I RACCONTI DI:

MARINA TOROSSI TEVINI


da " IL MASCHIO ECOLOGICO "

VIOLENZA AMORE CORTESE AMICIZIA


 ALTRI RACCONTI

L'ermafrodito Il gabbiano Muto Il ritorno


 

VIOLENZA




Può tornare il passato. Talvolta. Un brillio in una notte senza vento.
Quando Anna le aveva telefonato ,era tanto che non si vedevano, un anno, forse più, proponendole un fine Carnevale sulla neve, era rimasta indecisa. Suo marito era via per affari, così, da sola...

Poi l'aveva attratta l'idea di vivere qualche giorno come una volta, da sola. In fondo ora non era che l'appendice di suo marito. Con gli altri parlava di lui. Se era sola si sentiva sperduta. Non si concepiva senza la sua presenza. 
Eppure sentiva forte il desiderio di avere una vita indipendente a prescindere da Carlo. Una vita in cui agire, decidere, sbagliare, da sola.

"Una valigetta ventiquattr'ore, niente di più ed un vestito da Carnevale" le aveva detto Anna. 
Che idea! Detestava le maschere. Per fortuna c'era anche la possibilità di sciare, se il tempo era bello.
Conosceva quasi tutti gli amici di Anna. Aveva frequentato per parecchi anni quella compagnia prima di conoscere Carlo. Poi si erano rinchiusi nel loro guscio.
Faceva uno strano effetto ritrovarsi dopo anni. Per molti il tempo sembrava non essere passato. Le sembrava di stare vivendo in un tempo due vite: un passato che era stato suo eppure non le apparteneva e, intrusa, la vita di oggi.
E, dal passato, come da un lago di cristallo, un'ombra, un sorriso. Luca.
Elena rimase senza parole. Si erano lasciati dieci anni prima, dopo un addio durato mesi. Punteggiato di ripensamenti, tentativi, pazzie. Nel complesso un bilancio negativo. 
Ma non del tutto. Rimaneva sempre il ricordo che non l'abbandonava e ritornava struggente nei momenti di vuoto.

Si vestì con cura e esitò prima di scendere. Sapeva che sarebbe stata una sera importante. Nello specchio, mentre si truccava, rivedeva il sorriso strano di Luca. I suoi capelli crespi, aridi, inquieti. 
Quante volte li aveva accarezzati, quante volte si era sentita vibrare ogni fibra e l'aveva desiderato. Sull'erba o in uno squallido portone, appoggiati al muro nel sottoscala, con le mani sporche che accarezzavano il suo corpo. 
Ma non avevano mai fatto l'amore. Quello era rimasto sempre per loro il frutto proibito, il salto che non avevano osato. 
Adesso però lei era lì, dopo sette anni di amore, di inquietudini, di desideri. Meno impaurita, più disponibile e bella.

Durante la cena non avevano scambiato una parola. Erano distanti. E poi in fondo era meglio così. Avrebbero parlato poi, da soli, a lungo. Dagli sguardi che si erano scambiati, Elena era sicura che tutto sarebbe rivissuto quella notte.
Ma gli pose subito le condizioni. Una sola notte. Senza legami nè un seguito. 
Il loro non era mai stato un vero amore, solo un'abbacinante follia. Luca non parlava, la guardava con occhi liquidi, lucenti. Il suo sguardo la teneva inchiodata, come anni prima, la faceva rabbrividire.
"Una notte sola è troppo poco" ripeteva Luca "tu hai tuo marito. Io non ho nessuno."
"C'è anche domani" rise Elena "ma poi non cercarmi più".
Non aveva provato altre volte la lunga infinita gioia di quella notte. Riguadagnava ad ogni bacio un passato che le ridava i suoi vent'anni scapigliati, le corse senza fiato, il loro ingenuo e tortuoso modo d'amarsi. E con il passato riguadagnava anche i suoi desideri, la fresca sensibilità di ragazza. Ma a questa aggiungeva anche la sicurezza, la sua gioia di essere donna. La sua superiorità in fondo, quando lui le baciava i piedi, le cosce, il ventre, di sentirsi desiderata.

La sera seguente c'era il veglione. Coriandoli, volti che ridevano, spumante versato sui tavoli. 
Era stanca. Si sentiva soffocare là dentro. Non aveva mai apprezzato quell'allegria senza senso. D'improvviso sentì il bisogno di aria fresca. Uscì. Non aveva neppure avvertito Luca. Ma non aveva importanza. In fondo preferiva fare quattro passi da sola.

Aveva sempre amato le notti sulla neve. Guardava il cielo pieno di stelle come il cartone di un presepio. Camminò per un po' trasognata. 
All'improvviso però sentì sotto pelle una strana inquietudine. Si volse a guardare l'albergo ormai lontano. Ebbe una vaga sensazione d'essere insicura, in quella strada vuota. Buia. 
Stordita dopo la luce accecante dell'interno brancolava sul ghiaccio.
D'un tratto il silenzio innaturale di quella notte fu rotto da un veloce scricchiolio alle sue spalle. Un passo pesante la fece sobbalzare.
Il vestito lungo ed il ghiaccio le impedivano quasi di camminare. Passò qualche lungo secondo ed una mano la spinse violentemente a lato della strada. In un fienile. L'uscio scricchiolando si chiuse e qualcosa di informe con il volto mascherato fu su di lei. Le strappava i petali del suo vestito fiorito.
Da sempre aveva temuto la violenza. E da sempre aveva odiato l'uomo che condizionamenti assurdi spingono a questa innaturale follia. 
Uscì barcollante dalla porta che era rimasta aperta. Ma, mentre faceva gli ultimi incerti passi verso l'albergo, un po' trafelato le arrivò vicino Luca. 
Sentì una strana sensazione di calore, odore, corporeità. Ebbe la terribile odiosa idea che fosse stato lui l'assurdo violentatore di quella notte. Lui. L'amante stupendo della notte precedente, lui, la pazzia di tante sue giornate passate. 
Ed ancora le ritornò terribile nella mente un perché che non trovava risposta. Luca la prese sotto braccio. Rideva. Le chiedeva perché era scappata dalla festa. Se era già stanca. Se era stanca l'avrebbe lasciata riposare... Elena si voltò di scatto. No. Voleva salire da lui!

Chiusero la porta e Luca sedette sul letto. Non faceva caso al vestito rovinato e alla faccia pallida di Elena. Si guardava come uno stupido i piedi. 
Elena andò nel bagno, si rinfrescò e si pettinò. Le sembrava di agire come un automa. Qualcosa la spingeva a non fuggire. 
Uscì che Luca si stava slacciando i bottoni della camicia. Dai pantaloni allentati usciva una pancetta flaccida. 
Ecco. Ricordava, sì, nettamente di aver sentito nel fienile quel ventre dimenarsi su di lei. Ora non aveva più dubbi.
Graffiarlo, insanguinarlo, distruggerlo. 
No. Bastava quello. Le bastava di aver capito che era lui, era stato lui l'assurdo, impazzito, squallido violentatore di quella notte. L'uomo con cui avrebbe potuto trascorrere una notte d'amore. L'uomo che non aveva mai capito ma che aveva amato. L'uomo che non l'aveva mai capita ma che pure le aveva dato intense emozioni. 
Che senso aveva la sua violenza? Lo guardò, stupido, con i pantaloni slacciati e la camicia macchiata. E la pancetta tremolante. Non disse nulla. Uscì.

 

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AMORE CORTESE 

 



Nella biblioteca dell'università, come facevano da qualche settimana, Laura e Nicola avevano trascorso il pomeriggio. 
China sui libri, vicina, Laura aveva sentito il suo respiro, ne aveva palpato la presenza. Stare con Nicola le dava uno strano senso di eccitazione.
Uscirono sottobraccio. L'aria era frizzante: un marzo triestino con più fresco e pioggia che sole.
Scesero veloci per via dello Scoglio e raggiunsero via Giulia. Laura si affrettò a passi svogliati verso casa. L'avrebbe aspettata la solita aria stagnante, la solita noia di cose dette e ridette, i soliti scontati commenti. Un senso di grigiore la prendeva. Non condivideva i loro pregiudizi, la loro paura di mettere qualsiasi cosa in discussione, la loro religione del denaro e del successo. Per lei le cose avevano un altro senso e un altro sapore.
Pensò che avrebbe potuto evitare di passare per casa. In fondo doveva uscire quella sera con Emanuele. Sarebbe salita un po' prima da lui senza cambiarsi neppure e avrebbe fatto una telefonata per avvertire i suoi.

Deviò verso l'appartamentino che Emanuele condivideva con alcuni amici, anch'essi studenti di medicina.
Andare da Emanuele le metteva sempre allegria. Emanuele era un punto fermo nella sua vita, l'ancora che in ogni caso rimane salda, una sicurezza su cui poter fare affidamento quando la realtà pericolosamente vacilla. Con la sua fiducia incrollabile nelle cose, con la sua convinzione che la vita avesse sempre e comunque un senso, con la sua visione positiva e costruttiva di tutto, le trasmetteva una serenità insostituibile.
Entrò e si mise a chiacchierare con gli amici di Emanuele aspettando il suo ritorno.

