NON E' FACILE

   Di Angela Buccella

 

Avevo un morto sotto il letto. Lo avevo visto ieri sera. Mi ero sdraiato sul pavimento, come facevo quando sentivo la necessità di pensare. Sì, la necessità. Uno può vivere benissimo anche senza pensare. Il pensare non dà lavoro. Il pensare non dà soldi. Il pensare distrugge. Distrugge .

Ero lì. Sdraiato. Dj Gruff pompava il suo ritmo nella mia testa “…dillo che sei un povero babbione di merda…”. A voce bassa io ripetevo. Quando volsi lo sguardo sotto il letto lo vidi. Bianco. Immobile. Chiusi gli occhi. Inspirai. Riaprii gli occhi era ancora lì.

“…dillo che sei un pirla …” Mi alzai da terra lasciando perdere il morto. Sono un pirla.

 

Ero un giovane ventottenne istruito. Anche io leggevo i quotidiani. Ogni tanto. In metrò oppure in treno. Quelle poche volte che ci andavo. Quelli vecchi. Che la gente dimenticava sui sedili. Anche io, a modo mio, ero ricco. Di giornali. Avevo letto che qualche persona viveva nei tumoli del cimitero. Per colpa della povertà. Io non ero ricco. Ma non vivevo in un cimitero. Sfogliavo con avidità le pagine, ma non era mai successo che qualcuno parlasse del morto che tenevo sotto il letto.

 

 

Io volevo bene al morto, la sera dividevo la mia cena con lui. Cercavo di infilargli il cibo in gola. Ma dopo un po' di tempo, il cibo non entrava più. Quello non inghiottiva. Così mi incazzavo. Lo prendevo a calci nello stomaco finché il cibo non usciva dal suo cavo orale.

Quel corpo aveva un nome. Io lo chiamavo "povero babbione di merda".  Il povero babbione di merda non andava mai in bagno. Per quello puzzava. Era un sacco di merda. Glielo dicevo. Continuava a puzzare.

 

Io lavoravo. In un laboratorio medico. Mi chiamavano esperto. Un tempo il mio lavoro mi piaceva, mi soddisfaceva. Ora pensavo al morto.

 

Il morto aveva addosso un paio di pantaloni marroni. Una sera, mentre cercavo di spostarlo da sotto al letto, mi resi conto che dello strano liquido giallastro gli impregnava il cavallo. "Povero babbione di merda vai a fare in culo." Gli sferrai un pugno in bocca. La sua testa cadde all'indietro. Come diceva il dj… "il tuo destino è quello degli scarsi", ma anche il destino del povero babbione di merda è un destino da scarso.

Me lo caricai in spalla e lo posai nei pressi della discarica. Avevo portato il cibo ai topi. Miei cari dolci  e teneri topini.

 

Squit - squit

 

Pensavo che l'essermi liberato del mio convivente avrebbe reso più felice, armoniosa e semplice la mia esistenza.

Quel morto mi aveva violentato.

Sapeva di essere più forte di me.

Mi aveva studiato.

Mi aveva inquadrato.

Aveva violato il mio corpo.

Aveva violato il mio interiore.

Mi aveva usato violenza.

Mi aveva usato violenza psicologica.

Usato violenza psicologica.

Violenza psicologica.

Psicologica.

 

Io sono alla ricerca.

Alla ricerca di un compagno. Non per sesso. Non per amore. Solo alla ricerca di un compagno. Di un fottutissimo compagno.

"Ehy compagno???!!!!! Dove sei? Dove cazzo sei? Dove minchia sei? Non ti devi nascondere sai?! Io ti voglio bene!" Urlavo. Avevo le lacrime agli occhi. Urlavo. Urlavo. Lo vidi, lo sollevai, lo strinsi a me e me lo riportai a casa. Era solo parte di lui. Ma potevo ancora farmi perdonare per essere stato intransigente.

Il dito mi guardava.

I topi avevano fatto una grande abbuffata.

 

Sai che anche io avevo una fidanzata? Eh si! Certo anche io, come tutti, avevo avuto una donna da amare. Evelina si chiamava. Ma io l'ho sempre chiamata Siryana. Siryana era il nome che avrei voluto avesse la mia futura moglie. Prima o poi mi sposerò. Evelina mi aveva lasciato. Nei nostri momenti d'intimità io la chiamavo con il nome femminile per eccellenza. Evelina piangeva. Era convinta che l'avessi tradita. Che la tradivo.

