alzammo lo sguardo. Una bella signora, appoggiata alla ringhiera due rampe più su, ci salutava con la mano e un sorriso dolce. Probabilmente era la signora Marta, la mamma di Niccolò. Sì, non poteva essere che lei.

«Buonasera,» rispose mio padre. «Fra poco ci siamo. Se sapevo così, avrei preso l’ascensore.»

«E sì, se non si è abituati…» rispose la donna.

Meno di un minuto e le eravamo già davanti. Sbirciai attorno, ma non vidi alcun bambino.

«Lei è la signora Marta?» chiesi.

«Sì, sono io. E tu sei Stefano, vero?»

Parlava in un modo strano, delicato e affascinante. Di certo era una mamma buona.

Annuii ricambiando il sorriso che mi stava regalando.

«Niccolò?» chiesi timidamente.

«È dentro. Ti aspetta in camera sua.» Poi, rivolta a mio padre: «Benedetti bambini, tutto il giorno davanti al computer…»

«E già,» concordò mio padre. Doveva essere imbarazzato anche lui, altrimenti avrebbe attaccato con il suo: «quand’ero giovane io…»

«Prego, entrate,» disse lei indicando la porta alle sue spalle.

Papà entrò per primo, poi entrai io e per ultima la mamma di Niccolò.

Chiuse piano la porta e si chinò verso di me prendendomi le mani.

«Così tu sei il grande amico di Niccolò,» sussurrò. «Mi parla spesso di te, sai? Sei proprio un bel giovanotto. Non hai voglia di vederlo?»

«Certo signora,» risposi titubante.

Niccolò non si stava comportando per niente bene. Al suo posto io sarei sceso in strada ad aspettarlo. E lui invece? Nemmeno si degnava di uscire dalla camera! Va bene che al computer c’ero affezionato anch’io, ma in un’occasione come questa…

«Vieni,» disse lei prendendomi per mano.

Il corridoio era illuminato da un paio di lampade fioche. In fondo, sulla sinistra, c’era una porta socchiusa dalla quale filtrava una lama di luce. Doveva essere la camera di Niccolò.

C’era un buon odore nella casa. Un odore di pulito e di fresco. Forse proveniva dai fiori che riempivano un grande vaso in mezzo al tavolino di fondo. Eppure l’ansia che mi attanagliava non sembrava diminuire, anzi…

La madre di Niccolò mi precedette tirandomi con sé e io la seguii in silenzio.

«Niccolò,» disse mentre apriva la porta, «è arrivato Stefano!»

Entrò nella stanza e si fece da parte lasciandomi sulla soglia.

Guardai dentro in cerca di Niccolò e…

Rimasi pietrificato.

Fu come se mi avessero dato un calcio nello stomaco. Mi si bloccò il respiro e sentii le forze venire meno. Istintivamente mi appoggiai allo stipite, cercando di fermare la stanza che ad un tratto s’era messa a girare attorno a me. Vedevo ogni cosa distorta, appannata...

Niccolò era vicino ad un tavolo in prossimità della finestra. Ed era… era su una sedia a rotelle!

Mi sembrava di vivere in un incubo. Strizzai gli occhi diverse volte, sperando che quel gesto potesse far tornare le cose alla normalità, ma lui era sempre lì. Era seduto scompostamente. Sembrava un manichino al quale un burattinaio cattivo avesse annodato i fili a caso, per dispetto, facendogli assumere una posa innaturale, disumana.

Non so quanto tempo impiegai a riprendere fiato, ma né lui né sua madre fecero niente. Aspettarono solo che mi riprendessi.

“Non è giusto! Non è giusto!” pensai.

Questa non me la doveva fare! Perché non mi aveva detto niente? Perché non mi aveva avvertito che era solo un povero… un povero… handicappato?

Sentii un calore intenso infuocarmi il viso, e le labbra cominciarono a tremare. Avrei voluto fuggire da lì, ma ero con le spalle al muro.

Sua madre mi carezzò la testa.

Mi voltai di scatto verso di lei. Mi guardava con occhi dolci e comprensivi, e non sembrava per niente arrabbiata. Eppure la reazione che avevo avuto… Non ero riuscito a controllarmi, era stata una sorpresa troppo grande… ma lei non era arrabbiata. Forse capiva. Capiva cosa provavo e…

«Ciao… Niccolò,» dissi con uno sforzo enorme, riuscendo a emettere poco più che un bisbiglio. Le mie mani, dietro la schiena, stringevano con forza lo stipite della porta.