Nicola era diverso. Inquietante, inquieto, certo più affascinante di Emanuele. Ma Laura era la ragazza di Emanuele e Nicola le riservava soltanto occhiate di desiderio.
Si erano conosciuti ad un esame di Analisi 2 andato male per Nicola.
"Sono stato proprio sfortunato. L'avevo preparato così bene" e Laura aveva trovato molto affascinante la sua sfortuna. L'avrebbe voluto consolare. Ma si era limitata a proporgli di studiare assieme. Negli occhi di Nicola era passato un guizzo di luce. Aveva degli occhi lucidissimi.
Lo conosceva da poco ma era come se lo conoscesse da sempre. In lui si rispecchiava. 
Le sue idee, le sue fantasie. Si ritrovava. Quando l'aveva incontrato aveva capito di aver conosciuto un altro essere della sua stessa specie. Parlavano e tacevano nella stessa lingua. 
L'intesa che poteva esserci tra lei e Nicola era ben diversa da quella che c'era con Emanuele. Emanuele era concreto, entusiasta, sempre circondato da amici. Capiva gli altri e si faceva capire. Sarebbe stato un buon marito ed un buon padre. Laura aveva bisogno di lui ma in lui non si riconosceva. Nicola invece aveva in sè quella luce che contraddistingue e marchia le persone non mediocri.

Con Nicola andava talvolta a teatro perché Emanuele per lo più non ci veniva. Il teatro lo annoiava. Come tutti i surrogati della vita.
Andarono anche quella sera. Era una sera frizzante. Una di quelle sere d'aprile in cui si pregustano le delizie dell'estate futura. Camminavano con gli occhi nel cielo perdendosi in quella realtà liquida ed aerea. Laura sentiva sulla pelle l'attesa di notti fatate. 
Stare vicino a lui le creava uno strano miscuglio di eccitazione e di pace. Le sembrava di essere entrata in un campo magnetico. Avrebbe voluto averlo più suo, non fermarsi al semplice contatto delle loro mani, farlo fremere di desiderio e di piacere.


Dopo aver studiato quella sera decisero di cenare insieme. Scelsero un localino fuori mano. Nella penombra complice della saletta Laura gli propose un amore senza domani, un amore senza prospettive, un amore che non escludesse Emanuele.
Avrebbe preferito lasciarsi andare, non assumersi delle responsabilità, non commettere quella colpa con la ragione. Ma con Nicola era necessario parlare. Nicola non avrebbe fatto mai il primo passo.
Nicola non rispose. Chiamò il cameriere. Pagarono.
Fuori faceva freddo. Si misero a passeggiare per un viale illuminato. Sotto braccio per scaldarsi andavano come in un sogno. La luce della luna illuminava i loro capelli e le pozzanghere sulla strada.
"Non sono stato mai così felice" disse all'improvviso Nicola "Ma ho anche molta paura. Paura di soffrire. Paura di rimanere solo."

Che l'amore non abbia principio nè fine e che una persona amata la si ami per sempre era un'idea che in Laura era connaturata. Era radicata in lei fin nel profondo. Avrebbe voluto rassicurare Nicola. Non sarebbe stato mai solo. L'avrebbe amato per sempre. Ma avrebbe avuto tempo in seguito per convincerlo, tempo per farglielo accettare.
Camminarono in silenzio. Poi si rifugiarono nella macchina di Nicola.
Tra carezze e sorrisi dolcemente si amarono. Fu un lungo abbraccio. I corpi salivano e scendevano con ritmico abbandono. Laura lo teneva per i capelli mentre il suo corpo lo accoglieva e lo faceva scivolare dentro di sè, lo proteggeva. Nicola riceveva le carezze come un grosso gatto quasi temendo che il miracolo di quella dolcezza potesse all'improvviso finire. Ne era nel contempo vivificato e distrutto. 
Da quel momento la sua vita non sarebbe stata che attesa di rivederla. E l'idea che in tutto quel tempo Laura sarebbe stata di Emanuele. Uscì dalla macchina e da quella notte con la consapevolezza però che valeva comunque la pena di soffrire.

Mentre pensava a come avrebbe convinto Nicola ad accettare anche l'idea che lei sposasse Emanuele, Laura frugava dentro di sè impietosa. Si chiedeva se non cercasse soltanto di dare alla sua follia una parvenza di ordine, un ordine che le consentisse di mantenere il caos del suo desiderio. L'idea di un amore "cortese" che li unisse al di là delle convenzioni e degli schemi che la società ci impone aveva senso? 
L'idea che l'amore non abbia limiti e confini era sostenibile? L'idea che lei e Nicola si appartenessero comunque e che questo non togliesse nulla al suo rapporto con Emanuele era umana?

Seduti vicini in biblioteca studiavano come sempre. E come sempre gli occhi si incontravano dopo poche pagine. E cresceva il desiderio di ritrovarsi. Il piacere li ripercorreva. Ne erano come invasati.

Era tutto deciso. Non appena Emanuele si fosse laureato si sarebbero sposati. Mancavano ormai pochi mesi. A nulla valevano le obiezioni di Nicola.
Che senso avrebbe avuto un matrimonio con Nicola? Ogni sera assieme. E andare a fare visita ai parenti e condividere la banalità del quotidiano. No, non vedeva Nicola nei panni del marito. Il loro amore ne sarebbe uscito logoro e sgualcito.
Doveva rimanere fuori dal tempo e dal contingente. così, per sempre. Assoluto. Avrebbero continuato quella loro vita segreta.

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AMICIZIA

 



Si guardarono a lungo prima di mettere in moto. Lo sguardo di Matteo le percorreva i capelli, il vestito, le mani. Era lo stesso sguardo che a vent'anni l'aveva affascinata. Anche Emanuela intrecciava con lui un complice colloquio intessuto di silenzio e di desideri.
La luce del tardo pomeriggio, che già recava in sè il profumo della sera, brillava trasparente sulle cose. Le case di mattoni e il cielo infuocato del tramonto correvano dietro i vetri. Gli alberi proiettavano sulla strada lunghe ombre che le automobili attraversavano. 
Nella mente di Emanuela i pensieri si accavallavano. Un fine settimana ad Asolo, Marostica o giù di lì, le aveva proposto Matteo.
"Devi uscire. Reagire. Non puoi rinunciare alla vita".
Era vero. In quei due anni, da quando Carlo era morto, si era negata ogni distrazione. Ogni emozione. Aveva cercato faticosamente di ricucirsi una parvenza di vita. Ma si rendeva conto di come fosse difficile . Dopo quindici anni vissuti in un connubio fors'anche troppo stretto. Amici comuni, domeniche e serate sempre assieme. Anni piacevoli e troppo veloci.

Intanto Matteo chiacchierava. Le raccontava del suo lavoro. La faceva sorridere. La faceva sentire come a vent'anni.
Conosceva Matteo dal tempo dell'Università. Avevano frequentato lo stesso corso. Carlo, lei e Matteo. Sempre insieme alle lezioni e poi alla sera a ballare. Poi, dopo la laurea, le loro strade si erano divise. Matteo era diventato un ricercatore, Carlo si era impelagato nel mare magnum della scuola , lei aveva finito con l' optare per un impiego pubblico.
Emanuela si guardò nello specchietto dell'auto. Chissà se era tanto cambiata da quel tempo. Dentro, a dire il vero, non si sentiva molto diversa. Per lei, che del tempo non aveva nozione, i pensieri erano un po' sempre gli stessi e anche più o meno la sua figura ed il suo volto. Si guardò nuovamente di sfuggita. Erano passati in fondo vent'anni e sarebbe stato assurdo pensare che lui la vedesse la stessa.
A pomeriggio inoltrato arrivarono vicino a Marostica. Si fermarono in un albergo ricavato in una vecchia villa ricoperta di edera rossa con grandi sale ed un enorme camino. Le stanze anch'esse erano vastissime e piacevolmente confortevoli. E poi ci si salvava dal cattivo gusto dei soliti alberghi con la televisione ed il frigorifero pieno di bibite.

Mentre si preparava a scendere per la cena Emanuela pensava a Matteo.
L'aveva amato e ancora l'amava quando aveva sposato Carlo. Ma Carlo era più concreto, più prevedibile, più adatto ad essere un buon marito. E lo era stato. Emanuela non si era pentita neppure per un momento della sua scelta. 
Con Matteo si erano continuati a vedere. Matteo era l'amico migliore di Carlo. Lo guardava negli occhi e si sentiva felice. Felice che lui continuasse ad amarla come quella sera che imprevedibilmente glielo aveva detto sotto casa. Ma lei gli aveva spiegato che con Carlo era ormai tutto deciso. Entro qualche mese si sarebbero sposati.
Matteo veniva spesso in vacanza con loro. Oppure passava a casa loro la serata. Capitava a cena portandosi dietro qualche ragazza. Ma Emanuela si sentiva sempre la preferita. Era felice di averlo là. Questo le bastava. 
E quelle serate avevano il sorprendente finale che riusciva poi ad amare meglio Carlo. Il pensiero di Matteo vivacizzava il loro rapporto.

Sedettero su comode sedie dagli alti schienali e dai braccioli enormi. Il tavolo era robusto, di legno e tutto l'ambiente aveva il sapore del passato. Si guardavano negli occhi. Gli occhi azzurri di Matteo sembravano dolci e indifesi. 
Eppure Emanuela aveva paura. Forse di uscire dalla rassicurante atmosfera del suo sogno in cui tutto era perfetto e immutabile. Paura di ritrovarsi la più debole. Di abbandonare l'arte che da sempre aveva praticato di farsi desiderare e poi di negarsi.
Fare l'amore con Carlo era stato molto più facile. Aveva sempre avuto la certezza che lui non avrebbe comunque posseduto del tutto la sua anima. E questo la rendeva più sicura e più disponibile. Certa di avere sempre il gioco in mano.
Ma con Matteo che la guardava con quegli occhi, che le leggeva dentro, con Matteo correva il rischio di diventare una stupida innamorata. Correva il rischio di perderlo.