Lei non sapeva che mia madre si chiamava Siryana.

 

Mia madre viveva lontano da me. Noi non andavamo d'accordo. Ma l'unica cosa che faceva sì che io ricordassi che lei viveva era il suo nome: Siryana.

 

Prova a chiudere gli occhi.

Stai leggendo le mie parole.

Chiuditi in una stanza.

Possibilmente solo.

Solo.

Se è giorno abbassa le tapparelle.

Se è notte spegni il solo lume che ti dà luce.

Adesso poggia la tua testa sul cuscino e dormi.

Dormi.

Un sonno senza sogni.

Dormi.

Buonanotte.

 

Sono un bravo ragazzo. Un ragazzo che lavora. Io mi sveglio ogni mattina alle sei per uscire di casa. Porto con me una valigetta. Dentro ho libri. Dentro ho quablock. Dentro ho una penna nera. Dentro ho una penna rossa. Dentro non ho una penna blu. Il blu non mi piace proprio. E' il colore del cielo, nelle sue diverse gradazioni. Il cielo indica l'infinito. Il dito del mio ex convivente indica la vita. La vita che è in atto dopo la morte. Ma se lui vive ed è morto, forse tutti noi viviamo e siamo morti. Non guardate "Sesto senso"

 

Il silenzio può aiutare. Nel silenzio si sta zitti. Nel silenzio non è consentito parlare. Nel silenzio non è consentito respirare. Nel silenzio non è consentito sognare. Nel silenzio non è consentito vivere. Io vivo.

 

Il dito è deformato. Ormai sarà una settimana che è qui che mi guarda. Ogni tanto gli taglio l'unghia. Quella cresce. Ma siccome  a volte lo faccio distrattamente, più per dovere che per altro, finisce che anche un pezzettino di carne vola via. Il dito dorme con me. Prima di coricarmi lo poggio sul cuscino e con un fazzoletto lo copro. Lo riparo dal freddo.

Povero babbione di merda, non voglio che prenda la febbre.

Il dito non mangia. Spesso ho cercato a forza di infilargli almeno un po' di latte dall'incavo dell'unghia strappata, in un momento mio d'intransigenza. Il latte fa bene. Ma il povero babbione di merda è stupido.

 

 

Vivere con un'altra persona in casa, o con parte di una persona non è facile. Spesso noi ci scontriamo a causa delle nostre idee. A causa del modo diverso di trascorrere e vivere le giornate.

Lui non ha perso le sue brutte abitudini.

Dorme sempre.

Non mangia.

Non si lava.

Non trovi sia pazzesco?

 

Stamattina ho visto gli alieni. Si baciavano con le fate. Erano verdi. Le fate rosa e bianche. Non sono andato al lavoro.

Sono giorni che non ci vado.

Mi hanno licenziato.

 Loro non hanno visto gli alieni e le fate.

Io si!!! Ah ah ah!!

  Una fata si era avvicinata a me. Mi aveva chiesto se avevo della moneta. Aveva un bicchiere di carta preso da Mc. Donald. Aveva i capelli incolti, lunghi e neri. Le ho chiesto come si chiamava. Mi ha risposto "Ma si può sapere chi cazzo sei? Evapora và!".

Mi sono allontanato.

La fata non aveva cosparso con la sua polverina magica il mio corpo.

Fata del cazzo.

Fuori piove.

Non ho l'ombrello.

Mi bagno.

Forse dovrei cercarmi un nuovo lavoro. Ma come ho detto pensare non dà lavoro. Pensare non serve proprio a un cavolo. E io dovrei pensare.

  Il dito non esiste più.

Ho preso una decisione chiara e decisa. Come la Sambuca. Mi dava moltissime preoccupazioni. Impegnava la mia attenzione per un sacco di tempo. Così, un pomeriggio che non avevo voglia di uscire di casa per recarmi al supermercato per comperare qualche cosa da mettere sotto i denti, io l'ho ricoperto di maionese e ho fatto cena. 