Niccolò cominciò a muovere la testa. O, piuttosto, fu la testa che si mosse compiendo scatti e rotazioni che sembravano del tutto incontrollate e incontrollabili.

«Ci-a-o, Ste-fa-no,» rispose.

Era evidente che parlare gli costava molta fatica.

Poi piegò la bocca in una smorfia assurda che poteva essere un sorriso. Un sorriso che i denti storti e sporgenti, e il continuo movimento del capo, rendevano brutalmente strampalato.

Non potevo. Non potevo rimanere lì, davanti a quella specie di essere umano. Perché non me l’aveva detto che era così? Mi aveva tradito! Mi aveva mentito facendosi passare per una persona normale! E io gli avevo creduto! Mi ero lasciato ingannare dai suoi discorsi, dai suggerimenti, dai consigli…

Ma proprio in quel momento incontrai gli occhi.

Erano azzurri, come mi aveva detto, di un azzurro limpido e sereno. Di più, erano… puri.

Sì, erano puri più del cielo di primavera, più dell’acqua di un torrente. Erano puri e grandi, come se racchiudessero tutta la sua anima.

Un brivido mi percorse da capo a piedi scuotendomi più volte, e mi sentii spinto da una forza misteriosa ad avanzare. Mossi prima una gamba, poi l’altra, e poi ancora, in un movimento che divenne sempre meno incerto.

Avanzavo verso di lui e lo fissavo intensamente. Nei suoi occhi vedevo un bambino come me imprigionato dentro a un corpo ribelle. Mi domandai che cosa avrei provato al posto suo, senza poter giocare a pallone e correre con gli amici, o nuotare al mare o fare la lotta con papà. Mi domandai cosa avrei provato a vivere dentro a un corpo che non ti ubbidisce, che non fa quello che vuoi.

E così la pietà prese il posto della collera.

Le lacrime spingevano per uscire, ma non volevo piangere. Sentivo dentro di me un dolore profondo, ma non volevo che gli altri lo vedessero.

Ormai gli ero vicino. I suoi occhi continuavano a fissarmi. Se avesse letto i miei pensieri, cosa avrebbe detto? Si sarebbe arrabbiato? Pensai a tutte le storie viste alla TV. Gli handicappati che dicevano di non volere la pietà del prossimo… Che volevano essere trattati come gli altri… Ma com’è possibile non provare pietà per…

I miei pensieri furono interrotti dal movimento del suo braccio. Si alzò piano allungandosi serpeggiando verso di me. Quanta fatica per fare quei pochi centimetri che ci separavano! Tuttavia il suo sguardo era rimasto limpido e il suo sorriso sgraziato pareva ancora più luminoso.

«Ste-fa-no,» disse nuovamente.

Avevo la gola secca e non sapevo proprio cosa dire. Allungai la mia mano verso la sua e gliela strinsi. Era molliccia e malferma, e provai un senso di fastidio. Poi lui si staccò e spostò il braccio verso la tastiera del computer. Con movimenti lenti e contorti batté diversi tasti. Seguii con lo sguardo il muoversi stentato della mano, poi guardai il monitor e le parole che vi comparivano lentamente.

«Ciao… Stefano… sono… contento… che… tu… sia… venuto… a… trovarmi.»

Non era per via del computer che le sue risposte erano lente…

La frase scritta sul monitor fu come un secchio d’acqua che mi fece risvegliare. Cosa stavo facendo? Quello era Niccolò! Niccolò che sapeva sempre come fare i compiti di matematica e che mi diceva cosa fare quando avevo un problema.

Niccolò! Adesso lo riconoscevo!

La mano si mosse ancora sui tasti.

«Sei… contento… di… avermi… conosciuto?»

Lo guardai con occhi nuovi. Anzi, lo guardai come avevo sempre fatto quando ancora lo vedevo solo con la fantasia.

Mi strinsi nelle spalle e allargai le braccia.

«Certo!» dissi. «In fondo sei solo un po’ storto, che c’è di male?»

Mi restituì uno sguardo e un sorriso che non saprei dire.

Era proprio lui: il mio amico Niccolò.