Avevano finito di cenare. Salirono assieme verso le proprie stanze.
No, non voleva, non quella sera almeno, non si sentiva di rischiare. Sgusciò dalle braccia di Matteo che le chiudevano il passaggio e si rifugiò con il cuore in tumulto nella sua stanza. 
Sentiva ancora il calore del suo corpo, la presa delle sue mani, il suo sguardo che la inchiodava.
Si stese sul letto. Avvertì con un brivido il freddo delle lenzuola. La sua solitudine.
Avrebbe voluto averlo là. Percorrere a piccoli baci la sua pelle. Stringere i suoi capelli. Scendere nei meandri della sua pelle e del suo sangue.
Avventurarsi per strade inesplorate. Scendere a precipizio dentro di sè. Sentire l'ebbrezza del rischio.
Sarebbe stata la felicità. Avvertì con stupore il terribile percolo che si insinuava in quella condizione.
Una gioia acutissima che poteva penetrare fino alle midolla. Stregarla per sempre. Imprigionarla in una schiavitù e in una dipendenza infinita.
Sottrarla alla sua arida ma rassicurante certezza d'essere sempre capace di guardare gli altri e se stessa dal di fuori senza lasciarsi troppo coinvolgere. 
No, non era forte abbastanza per una felicità totale che un soffio di vento avrebbe potuto disperdere.

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ALTRI RACCONTI




L' ermafrodito

 



"Le piace ?"
Era una domanda superflua perchè Sandro se ne stava già da mezz'ora a contemplare il blu profondo di quel quadro, concentrico intorno a un vuoto infinito che dava le vertigini.
Riemerse con difficoltà e si voltò verso le parole alle sue spalle. Vide una bocca un po' troppo truccata che oscillava sopra lunghe file di collane. Tacchi alti e lunghi capelli neri, un'iperfemminilità esibita che in un'altra persona gli avrebbe dato certamente fastidio. Ma stranamente non la trovò sgradevole.
La pittrice lo conduceva a vedere i suoi quadri, lo prendeva per mano, gli parlava sorridendo. Le altre opere non lo interessavano, seguiva le parole cadenzate come il ritmo dei tacchi della donna con apparente interesse, mentre era ancora intento a recuperare quel lungo momento di spazio mentale dilatato in cui era riuscito a salire e scendere i gradini del suo infinito mentale.
Doveva acquistare quel quadro, portarselo a casa, averlo sotto gli occhi in qualsiasi momento. Contrattò pochissimo. L'avrebbe voluto a qualsiasi prezzo. Nella notte, con il suo tesoro sotto braccio, sentì improvvisamente un senso di inutilità, come se stesse portandosi via qualcosa di inanimato, qualche cosa che aveva perduto la sua parte più vitale.
"Azzurro, blu, sta bene con il colore delle poltrone - commentò sua moglie - lo possiamo mettere vicino al caminetto. Però è spaventosamente caro, che cosa ti è venuto in mente?"
Sandro non volle metterlo nel salotto. Lo portò nel suo studio, lo appese di fronte alla scrivania al posto del ritratto barbuto di un avo . E' sprecato, diceva la moglie, passando e ripassando nello studio, contento tu, ma io trovo che qui è proprio sprecato. 
Soddisfatto chiuse la porta. Voleva rimanere un po' tranquillo. E invece tranquillo non era affatto. Stranamente il quadro lo deludeva . Entrato nella sua casa borghese si era vestito di panni borghesi e ora era là a fare la sua bella figura tra i tanti oggetti senza vita. Chiuse gli occhi, li aprì, li socchiuse. Nulla. Non riusciva a vedere che linee, zone di luce, qualche errore tecnico, colori che stonavano in quella stanza.
Doveva rivedere Miriam, doveva parlarle. Doveva risentire la sua risata, doveva sentir risuonare nel cavo percorso della galleria il ticchettio dei suoi passi.
Al posto del suo quadro era stato messo un altro, più grande, più chiaro. Le luci della sala lo rendevano ancora più luccicante, scaglie di mare di cui gli sembrò per un attimo di sentire l'odore. Miriam era vestita più sobriamente ma non aveva rinunciato agli stivaletti e ai troppi gioielli. Con una mano inanellata gli accarezzò la nuca, le spalle. Sandro sentì una strana sensazione di benessere, come se il quadro si ricongiungesse in lui a qualcosa che gli era stato strappato. Miriam parlava e parlava e intanto camminava tra i suoi quadri ed essi diventavano una parte di lei, la completavano.
"Ecco, in questo momento potrei guardare il suo quadro. A casa da solo non sapevo che farmene."
"Domani chiuderemo la mostra."
Sandro avrebbe voluto dire "chiudi la galleria e andiamocene, scappiamo via, facciamo qualche pazzia, ho voglia di te, del tuo sorriso, del tuo assoluto, delle tue mani, del tuo profumo." Invece la guardava e i frammenti incollati nel suo essere borghese scricchiolavano.
"Se mi aiuta a mettere un po' d'ordine, poi possiamo fare quattro passi ." Era l'appiglio che cercava. Uscirono nel buio. L'aria novembrina entrava gelida nella profonda scollatura di Miriam incurante delle brume autunnali. Miriam batteva ogni tanto i piedi che le si cominciavano a gelare e infilava le mani sotto lo scialle. Sandro era sempre stato timido, l'idea di iniziare un rapporto lo metteva in imbarazzo forse perchè detestava l'ovvio e si sentiva uno stupido ad adottare le solite procedure scontate. Ma con Miriam fu diverso. Quasi senza parole, senza accordi o circonlocuzioni, senza pensare a nulla si ritrovarono nell'automobile posteggiata in un viale buio di platani.
Che Miriam non fosse una donna, questo Sandro non lo avrebbe mai immaginato. Meravigliato, spaventato, si allontanò veloce dal corpo desiderato. Miriam gli accarezzava con mano comprensiva la nuca perplessa. Un viados, un bellissimo viados, col seno di donna, le mani di donna, e quella doppia natura, mostruosamente esibita.
"Scusami, ma non è per me." S'erano congedati quasi senza parlare.
Mentre rincasava Sandro non smetteva di pensare che avventura , dio mio, proprio a me, e si che la mia vita è sempre stata più che normale, orribilmente normale, insomma banalmente normale come quella di tutti gli altri. E adesso guarda un po' che follia aver incontrato quell'iperdonna che poi s'era rivelata non essere affatto una donna.
Non aveva molta voglia di tornarsene a casa a ridire le solite cose a rindossare i soliti vestiti. Frusti. In un bar bevve l'ennesimo caffè della giornata. Mentre rigirava il cucchiaino nella tazzina gli venne da pensare che in fondo quella sorpresa non era del tutto una sorpresa.Già quando aveva guardato per la prima volta il quadro di Miriam aveva avuto per così dire l'impressione che un abisso in cui maschile e femminile si congiungevano vi alitasse , un abisso che attraendolo lo intrigava fino alle midolla. Non era un pensiero rassicurante e subito Sandro lo cacciò com'era solito fare con tutto quello che avrebbe potuto portarlo fuori dai binari rassicuranti in cui era inserita (e da cui era stritolata) la sua vita. Ma tant'è, a lui andava bene così 
Visse i giorni seguenti allontanando con puntuale pignoleria ogni pensiero che potesse riportarlo a quell'avventura. Lasciò che sua moglie sistemasse il quadro in salotto e in cuor suo decise di considerarlo un qualsiasi pezzo dell'arredamento nè più nè meno della poltrona prediletta o del tavolino di cristallo. Oggetti di una casa borghese che lo accoglievano caldi e complici quando ritornava e chiudeva la porta alle sue spalle. Aggrappato alla sua esistenza tranquilla non voleva più sentire il cuore battere impazzito, lasciava a chi le volesse le extrasistole e le scariche di adrenalina.
Rivide Miriam per caso, a una cena da amici. Per tutta la serata non si dissero che poche parole. Miriam lo guardava, con provocatoria intensità, gli chiedeva di non essere debole, di non fuggire.
Sandro da parte sua si sforzava di sostenere il suo sguardo, si diceva che non aveva nulla da temere, che avrebbero potuto diventare amici. Perchè no, gli sarebbe piaciuto conoscere un po' di più una persona straordinaria e sensibile come Miriam.

La riaccompagnò a casa. Le mani di Miriam sul suo collo, le sue labbra calde che gli mordicchiavano l'orecchio mentre guidava lo spinsero lontano da quel precario ancoraggio in cui s'era in quei mesi rifugiato. Nella macchina posteggiata a caso alitava la vertigine di Miriam. E d'improvviso gli sembrò che la scelta caparbia che si era imposto fosse solo mediocre follia e che la vita vera esistesse al di là dei confini angusti della sua porta di casa. In quella notte, in quel quadro, in quella vertigine. I sensi eccitati si placarono negli anfratti che Miriam gli offriva, nel suo vorticare luminescente, tra le sue mani veloci, nel suo corpo duro e duttile, plastico di ermafrodito.
"Ti senti di più una donna, perchè non ti fai operare, tanti l'hanno fatto", parlava e non riusciva a stare zitto Sandro.
Miriam gli accarezzava il collo, astratta, lontana.
"Potremo amarci, credo che potremo davvero amarci, se tu fossi una donna..." Parlava e parlava e Miriam intanto gli accarezzava l'attaccatura dei capelli, gli sorrideva stranamente assorta e lontana.
"Perchè dovrei rinunciare a una parte di me?" disse infine. "Farmi macellare, ricostruire?" 
Felice, sembrava felice Miriam. A guardarla sembrava un po' troppo felice.
Forse non lo era affatto.O forse sì. Comunque era troppo diversa.Gli metteva paura.. Non la doveva rivedere. Era stata solo una notte, da dimenticare, da cancellare, da seppellire nel profondo della sua coscienza.Una notte in cui aveva posseduto come nel delirio di un sogno mitologico un uomo e una donna assieme.Ma quel sogno lo doveva dimenticare.Per sempre.
Dopo qualche tempo non ci pensava più. Fu per caso che, qualche anno dopo, leggendo un quotidiano, seppe della fine di Miriam. Ne parlavano come di una prostituta ben nota alla polizia. Era diventata così? Dov'era la Miriam che ticchettava nella sua galleria, che gli carezzava la nuca ? Era mai esistita? 