Ma, caro lettore, caro amico mio, non ti devi preoccupare, lui non è morto, vive dentro me. L'ho messo al riparo dai pericoli del mondo. Dai pericoli della vita. Nel mio stomaco.

Oggi sono passato davanti ad uno strano e nuovo fast food. Ho dato un occhio al portafoglio. Avevo abbastanza soldi dietro. Sono entrato. Ho inghiottito per fame, per gola, per tutto, tre salsicce coperte di senape. Ho bevuto coca cola su coca cola. La pancia tutto ad un tratto ha iniziato a farmi male. Sono corso alla toilette. Mi sono liberato. Ma mi sono subito reso conto che probabilmente avevo espulso dal mio corpo anche il povero babbione di merda.

Iniziai a piangere. Tremavo. Mi accovacciai in un angolino vicino alla turca.

Pensavo alla fata.

A tutti gli anellini che aveva sulla faccia.

Pensavo al povero babbione di merda.

Che brutta fine che aveva fatto!! Scaricato in un cesso pubblico!!

"…dillo che sei un pirla"…

…sono un pirla. Sono un pirla. Sono un pirla. Pirla.

Quando facevo le elementari mi ricordo ero solito succhiarmi la pelle del braccio, fino a farla divenire rossa, livida. Scoprii il polso, alzando la camicia. Posai le labbra sulla carne bianca. Iniziai a succhiare. Piano piano sentivo che cresceva un'insofferenza sempre più grande dentro di me così misi in uso anche i denti. Questi mi penetravano la carne. Smisi soltanto quando sentii il sapore del sangue in gola. Non era logico, non era razionale che io mi facessi del male fisico. E poi avrei sporcato la camicia che indossavo.

 

Io non ricordo il mio nome. Nessuno mi chiama. La fata mi chiama "stronzo". Il povero babbione di merda non mi aveva mai chiamato. Ed io il mio nome non lo ricordavo. Chiamami tu. Dammi un nome. Non lasciarmi senza sapere chi sono. Ecco. Chiamami "pirla". Era il primo che mi aveva attribuito un nome…

 

"dillo che sei un pirla!

"Piacere. Sono pirla."

Queste furono le parole che pronunciai avvicinandomi alla fata. Lei mi guardò per pochi ma lunghissimi ed interminabili secondi mentre con le dita ossute si portava un mozzicone di sigaretta in bocca. Poi mi disse "senti bello io non 'ho tempo da perdere, devo tirare su moneta chiaro? Non me fa perdere tempo.." e si disperse verso una signora dicendo "Mi scusi per caso ha delle monetine?"

Io la seguii. Quando le fui dietro le dissi "se ti dò dei soldi" e le mostrai un pezzo da cinquanta "passi il pomeriggio con me?" lei prese la banconota la guardò contro luce, mi prese sottobraccio e disse "Te devi essere pazzo!!!!". Ci sedemmo su una panchina. Mi disse "allora? Come ti chiami?", "Pirla". La fata si mise a ridere. Io la baciai. Fiondai il mio volto sul suo. Lei si ritrasse. "Se cerchi una puttana…hai sbagliato!", abbassai lo sguardo… chi era una puttana? "Io ti amo", lei rise ancora, poi sputò a terra "Fanculo borghese del cazzo".

Si tenne le cinquanta carte.

Riamasi immobile.

Raccolsi il mozzicone della sigaretta che aveva fatto cadere per terra.

Le passai a fianco di nuovo. Stavolta non mi guardò neppure. Non mi chiamò "stronzo" né mi mandò a quel paese.

Comprai un biglietto della metropolitana. Lasciai passare davanti a me non so quanti vagoni.

La fata apparve. Era con due ragazzi. Ridevano. Io la fissavo. Lei no.

Mi accorsi che aveva bucato i pantaloni. Avrei voluto dirglielo. Ma lei non me lo permetteva. E sembrava comunque che non gliene importasse molto.

Mi alzai dalla panca. Superai con un piede la linea gialla.

Gridai.

"Fata ti amo!"

"Ti amo".

… e mentre caddi urlando la guardai.

Lei no.

La fata non mi degnò neanche di uno sguardo. 

Angela Buccella

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