 

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LA COLLINA SARA' NOSTRA!

 

L’erba del prato era di un bel verde chiaro e ondeggiava al soffio d’una brezza leggera. Era una bella giornata di fine aprile, almeno fino a quando Vito non uscì da casa.

La porta cigolò e lo vedemmo comparire sulla soglia. Si piazzò a gambe divaricate, appoggiando le mani sui fianchi. La bocca piegata in un sorriso cattivo.

Guardai Giulio di sottecchi, continuando a sistemare i soldatini tra ciuffi d’erba e margherite. Di lì a poco sarebbe scoppiato il conflitto, uno dei tanti con i quali trascorrevamo pomeriggi interi. Sempre che non ci fosse stato il cugino Vito nei paraggi, naturalmente.

I centimetri e i chili che ci separavano da lui, lo rendevano ai nostri occhi più grande di quanto non fosse: aveva solo due anni in più, dopo tutto, anche se già frequentava la prima media. Comunque era un tormento, un incubo, una vera maledizione per me e per i miei amici. Ma se il piano che studiavo da tempo avesse funzionato...

Sentivamo il suo sguardo sulle nostre teste. Di certo stava pensando al modo migliore per rovinarci il gioco, e non ci avrebbe messo tanto.

«Ciao ragazzi,» disse con falsa gentilezza. Dondolò sulle gambe gonfiando il petto. «State giocando?»

Fingemmo di non sentire, continuando a sistemare mezzi e uomini nel campo di battaglia.

«Uhm... dovete divertirvi molto se nemmeno vi degnate di rispondere,» continuò a denti stretti.

Poi avanzò di un passo e sbatté la porta con forza.

Giulio non riuscì a trattenere un sobbalzo. Io rimasi fermo, contrastando a fatica un brivido lungo la schiena.

«Forse è meglio lasciar perdere,» bisbigliò Giulio.

«Cosa?!» protestai, badando bene a non alzare la voce. «Non vorrai mica scappare!»

«No, no, è che magari sarà meglio se rimandiamo ad un’altra volta. Non mi sembra dell’umore giusto...»

«Non è mai dell’umore giusto,» dissi deciso lanciandogli un’occhiataccia e continuando a sistemare i soldatini come se niente fosse. «O adesso o mai più.»

«E se poi si arrabbia sul serio?»

Mi strinsi nelle spalle cercando di ignorare quelle parole. Vito meritava una lezione. Ero stanco delle sue prepotenze e di quell’aria di superiorità che aveva stampata sulla faccia. Per non parlare dei calci e degli schiaffi che elargiva generosamente a chiunque gli si opponesse.

Lo spiai con la coda dell’occhio. Era vicino, ormai. Teneva ancora le mani sui fianchi e muoveva la bocca come se stesse masticando qualcosa.

Guardai di nuovo Giulio e gli strizzai l’occhio.

«Lo so che sembra incredibile, eppure l’ho sentito ieri sera al telegiornale,» cominciai come se fossimo soli.

Mi guardò per un momento, poi: «Sì, ora che ci penso l’ho sentito anch’io,» rispose reggendo finalmente il gioco.

«Se ci penso mi vengono i brividi: ne sono morti già due.»

Vito si bloccò ad un passo da noi.

«Morti,» ripeté Giulio. «Quanti anni avevano?»

«Uno ne aveva undici e l’altro dodici.»

«E tutto perché si erano arrabbiati...»

«No, è una faccenda più complicata... parlavano di... di... boh! Aveva a che fare con il cuore, mi pare!»

Presi un pezzo d’artiglieria e lo piazzai dietro alcuni fanti.

Giulio spostò in avanti un mortaio e un soldato col bazooka.

Eravamo tesi. Vito era dietro di noi, immobile e attento.

«Dicevano che è colpa dell’aggressività. Quando uno s’arrabbia il cuore batte fortissimo e può anche scoppiare!»

«Che scemate state dicendo?» tuonò Vito facendosi avanti.

Ci voltammo fingendoci sorpresi.

«Oh, Vito... niente, non stavamo dicendo niente d’interessante.»

Vito aprì le labbra in un largo sorriso e allungò un piede schiacciando una jeep completa di mitragliatrice.

«Ehi!» protestai. «Lasciaci in pace! Non vedi che stiamo giocando?»