Nella sua casa borghese, mediocremente felice, mediocremente insoddisfatto Sandro continuava la sua vita. Talvolta guardava con un brivido il quadro di Miriam.Col tempo aveva imparato ad abbandonarsi lungo quei tratti che scendevano volteggiando nella vertigine e riemergere senza turbarsi troppo.
Quando aveva paura accendeva una sigaretta. 



Pubblicato sulla rivista Zeta news n.41-42

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Il gabbiano

 




Il sostituto procuratore Giovanni Ferrari cercava un posto per sistemarsi e prendere un po' di sole sugli scogli del lungomare. Camminava indeciso, sempre attratto da qualche nuova visione di ragazze dai seni scoperti, abbronzatissime, allegre e stranamente muscolose. Ai miei tempi, pensava il magistrato, le ragazze erano per così dire più morbide, più rotonde. Ma queste avevano lavorato a lungo nelle palestre sui loro muscoli che, allungati e sodi, si notavano persino sui glutei lasciati ampiamente scoperti da costumi minuscoli.
Solo, poco più che cinquantenne, Giovanni era da sempre alla ricerca di una ragazza che gli togliesse un po' di dosso l'angoscia di vivere. Quando pensava all'amore pensava a una ragazza giovane e bella, con un corpo sodo e fiorente: l'idea dell'amore che aveva coltivato in sè e non aveva ancora mai realizzato. Una lunga storia che aveva tormentato molti anni della sua vita era finita in una delusione che l'aveva lasciato per un bel po' disincantato e perplesso. Poi gli ultimi anni di sua madre, una penosa malattia, i suoi doveri di figlio. S'era concesso solamente delle storie senza importanza, programmaticamente senza futuro, qualche piccola parentesi nella fuga veloce degli anni. E il suo desiderio d'amore era ancora lì inappagato, grande, ingenuo, capace di alimentarsi e di sognare a ogni battito di ciglia, a ogni sussurro, a ogni distratto sorriso.

Conobbe Antonella al mare. In una delle sue mattine di caccia. Antonella stava ridendo con una sua amica e, quando lui le si era seduto vicino e aveva fatto qualche battuta scontata per attaccare discorso, aveva risposto spiritosamente. Era una ragazza di poco più di vent'anni, alta, bruna, con capelli lunghi e ondulati che le ricadevano come un mantello sul dorso. Li scuoteva ogni tanto e li sollevava dalle spalle ma non si decideva a raccoglierli, conscia che erano la sua bellezza. Per il resto, un sorriso frettoloso e inquieto che scopriva dei denti perfetti, occhi scuri, un'aria di furba ingenuità che agli uomini piaceva.
Era studentessa, Giovanni lo seppe dopo una mezz'ora di conversazione, viveva con due amiche, era di un paesino dell'Irpinia.

Quella sera cenarono insieme.
Qualche settimana dopo Antonella, vestiti, libri, bigiotteria, si era trasferita a casa di Giovanni Ferrari. Fu stupito lo stesso Giovanni della velocità con cui tutto era avvenuto. Era la prima volta che nella sua casa si spandeva un esaltante profumo di donna. Era la prima volta che una ragazza si svegliava nel suo letto. Era la prima volta che la sera si addormentava sereno.

Agli amici raccontava il miracolo che gli era capitato. Una ragazza come l'aveva sognata tutta la vita, bella, giovane, intelligente. Perchè era venuta a stare con lui? Si vede che si trovava bene, che apprezzava le sue attenzioni, la sua cortesia, forse lui le piaceva. Gli amici facevano delle obiezioni. 
-Io conosco bene i giovani -sentenziava Antonio- Ce ne sono di onesti e intelligenti -. E concludeva serio: - Io credo molto nei giovani-. Parole che significavano che tutto sommato quella storia gli andava bene, che si credeva in attivo e vincente e che non aveva voglia di discutere.
Antonella stava poco in casa. Al mattino andava all'Università, al pomeriggio in palestra oppure a casa di amiche. I piccoli lavori a computer che prima faceva li aveva lasciati anche perchè il magistrato insisteva nel dire che era assurdo spendere tanto tempo e fatica. Pensasse piuttosto a laurearsi. Di esami a dir il vero Antonella ne aveva dati pochini ma Giovanni non demordeva. Era una ragazza intelligente, doveva soltanto trovare delle motivazioni. E si illudeva che le sue parole, che Antonella ascoltava la sera nel giardino dopo cena con la stessa infastidita indifferenza con cui si prendono le medicine, potessero essere per lei uno sprone.
Giovanni, convintissimo che su una ragazza come Antonella si potesse influire, cercava di esercitare su di lei la sua presunta abilità di persuasione. La rassegnata indifferenza con cui Antonella lo ascoltava, gli sembrava un evidente segno di malleabilità, lo induceva a proseguire.
Antonella ascoltava, non obiettava, pagava il suo prezzo per l'ospitalità senza battere ciglio. Non era molto loquace, non amava parlare di sè. Le poche volte che aveva parlato del suo paese l'aveva fatto in tono infastidito. Non aveva nessuna nostalgia, non voleva seppellirsi tra quattro case in mezzo a pettegolezzi e miseria. Salerno non era certo una metropoli, ma almeno si respirava. A lei interessava un ambiente dove tutti fossero liberi di fare gli affari propri.
Era strana Antonella, forse un po' incomprensibile, ma Giovanni aveva deciso di non andare troppo per il sottile. Per tutta la vita aveva sempre avuto paura di sbagliare, al primo dubbio si era ritirato in fretta e forse per questo la sua vita era stata così scialba, i suoi cinquant'anni li aveva così poco goduti. Questa era la prima ventata di primavera che, se faceva sbattere un po' le sue finestre, gli dava anche un'elettrizzante energia, lo caricava di entusiasmo e di gioia. Vent'anni di meno, Antonella gli aveva tolto vent'anni dalle spalle.

-Non so come lei possa essere coinvolto in questa faccenda ma abbiamo trovato il suo numero telefonico nell'agenda di Antonella Grandi.- Il poliziotto fermo sul pianerottolo sembrava visibilmente imbarazzato. 
Entri, non rimanga lì- fece il magistrato cordiale, meravigliandosi in cuor suo di quell'imbarazzo. Poi aggiunse sereno: -Antonella Grandi da qualche mese vive qui- .
Il poliziotto sedette su una sedia mentre il magistrato prendeva posto vicino a lui.
- Abbiamo trovato il suo cadavere. Una brutta faccenda-. Giovanni spalancò gli occhi. 
Il poliziotto proseguì. - Era implicata in un giro di prostituzione -. 
Il procuratore era sempre più stupito. -Mi racconti - disse - io non ne sapevo nulla. L'avevo conosciuta casualmente e le avevo proposto di venire a vivere con me -.
- E non si è accorto di nulla? Che so, di come vestiva, di quanti soldi disponeva?-
- Come vestiva? Le giovani vestono in modo strano, hanno aria di prostitute anche certe ragazzine perbene, con gonne attillatissime e atteggiamenti provocanti e le prostitute spesso hanno un'aria perbene. Non mi sembrava per nulla strano l'abbigliamento di Antonella e per quanto riguarda il denaro io le davo quanto le serviva. Prima pensavo si guadagnasse da vivere digitando tesi di laurea. Non ho avuto il minimo sospetto -.
- Era in un giro di ragazze che gravitavano intorno a un'agenzia che le metteva in contatto con dei ricchi clienti. Lavoravano solo per un paio di pomeriggi al mese. Sufficienti però per guadagnare cifre vertiginose. A questo poi si aggiungeva anche qualche piccolo traffico di droga. Sperava certo, come tutte, di sbrigarsi in pochi anni, di accumulare i soldi sufficienti per mettere in piedi qualche attività redditizia e sistemarsi per tutta la vita. Le ragazze pensano sempre così: l'impegno è minimo e si può non far nascere alcun sospetto nell'ambiente in cui si vive. Si rimane pulite e ricche.-
Per un attimo il magistrato fu attraversato da un brivido pensando a quanto Antonella dovesse aver riso delle sue idee idealiste e ingenue. Del suo farle la predica. Pensava di educarla. Lei invece l'aveva giocato. L'aveva usato per avere una copertura di rispettabilità.
Offrì al poliziotto una bibita. Faceva caldo anche in giardino. 
- Le poteva andar bene. E invece ha incontrato un cliente maniaco. Un assassino. Ha fatto un'orribile fine .- Continuò il poliziotto sorseggiando una coca-cola ghiacciata. -Se la vuol vedere può venire domattina all'obitorio. - 
-No no- disse in fretta il magistrato che non guardava neppure i film dell'orrore alla televisione -Preferisco ricordarla com'era-.
-Le faremo sapere gli sviluppi delle indagini.-

Nella villa di Giovanni ritornò il silenzio. Un silenzio gravido di tristezza e di vuoto. Cenò in fretta, quattro bocconi e poi in giardino. Prese dal frigo una bottiglia di Tocai e una grossa fetta d'anguria. E pensò che quando sarebbero finiti l'una e l'altra si sarebbe sentito un po' meglio.
Rabbia, era soprattutto rabbia quello che sentiva. Per non aver capito, per essere stato giocato, per aver fatto ancora una volta cilecca nella vita. Ma la rabbia si univa a un sottile dolore, da privazione, un dolore che gli si insinuava nella carne come una ferita. Antonella che dava luce alla sua casa, che faceva tintinnare con la sua fresca giovinezza le sue monotone giornate... 
Si versò un bicchiere. 
Il suo gabbiano bianco. Così l'aveva chiamata tra sè quando l'aveva conosciuta sulla scogliera. E come un gabbiano che si nutre nelle discariche di rifiuti, così anche lei aveva umiliato il suo giovane corpo, s'era negata alla freschezza . Buttò giù un altro bicchiere. L'anguria di cui aveva trangugiato la rossa polpa ghiacciata gli pesava sullo stomaco. Ma non era solo questo. -Vecchio stupido! Si disse tra i denti. Eppure tu di delinquenti dovresti intendertene!- Neppure per una volta aveva sospettato. 
La rivedeva ora come in un film nelle consuete scene di ogni giorno. La colazione assieme nel giardino e Veronica che serviva e Antonella che mangiava abbondantemente, tanto io non ingrasso, e poi il dolce lo mangio solo al mattino; la rivedeva cinguettante quando lo salutava per uscire, allegra ma anche un po' seria in fondo, non serena, questo l'aveva notato anche lui. Eppure non ci aveva dato peso, i giovani sono così, le difficoltà sembrano insuperabili a quell'età, la vita sembra sempre peggiore. Poi da adulti - aveva filosofeggiato Giovanni- si diventa più concilianti, si accettano le cose, forse ci si accontenta. Così aveva pensato qualche volta meditando sui seri sorrisi di Antonella. La rivedeva quando lo ascoltava la sera e le sue parole sembravano scorrere sul corpo di lei senza lasciare traccia. L'unico segno di vitalità era lo scuotere i lunghi capelli e il sorriso che tante volte gli regalava. Per il resto era tutta apatia. Qualche battuta, come se non fosse stata lei a parlare, cose scontate, qualche osservazione sulle sue parole. Ma a Giovanni bastava. Aveva creduto che Antonella si trovasse bene con lui, non osava sperare che lo amasse, sperava soltanto che non se ne andasse troppo presto.
A letto Antonella, sempre così assente e apatica, si rivelava invece dotata di grande intuizione, capace di anticipare i suoi desideri. Era un'amante stupenda. Languida e quasi distaccata, capace di non esistere eppure decisa nel palleggiare il gioco, senza ripensamenti nè abbandoni. Dopo, era strano, non gli concedeva mai un momento di tenerezza anche se Giovanni l'avrebbe desiderato. Si alzava in fretta . Aveva sempre qualcosa di urgente da fare. Oppure nel letto gli voltava le spalle.
Il vino stava per finire ma Giovanni non si sentiva affatto meglio. La sua camera deserta quella sera lo spaventava. Eppure era abituato alla solitudine. Da quando sua madre era morta era vissuto per cinque anni da solo. Veronica mandava avanti la casa ma Giovanni non aveva mai voluto che si fermasse anche la notte. Aveva bisogno del silenzio della sua casa. Ora invece quel vuoto gli sembrava tremendo.

Erano passati tre anni dalla morte di Antonella e Giovanni si era a poco a poco rassegnato. Con il tempo aveva ripreso d'estate a perlustrare gli scogli guardando le belle ragazze e sognando che qualcuna sarebbe diventata per lui il suo gabbiano bianco. In fondo tra tante - pensava incorreggibile Giovanni - qualcuna come lui la voleva doveva pur esistere.



Finalista al premio S.Chiara e pubblicato nell'antologia "Nella fucina delle parole" Campanotto editore 1997

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Muto

 



"Il vecchio non parla. Sorride con il suo sorriso indefinibile non sapresti se di gioia o di tristezza infinita. Sono andato ieri a Comeno nel bosco con Grillo e gli abbiamo portato da mangiare". 
Concitato, emozionato, Santo raccontò così agli amici che sedevano all'osteria sotto un fresco pergolato la sua avventura. Si sentiva strano. Non capiva. E l'essere inquieto non lo disturbava spiacevolmente come succede agli altri.
Gli amici scossero il capo. Fecero qualche battuta, passarono ai discorsi di sempre.
Santo ebbe la sensazione che la sua esperienza non poteva essere capita. Forse non meritava raccontarla neppure. A passi inquieti ritornò verso casa, alla vita di sempre. Un po' bigia. Un po' stretta.

Era diventato muto. Oppure non gli importava più di parlare. All'improvviso. Un'illuminazione che aveva ridimensionato le cose. 
Eppure era sempre stato tra la gente. Aveva amato comprendere ed essere compreso. Aveva avuto molti amici. In paese lo conoscevano tutti.
Ma ad un tratto aveva capito che quello che credeva di aver compreso fino ad allora era così poco e così insensato. E aveva anche capito che la verità, quella che davvero ora gli importava, avrebbe avuto una vita ben difficile tra gli uomini.

Gli uomini vogliono essere confortati, rassicurati. Irrazionali e insicuri si appigliano a qualsiasi barlume di falsa o di vera certezza.
Per tutta la vita era stato come gli altri, uno fra i tanti, a credere a quello che faceva, a cercare di sistemare con ordine puntiglioso il caos della sua esperienza. 
Aveva costruito se stesso. Aveva costruito il suo mondo. S'era protetto. S'era reso umano.
Poi, all'improvviso, s'era reso conto di quanto poco tutto questo contasse.
S'era reso conto d'aver sempre barato. Ma averlo saputo non gli consentiva più di continuare il gioco. Perchè, per sua sventura, la sua coscienza non accettava facili accomodamenti come quella degli altri.

Avrebbe voluto parlare. Lo sentiva come una necessità feroce. 
Dire agli altri la verità che gli urgeva dentro. Ma tanto più voleva esprimere quello che sentiva, tanto meno le parole gli volevano uscire. Le labbra si serravano. Per gli amici che gli portavano cibo e coperte non aveva che idioti sorrisi.

Venivano quasi soltanto quelli che aveva amato di meno. Quelli che aveva sempre considerato come i meno importanti. Nessuno di coloro che aveva stimato davvero lo raggiunse mai.

Il vecchio se ne doleva. Gli sembrava un tradimento e un'ingratitudine dolorosa. Ma poi scoteva il capo. La vita è insensata. Lo aveva capito e accettato. Dunque perchè si stupiva ancora?

Veniva qualcuno perchè sentiva pietà. E gli portava da mangiare e gli dava qualche vestito di lana. Giocherellava con i suoi cani. Si sedeva un po' con lui imbarazzato. Parlare davanti a un muto fa sentire sempre un po' idioti. Per questo venivano a gruppi. Chiacchieravano tra di loro più che con lui. Ma perlomeno avevano la coscienza a posto. Gli avevano fatto un po' di compagnia.

Ritornò Santo. 
Venne tardi, la sera, tutto solo. Il vecchio aveva già dato da mangiare ai suoi cani e sedeva nel tramonto, abbandonandosi al mite sole.
Mai come quella sera s'era sentito una parte del tutto, una parte dell'erba e del sole, del tramonto e dell'eterno divenire.

Santo si accoccolò su una pietra e lo guardò a lungo. Lo conosceva da anni. Un uomo buono e generoso, socievole e allegro. Così lo aveva sempre conosciuto. Poi quell'improvvisa pazzia. Andarsene, vivere come un eremita, non parlare.
Non parlarono. Ma Santo si sentiva attratto da quell'uomo non più umano, gli sembrava che la sua compagnia anche muta gli potesse dare qualche cosa che quella rumorosa, banale degli altri ormai non gli dava più.

Così parlarono a lungo, muti, quella sera e Santo ritornò a casa più leggero e felice. Non temeva di diventare come il vecchio, anche lui muto, quando avesse capito la verità e avesse capito che la verità è indicibile. 
Non lo temeva. Pensava che la si potesse dire a tutti. Lui avrebbe parlato. Perchè lasciare che gli uomini continuassero le loro pazze, irrazionali follie? 
Li amava al punto da credere che il bene e la ragione si possano insegnare e che per l'uomo la ragione sia il vero bene. Peccava di presunzione certamente ma, se esistesse una giustizia, il suo amore avrebbe riscattato questa colpa.

Ma l'uomo non considera la ragione un bene. L'uomo guarda con orrore ciò che mette in crisi gli equilibri precari che si è in qualche modo costruito. Ciò che li può minacciare. 
Le sue rabbie. Le idee gridate. La partita. Lamentarsi. Figliare e proiettare nel futuro dei figli le proprie frustrazioni. Sognare di essere diversi da quelli che si è ed immaginare diverse le persone che si incontrano. Disilludersi e poi ricominciare con altri la stessa illusione. Inginocchiarsi davanti a qualche santo o a qualche santone. Pagare il guru o lo psicanalista. Stare con gli altri, non sentire l'immensità, l'assoluto, il non senso, la solitudine.
Così sono gli uomini.

Santo ritornava a trovare il vecchio al tramonto e ancora conversavano muti per ore.
Poi ritornava a casa più sereno e leggero.
Sentiva di capire.
Sentiva di aver capito.