Era il punto di non ritorno. Si sarebbe sicuramente arrabbiato.

Infatti il sorriso svanì e il volto divenne duro, gli occhi infuocati. Si abbassò verso di me e mi afferrò per il collo.

«Cos’hai detto mollusco? Chi è che dovrei lasciare in pace?»

«Noi. Devi lasciarci in pace.»

Strinse la mano con forza avvicinando il mio viso al suo.

«Sbruffoncello, ti faccio vedere io se vi lascio in pace...»

La situazione si stava facendo critica e quello scemo di Giulio invece di intervenire mi guardava con la bocca aperta e gli occhi sbarrati. Cercai di smuoverlo facendogli segno di farsi avanti. Capì, per fortuna.

«Fermo Vito. Ti prego, calmati, può essere pericoloso...» disse.

Vito si girò verso di lui.

«Pericoloso? Certo! Pericoloso per voi.»

«No, ascolta... ieri sera alla televisione... ci sono stati due ragazzi...»

«Che ragazzi?»

«Guardalo!» gridai con voce strozzata a Giulio. «Guarda com’è pallido!»

«Cosa?» chiese Vito voltandosi nuovamente verso di me.

«Sei pallido!»

«Sì,» confermò Giulio, «sei bianco come un cadavere.»

La stretta della mano sul mio collo divenne più leggera.

«Io non sono pallido.»

«Come ti senti?» gli chiesi incalzandolo.

«Mi sento benissimo!» rispose. «Sei tu che fra poco...»

«Il cuore!» intervenne Giulio. «Ti fa male?»

Istintivamente Vito portò la mano libera al petto. Guardò Giulio con aria interrogativa.

«Toccati il collo!» dissi. «Senti se pulsa.»

«Sì, se pulsa sei nei guai!»

«Guai grossi.»

Vito guardò me, poi Giulio, poi ancora me. Era disorientato e sembrava pallido sul serio.

Spostò la mano dal petto al collo cominciando a tastarlo. Ad un certo punto si fermò e spalancò gli occhi.

«Ma... sì... pulsa…" balbettò. «E’ pericoloso?»

Piccole gocce di sudore gl’imperlarono la fronte.

«Sdraiati!» gli ordinai. «E rimani fermo.»

Incredibilmente, mi lasciò il collo e ubbidì, sdraiandosi sull’erba. Si passò una mano sulla fronte asciugando il sudore. Muoveva gli occhi a destra e a sinistra senza fissare nulla.

«Sei tutto sudato,» osservò Giulio, «proprio come quei due ragazzi!»

«Quelli del telegiornale. Sono morti.» aggiunsi tetro.

Vito deglutì.

«La prepotenza... la prepotenza...» sussurrai tra me e me scuotendo la testa.

Dovevo avere un’espressione davvero preoccupata perché Vito si aggrappò al mio braccio guardandomi implorante.

«Ma io stavo solo scherzando...» disse in un soffio, «non volevo fare niente di male...»

«Per poco lo facevi eccome il male,» dissi avvicinandomi a lui e parlando come se gli stessi svelando un segreto. «Hai rischiato di rimanerci. Pensa, potevi anche morire.»

Fissò lo sguardo al cielo, dove bianche nuvole correvano veloci. Per un po’ rimase silenzioso, assorto nei suoi pensieri, poi la fronte si rilassò e il respiro si fece più calmo.

«Non accadrà più,» disse tra sé. «Non deve accadere più.»

“E’ fatta!” pensai.

«Adesso è meglio che tu vada in casa,» gli dissi premuroso. «Mi raccomando, sdraiati sul divano e rimani tranquillo.»

«Sì... sì... grazie...» biascicò.

Lo aiutai ad alzarsi avviandolo verso casa. Camminava con passo incerto a testa bassa, voltandosi continuamente verso di noi. Aveva il volto stravolto e lo sguardo appannato. Lo vedemmo scomparire all’interno, chiudendo la porta con delicatezza.

Io e Giulio ci guardammo soddisfatti. Da quel momento, forse ci avrebbe lasciato in pace.

Mi accovacciai a terra con un movimento rapidissimo afferrando un soldatino con il mitra spianato.

«All’attacco!» gridai. «La collina sarà nostra!»

 

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Indice Vincenzo Montevecchi