Gli altri però non lo capivano. Si cominciò a parlare di lui.
"Non vi sembra un po' strano Santo negli ultimi tempi?" 
"E' andato dal medico?" 
"Sua moglie non ne può più. Me l'ha detto Verena che è la sua migliore amica." 
"Dev'essere pazzo."
Tutto il paese iniziò a parlare di lui e le parole come al solito presero vita , si gonfiarono a dismisura, crearono realtà inesistenti.
Sua moglie cominciò davvero a lamentarsi. Stava troppo tempo via. Perchè tornava così tardi? La cena si raffreddava sempre. E poi che discorsi con i figli! Non lo riconosceva più. Perchè non andava a farsi visitare da un medico?

Santo un po' alla volta si convinse di non stare bene. L'inquietudine e l'emozione, che in un primo momento aveva ritenuto controllabilissime, presero il sopravvento . Si sentiva vulnerabile. Stanco soprattutto.

Andò dal medico. Non che stesse male. Ma negli ultimi mesi era senza forze. Inquieto.

Il medico gli spiegò che sintomi banali e quasi inavvertibili possono essere molto più gravi di dolori o acciacchi conclamati e iniziò una serie di esami. 
Di inquietudine in inquietudine Santo passò attraverso attese e preoccupazioni fino al responso finale. Ma non c'era da preoccuparsi, lo confortò il medico. Grande cosa la prevenzione. L'importante era sempre lo stadio in cui si coglievano le malattie. Importante era stare di buon animo.

Santo si sentiva malissimo. Sapeva che non avrebbe avuto la forza di combattere. E pensare che qualche mese prima aveva creduto, lui, di poter portare luce all'umanità infelice. La vita sarebbe proseguita senza di lui. La terra avrebbe scosso da sè l'insetto inopportuno, l'inopportuna spia del suo orrore. La vita sarebbe continuata tremenda. Nulla di bene in questo mondo, in cui di bene si parla a profusione in malafede perfetta, poteva essere fatto.

Dietro al suo funerale amici e parenti parlavano di lui. 
"Un uomo buono in fondo. Ma ultimamente strano. Era la malattia, forse. Talvolta cambia anche il carattere."
Avevano fretta di tornare dopo la scomoda visione della morte a pensare ai loro piccoli problemi, ai loro piccoli interessi. Importanti. Rassicuranti. Ad ascoltare i loro dei e a inchinarsi ai loro altari. A perseguire mete meschine e confortanti. A non sognare l'infinito. A non rischiare. Come aveva fatto Santo.




Pubblicato nell'antologia Narrativa, poesia e fotografia del Premio Lido di Roma Stango Editore 1997 

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Il ritorno

 


-Allora tutto ricomincia- disse Emmanuelle togliendosi il camice verde.
-Dopo tre anni di vita vagabonda è duro riprendere questi ritmi.-
-Tutto l'Istituto ti aspettava, professore.-
-Già...-
-E mi devi anche un lungo resoconto.-
Emmanuelle lo osservò. Era un po' più magro e abbronzato del solito ma per il resto era sempre lui. Allegro, disponibile, solido. Non sembrava che quei tre anni fossero passati sulla sua pelle. Sembrava avesse , come sempre, assimilato e neutralizzato ogni cosa nel suo spirito, senza residui.
-Questo fine settimana andiamo a sciare a Val d'Isère? - propose Paul.
Emmanuelle rimase in silenzio, indecisa. Avrebbe dovuto riabituare suo marito alle loro gite in montagna . 
-Vedremo- disse, ma poi subito aggiunse con entusiasmo:- Sono così contenta che tu sia ritornato! - 
-Sei la prima persona che me lo dice. -
-A casa tua deve essere stato un inferno.-
-Ti racconterò. -
-Mi devi raccontare tutto, tutto. In questi anni non ti sei mai fatto vivo. Come hai potuto?-
-All'inizio pensavo che non sarei più ritornato. Poi, quando ho cominciato a pensare a un possibile ritorno, non trovavo le parole.-
-Non ci capisco proprio nulla. Perchè sei partito? Perchè sei ritornato? D'accordo. Cercherò di essere libera sabato prossimo.-

La lunga amicizia di Paul e Emmanuelle durava da quasi vent'anni. Da quando Emmanuelle, ottenuta da poco la specializzazione in neurochirurgia, era andata a lavorare nell'Istituto di Patologia dell'Ospedale di Lione. Era stata in quegli anni il suo braccio destro, quella che decideva un po' tutto nell'Istituto e in più la sua confidente, la sua amica, la sua compagna in montagna. Nient'altro. Alle spalle avevano entrambi una famiglia, dei figli e nessuna voglia di cambiare la loro vita. Qualche volta però, specie dopo che Paul aveva conosciuto Monique, Emmanuelle si era chiesta se non sarebbe stato meglio approfittare di qualcuna delle tante occasioni di intimità che avevano avuto in quegli anni per mostrarsi disponibile ad andare più in là del loro casto rapporto. Lo aveva desiderato molte volte. Veder brillare i suoi occhi come quando guardavano Monique.

Venerdì a Lione il tempo era decisamente brutto . Una fredda giornata di gennaio, piovigginosa e brumosa.
-In montagna nevicherà. Vuol dire che anziché sciare chiacchiereremo davanti al caminetto- Era in fondo quello che Emmanuelle desiderava. 
Durante il tragitto parole banali e senza importanza. Lo sentiva lontano. Era difficile recuperare il tempo perduto. Quando , quasi ogni sera, uscivano assieme dal lavoro e, prima di rientrare nelle rispettive case, passeggiavano lungo il fiume. Avevano scoperto , durante quelle loro passeggiate, di avere tanti pensieri che li accomunavano, di essere, al di là delle differenze di età e di esperienze, per molti aspetti simili e di avere in comune anche tante debolezze. Ed erano forse proprio queste che li univano di più. Ad esempio la paura di lasciare una condizione di vita nel complesso sciatta e mediocre per abbandonarsi a emozioni più intense. Entrambi preferivano la monotonia rassicurante della vita quotidiana a un rischio che forse poteva portarli a una maggiore felicità. 
Paul però era improvvisamente cambiato da quando aveva conosciuto Monique. Quello che aveva davanti a lei non era più il Paul di un tempo. Gli anni che lei non conosceva li separavano inesorabilmente.

-Che caldo- si stupì Emmanuelle entrando e meravigliandosi di trovare i caloriferi accesi.
-Quando sono ritornato- spiegò Paul -mi sono rifugiato qui per un po'. Non ero ancora pronto a ricominciare. Non sapevo se ce l'avrei fatta. Sarò rimasto da solo una quindicina di giorni. Sciavo, mangiavo, mi piaceva lasciarmi intirizzire dal freddo fin quasi a congelarmi. Poi rientravo e con dolore mi strappavo il freddo di dosso. Il sangue ricominciava a circolare. Mi sentivo rinascere. Avevo bisogno di fare il punto sulla mia vita. Avevo bisogno di pensare. Ma forse è meglio che cominci dall'inizio.-
-Certo. Finora non ho capito nulla.-
La neve continuava a cadere fitta sulle case. Emmanuelle guardava dietro i vetri della finestra gli ampi fiocchi. Paul intanto aveva acceso il caminetto e stava preparando due punch.
-Ho solamente del punch al mandarino. Ti va?-
-E' sempre stato il mio preferito.-
-Scusa.-
Il passato era davvero molto lontano.

Emmanuelle ripensava a quando era arrivata Monique nell'Istituto. Una borsa di studio per sei mesi. Ventisette anni, bella, di una bellezza strana che non poteva passare inosservata. Limpida, solare, con un sorriso aperto e grandi occhi trasparenti. Eppure c'era in lei qualche cosa di duro, di forte, di deciso. Magrissima, indossava quasi sempre jeans e magliette scure. Il nero metteva in risalto i capelli biondi e l'azzurro inquietante dei suoi occhi. Emmanuelle aveva visto Paul cambiare in poco tempo. La seguiva con lo sguardo. Talvolta i suoi occhi si perdevano senza colore dietro pensieri lontani. Talvolta si incrociavano con quelli di Monique al di sopra dei camici verdi dei colleghi e brillavano di una luce che Emmanuelle non riconosceva .
Tutto l'Istituto risentì dell'arrivo di Monique. Il professore, gran lavoratore da sempre, che amava avere tutto sotto controllo e non lesinava tempo e fatica, rimanendo talvolta per delle ore dopo la fine del suo lavoro a controllare la parte amministrativa e burocratica, era diventato più trascurante, più affrettato. Spesso zittiva sgarbatamente quelli che gli prospettavano alla fine del lavoro qualche problema. E poi era intervenuto con decisione, rendendosi conto che l'Istituto era ostile a Monique e aveva detto a Emmanuelle, con una voce insolitamente dura , che era un atteggiamento che doveva cambiare, che non voleva pettegolezzi nel suo Istituto.
Già, su Monique e Paul si malignava. D'altronde si era sempre malignato lì. Anche sul loro rapporto. Ma era naturale, pensava Emmanuelle. In fondo c'è bisogno in un Ospedale di qualche stupidaggine senza importanza per dimenticare la quotidiana visione del male di vivere e rendersela sopportabile.

-Ricordi quando arrivò Monique- cominciò a dire Paul -e ti chiesi di aiutarmi a renderle l'ambiente meno ostile? Che tutti fossero contrari alla sua freschezza, alla sua giovinezza, mi sembrava un segno di mediocrità terribile e me la rendeva più cara. D'altronde era sufficiente il suo sorriso, il suo corpo fragile ma determinato, dolce e duro a incantarmi. Credo di essermene innamorato dal primo giorno.
Uno stupido vecchio, mi dicevo, uno stupido vecchio che cerca ciò che gli sta sfuggendo e vuole compensarsi del tempo perduto. All'improvviso il tempo impiegato a lavorare , il tempo volato di questi miei anni , mi sembrò sprecato. Mi sembrava di avere ancora in testa i sogni senza confine della giovinezza e la speranza di poterli realizzare. E invece lo specchio implacabile mi rimandava l'immagine di una persona di cinquantacinque anni con più tempo alle spalle che futuro. Analizzavo spietato la mia situazione. Tipica, mi dicevo. Scontata. Incantarsi davanti alla giovinezza e volerla afferrare illudendosi così di ridiventare giovani come si era l'altro ieri. Al convegno di Avignone...-
Emmanuelle non lo lasciò proseguire. -Non ci sono venuta per questo. Sapevo che volevi stare solo con Monique- disse con un leggero accenno di balbuzie. Le succedeva quando era emozionata. 
-Abbiamo vissuto giorni stupendi.- Non avrebbe voluto sentirglielo dire .
-E allora hai lasciato tutto e sei fuggito con lei.-
-No, non me ne sono andato per questo.- Paul rimase in silenzio per un po' poi proseguì quasi parlasse a se stesso: -non si dovrebbe mai essere così felici. Lo pensavo un tempo quando leggevo l'Iliade e osservavo che, con grande intuizione, Omero aveva colto questa verità rendendo ogni personaggio più coraggioso, più glorioso, insomma migliore nel momento che precede la sua fine. Ma quella volta non ero in vena di filosofare, tutto intento ad assaporare quella cascata di vita inaspettata dopo anni di lavoro e di rigida disciplina. Tutto finì all'improvviso. Avevo fatto dei controlli, così, com'ero solito fare, ed ero andato a ritirare le risposte. Ecco.- E le mise sotto gli occhi di Emmanuelle - dottoressa che ne dici? - Emmanuelle guardò, poi alzò lo sguardo incredula su di lui. Un caso eclatante di leucemia. Proprio senza speranza.
-Rifeci gli esami. Ne feci degli altri. La stessa risposta. Avevo pochi mesi, forse un anno di vita. Rimasi annichilito, poi non so perchè tutto mi sembrò irreale, magico, come quando da bambino ero nella tenda durante un temporale e pensavo che il fulmine non mi avrebbe colpito. Andai da Monique le raccontai... 
-E a me perchè non hai detto nulla?- lo interruppe suo malgrado Emmanuelle .
-Tu mi avresti dato dei consigli, il tuo appoggio, per quanto ti sarebbe stato possibile. Ma io non avevo bisogno di parole. Desideravo qualcuno disponibile a fare per me anche una pazzia. Diedi a Monique la cartella dei reperti. La vidi sbiancare. Poi riprendersi. Sorridermi. Mi chiese: che cosa desideri di più? Che cosa desideravo, che cosa volevo fare degli ultimi mesi della mia vita? Era come l'ultima sigaretta. Un sogno io l'avevo, partire. Nella mia vita avevo fatto sì molti viaggi ma non mi ero mai fermato in qualche luogo per un tempo abbastanza lungo che mi consentisse di calarmi davvero in realtà diverse dalla mia. Protetto dalla nostra società, all'interno di ideologie in declino, confortato da false sicurezze, ero vissuto senza mettere a confronto le mie idee con la vita. Senza allargare i miei orizzonti. Ecco, era questo che desideravo. Mi sembrava di averlo sognato da sempre. Non avevo dubbi. Finora una fuga mi sarebbe costata troppo. Avrei dovuto renderne conto ai miei mogli e figli, che diventavano sempre più esigenti e voraci del mio affetto e del mio denaro. Ero stufo di recitare il ruolo che da vent'anni mi ero imposto, coerente diligente noioso. Ormai non avevo molto da perdere. Io potevo, ma Monique? Monique aveva tutto il suo futuro davanti, la sua carriera, tutto ancora da definire.
-Prenoterò l'aereo. Me ne occupo io. Partiremo in settimana. 
-Perderai la tua borsa di studio...-
-Tanto tra due mesi scadeva- Monique era allegra e sicura come sempre. Nessuna esitazione. -Guarda che non lo faccio per te. A me va benissimo.- Tagliava i ponti così, senza paura, con la famiglia con il lavoro con le sue ambizioni. Quello che io non avevo mai osato. La sua forza e la sua incoscienza mi affascinavano.

I primi tempi li passammo a fare gli europei ai tropici. Un residence che si mangiava moltissimi dei nostri soldi, pasti al ristorante. Io ho sempre amato la pesca subacquea e in quei mari stupendi mi perdevo a osservare i fondali scintillanti. Erano momenti di esaltazione e di trasporto incredibili. Eppure alle volte al di là della felicità, penetrava in me l'idea che dovevo liberare Monique al più presto da quel vincolo, che avrei potuto sparire così, un piccolo errore e non sarei risalito e lei sarebbe stata libera di riprendere, era ancora in tempo, la sua vita. Poi il desiderio di vivere, anche se per poco, aveva il sopravvento. Col cuore in gola riemergevo, mi inebriavo del sole e della luce. Respiravo. 
Nei mesi seguenti girammo in diversi paesi. I soldi ci servivano soprattutto per gli spostamenti aerei. Quanto al resto avevamo imparato ad arrangiarci. Avevamo scoperto che si poteva vivere con poco affittando delle piccole capanne e scambiando il quotidiano pescato, sempre molto abbondante, con frutta e riso. Avevamo imparato a distinguere i comfort indispensabili da quelli di cui potevamo benissimo fare a meno. Avevamo capito che l'essenziale ci consentiva la mobilità, il superfluo invece ci avrebbe ancorato a qualche luogo. Avrebbe ricucito quegli stessi legami che avevamo appena strappato alle nostre spalle.-Mesi stupendi, pensò Paul, ricordando quel periodo in cui la libertà sconfinata si coniugava con il loro amore che allora viveva il suo apice, la luce adamantina al suo culmine quando le ombre sono assenti e tutto si delinea nitido e senza inesattezze.
-Avevo ripreso a dipingere. -continuò poi a raccontare- Erano anni che non lo facevo. A Lione non ne avrei mai avuto il tempo e poi a casa mia tutti avrebbero riso. Mia moglie è abituata nella sua galleria a ben altri artisti e io certamente non sono un grande pittore. Ma trascorrevo ore e ore in quell'opera di creazione che mi appagava e, se pure mi sfiniva di stanchezza, mi dava anche una carica che mai avevo conosciuto.-
Emmanuelle ogni tanto andava alla finestra e contemplava i fiocchi di neve che continuavano a cadere inesorabili. Strano, si sentiva triste senza motivo, come se le dispiacesse che Paul fosse stato felice senza di lei. Le sue parole le arrivavano sfocate e irreali. 
-Nei nostri viaggi in Thailandia, in Patagonia, in Perù, Monique raccoglieva pietre preziose, acquistava piccoli monili dagli indigeni , poi li abbelliva e quando ci fermavamo apriva qualche piccolo negozio e li faceva vendere da ragazzi del luogo ai turisti. Aveva nei confronti della gente un incredibile carisma. La seguivano volentieri, le portavano i bambini da curare. La fama che era un medico si diffondeva velocemente dove arrivavamo e ancor più quella che Monique non chiedeva nessun compenso, le bastava qualche sorriso e quello che ciascuno le poteva offrire, pollame, ananas, qualche amuleto.-
-E la tua malattia -lo interruppe Emmanuelle -che ne è stato della tua malattia? -
-Non me lo so spiegare davvero. Era trascorso più di un anno. Più di quanto potessi ragionevolmente sperare. Ero sempre vivo. E non mi ero sentito mai così bene. Felice, rilassato, pieno di entusiasmo. Non osavo ripensare ai momenti in cui avevo scoperto la malattia. Non osavo pensare che nessun medico avrebbe scommesso un dollaro sull'ipotesi che io superassi quell'anno. Mi sentivo magico, protetto da qualche prodigio. Monique mi convinse a rifare gli esami. Era l'unica strada per metterci veramente il cuore in pace. Per liberarci da un incubo. E così mi sciolsi anche dalla paura sottile che mi aveva tormentato in quei mesi. I risultati furono sorprendenti. Ero miracolosamente guarito. I parametri regrediti a livelli normali. Nessuna traccia della malattia. Rifeci gli esami per scrupolo in un altro laboratorio. La stessa risposta. Ero felice. Felice. Monique e io andammo a cena in un ristorante a festeggiare. Ma mentre tornavamo un po' stanchi e brilli fui preso da un pensiero nuovo. E adesso? Non aveva più senso la precarietà su cui era imperniata la nostra vita. Il nostro costringerci a vivere alla giornata perchè il futuro non poteva essere pensabile. Adesso bisognava pensare al futuro. 
Monique quando sentì la mia inquietudine mi rasserenò. Nella vita si è sempre precari, è solo presunzione pensare di avere un domani. Bisogna accettare la condizione umana con umiltà. Credere di avere nelle mani la propria esistenza, credere di poter razionalmente programmare e fissare... presunzione e follia che rendono l'uomo occidentale inquieto e infelice! 
Monique era entusiasta della gente che avevamo conosciuto, li trovava più saggi, più felici di noi e comunicava con loro con grande facilità. Aveva sempre avuto una grande abilità linguistica, conosceva bene l'inglese e lo spagnolo, ma soprattutto sapeva sintonizzarsi sulle loro emozioni, sul loro modo di concepire la vita. Io invece rimanevo sempre un po' estraneo, un po' troppo critico. Anche se in fondo mi ero avventurato in quella che credevo un'esperienza estrema proprio per il fastidio e la noia del nostro mondo asfittico e scontato . 
Non riuscivo però come Monique a immergermi senza riserve nella vita. Non riuscivo a lasciarmi coinvolgere. 
Osservavo, e non riuscivo a non farlo, come i nostri miti fasulli, svenduti attraverso la televisione, che era penetrata fino nelle più umili capanne, mettevano in crisi la loro rassegnata forza a sopportare anche la miseria estrema. Osservavo come diventavano sempre più inquieti, pronti a lasciare le loro case, i loro figli persino, per volare verso il finto Eldorado dell'Occidente che, il più delle volte, li avrebbe fagocitati costringendoli a umilianti mestieri . 
Mi convincevo sempre di più che l'ingenuità e il vivere nell'ignoranza sono un falso bene e che il male minore è sempre il recupero che noi, attraverso millenni di cultura e di errori, riusciamo a fare di quel poco di sereno che all'uomo è concesso. Tutto questo mi portava a prendere le distanze dalla realtà in cui vivevo, a essere meno entusiasta, a guardare con spirito disincantato quella realtà umana così viva e vitale, così autentica eppure così fragile .
Trascorse così un altro anno, un anno solare, arioso, felice se osassi dire questa parola che mi sembra sempre troppo grande per la condizione umana.-
-Non ho ancora capito perchè te ne sei andato da Monique. O è stata lei a lasciarti?-
Paul rimase per un po' in silenzio immerso in un suo privato dolore. Quando riprese a parlare le sue parole erano opache, un po' ruvide. -Cominciai a poco a poco ad avere la sensazione che qualcosa si stesse incrinando tra di noi. Monique era stranamente inquieta. Una sera cercai uno spiraglio, trovandola disposta a confidarsi. Mi disse, scherzando, che si sentiva vecchia. Ora doveva pensare al futuro. Supposi che mi stesse rimproverando il sacrificio che aveva fatto per me, che si stesse pentendo di aver tagliato i ponti con l'Europa, che stesse pensando alle difficoltà di reinserirsi nel lavoro dopo quasi tre anni. In fondo anch'io pensavo spesso alla Francia. Pensavo al lavoro, ai miei figli, al freddo, alle nostre contraddizioni, alla nostra razionalità di cui non mi sarei mai del tutto liberato. 
-Ma scherzi!- Monique interruppe i miei pensieri -io non desidero affatto ritornare indietro! Qui mi sento a casa mia, tra amici. In Europa mi troverei per anni senza lavoro. La borsa di studio è stata un'occasione. Ma ho ancora anni di studio e di attesa davanti a me. Dovrei adattarmi a chiedere aiuto ai miei. E questo a trent'anni mi pesa.-
Lì invece grazie ai bizzarri monili che confezionava e all'abilità che avevamo acquisito nel destreggiarci, non avevamo grossi problemi.
-Ma allora perchè Monique ti diceva di essere vecchia?
chiese stupita Emmanuelle. 
-Voleva un figlio, Monique. Un figlio .Io la guardai senza parlare. Non ci avevo mai pensato. Pensavo che io le bastassi come lei bastava a me. Che io esaurissi tutto il suo bisogno d'amore come lei il mio. 
Un figlio. Dentro di me questa parola risuonò come un incubo. Mi resi conto che non avevo nessun desiderio di vincolarmi per sempre a quella vita che avevo vissuto con gioia sconfinata ma che pur sempre consideravo una parentesi, forse definitiva, ma comunque di breve durata. Non avevo mai pensato a un'esistenza ancora lunga da trascorrere in un mondo così diverso dal nostro. Un figlio... Io avevo già i miei figli, che avevo lasciato a Lione e a cui avevo pensato così poco in quegli anni. Avevano soddisfatto la mia esigenza, se mai l'avevo sentita, di perpetuarmi nel tempo. Erano stati un impegno, i miei figli, un sacrificio, un vincolo. E ora mi avrebbero posto mille problemi se fossi ritornato. 
Avventurarmi con Monique nell'esaltante esperienza di ricominciare daccapo? Illudermi di avere trent'anni e non quasi sessanta? Non sarebbe stata una follia? Nel mio animo quest'idea non trovava sede. Mi dibattevo inquieto perchè sapevo che Monique era testarda e non avrebbe cambiato i suoi propositi.
-Se mi amassi- cominciò a dire.- Prima non era mai stata banale. Capii che la nostra giornata di sole stava terminando. Mi parve persino di leggere nel suo sguardo una traccia d'odio. Cominciai a pensare seriamente a un possibile ritorno. Ricordai che in quegli anni non avevo mai scritto a nessuno. Mi misi a scrivere disperatamente. Ma come trovare le parole? Come spiegare? Come giustificarmi? Continuavo a voler bene a Monique ma sentivo che qualcosa si era rotto in maniera definitiva tra di noi. Passavamo intere giornate senza incontrarci e anche quando eravamo vicini preferivamo restare in silenzio. Ognuno di noi viveva sprofondato nel suo rovello privato. 
Intanto Monique si era messa a frequentare un americano, un reduce dal Vietnam, che dopo quell'esperienza di morte, di droga e di orrore non era riuscito a reinserirsi nella vita civile. Qualcosa si era spezzato in lui, era un rottame che cercava soltanto una guida. Forse aveva avvertito come un tradimento che la società, dopo averlo mandato ragazzo di vent'anni ad ammazzare e a rischiare la vita, accettasse malvolentieri, quasi con fastidio, il suo ritorno. Forse, dopo aver vissuto per due anni nell'inferno, tutti i parametri normali gli sembravano follie. Non riusciva più ad accettarli. La droga a cui si era abituato in quegli anni aveva lasciato pesanti conseguenze sul suo fisico. Se ne stava seduto sulla riva del mare e Monique era spesso con lui. Monique ha la vocazione della missionaria! Pensai vedendoli. 
Li osservai per un po', sempre più vicini, sempre più allegri mentre lui cominciava a rifiorire. In fondo, osservai, era un bel ragazzo, alto, biondo, atletico. I suoi occhi inquieti e intelligenti ricominciavano a guardare la vita. 
Sarebbe stato certamente meglio partire subito. Me lo chiedeva Monique con gli occhi. Ma io non mi decidevo. Mi dicevo che non volevo lasciare Monique sola, Monique che forse non aveva ancora deciso. In realtà non ero capace di strapparmi di dosso quell'amore che mi era entrato nel sangue. E poi temevo il ritorno. Un giorno Monique mi parlò, mi pregò di andarmene, di lasciarla vivere la sua vita. Rimandando la partenza la facevo soffrire troppo. La sua decisione era definitiva, non c'era più posto per la speranza. 
Ma che cosa mi aspettava a Lione?. Solo risentimento, odio, indifferenza. Come potevo pensare che mi accogliessero diversamente? Ero diventato un estraneo per i miei figli. Per mia moglie lo sono sempre stato. Mi consolavo pensando all'Istituto, a te, alla mia città. In fondo io sono sempre rimasto radicato alla Francia. Ritentai ancora di scrivere qualche lettera ma mi rendevo conto che erano parole retoriche, che non corrispondevano affatto a quello che volevo dire. E poi come si poteva giustificare la mia fuga, il mio silenzio di anni? Forse era meglio ritornare all'improvviso. Presi in fretta la decisione, corsi all'aereoporto, le ore che dovevo trascorrere ancora a S. Domingo mi sembravano interminabili. Due giorni dopo ero in questo appartamento. Ci rimasi quindici giorni . Frastornato, distrutto. Ripensando alla mia felicità perduta.- 
-E il tuo ritorno a casa, com'è stato?- chiese Emmanuelle -Come ti ha accolto tua moglie?-
-Oh, tu conosci Ivonne. Con indifferenza, come se fossi partito la settimana precedente. Mi ha parlato per ore della sua galleria. Aveva solo quello nella testa. Ho potuto con difficoltà metterle sotto gli occhi i referti, raccontarle perchè ero fuggito.-
-E i tuoi figli?- 
-Con Jeanette è stato tremendo. Non mi ha salutato, non mi ha rivolto la parola. E suo fratello era solidale con lei. -Chi è questo intruso? Mamma, fallo andar via. Noi non lo conosciamo. Se ne è stato finché ha voluto con quella sgualdrina. Che se ne torni nei mari tropicali. Ah! Stava male, figuriamoci! -Questa è stata l'accoglienza dei miei figli. E anche ora l'atmosfera è plumbea. Non mi perdoneranno mai. -
Doveva consolarlo, le solite parole, a che servono le parole, avrebbe voluto la sua pelle, avrebbe consolato la sua pelle, senza equivoci, senza residui. 
-I ragazzi sono così. Categorici. Ma poi capiscono. Devi soltanto aver pazienza con loro. Li riconquisterai , ne sono certa.- Lo sentiva solo , sperduto, avrebbe voluto tenerlo tra le sue braccia e invece continuava a recitare il solito personaggio rassicurante, non era lei a parlare. 
-Sai darmi sempre tanta fiducia. - La guardava grato, con dolcezza poi aggiunse: -Vorrei anche che mi aiutassi a dimenticare Monique.- 
Era una proposta? 
-E' un'impresa troppo difficile per me- rispose senza esitazioni Emmanuelle. Era prudente, purtroppo, lo era sempre stata. E sapeva che non è facile confrontarsi col fantasma di un amore assoluto.


III Classificato al Premio " Carlo Ulcigrai " pubblicato sul supplemento n° 9 al "Bollettino delle Assicurazioni Generali"- 1996

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