Di Francesco da Milano
Un
anno di
scuola era
un’eternitá,
tanto che
l’espressione
piú comune
fra noi
bambini era:
“sí, fra
un anno;”
e stava
a significare
mai piú,
o se
eri fortunato
nel lontanissimo
futuro. Quando
uno diceva:
“Mio Papá
mi comprerá
questo o
l’altro,” la
risposta sicura
era: “e
sí, fra
un anno!”
Gli
anni passano
ad una
velocitá relativistica,
-Equazione-
1
anno per
un adulto
= 100
anni per
un bambino
É
come se
viaggiassimo
ad una
“Velocita Quasi
Luce” dove
il tempo
tra osservante
e osservato
é relativo.
-
Vedrai, se
fai il
bravo, l’anno
prossimo ti
compriamo.... –
Queste
sono le
promesse che
tutti i
genitori fanno
ai loro
figli ma
i bambini
le interpretano
come: “sí,
fra un
anno!” Poi,
se e
quando il
regalo arriverá
il bambino
risponde: - Mi
avevate detto
un anno,
ma per
me ne
sono passati
cento! - In
quei primi
anni di
scuola, credevo
che la
mia “ETÁ”
sarebbe stata
una condizione
permanente. Al
mondo c’eravamo
noi bambini,
i fratelli
e sorelle
piú grandi,
poi i
Genitori e
i Nonni
e che
cosí sarebbe
stato per
sempre.
Non
é che
fossi ritardato,
mi rendevo
conto che
anche Genitori
e Nonni
erano stati
bambini e
che di
conseguenza “un
giorno” sarei
cresciuto anch’io.
Ma quando?
“Si, fra
un anno!”
Intanto avevo
davanti a me
quattro anni
di scuole
elementari che,
in “Tempo
Relativistico,”
come da
equazione, erano
per me
quattrocento.
Ci sarebbero
state poi
le Scuole
Medie, altri
trecento anni.
Quel futuro,
perció, era
talmente remoto
da non
poterlo
prendere neppure
in considerazione.
Quando si
facevano domande
inopportune la
risposta era
sempre: - quando
sarai grande
capirai. – “Sí,
fra un
anno!” - Quanto
poco ricordiamo
di essere
stati bambini.
Andare a
scuola a
me piaceva,
la cosa
atroce era
alzarsi in
quelle mattine
invernali di
Milano. Alle
sette era
ancora buio
pesto e
in casa
mia c’era
un freddo
atroce. Quando
si andava
a letto,
ci si
vestiva invece
di spogliarsi.
Il nostro
“appartamento,”
scritto e
ricordato fra
virgolette, era
al quinto
piano di
un palazzo
sopravissuto
alle bombe,
in Viale
Abruzzi, proprio
sotto il solaio
e non
chiedetemi se
c’era l’ascensore.
Consisteva in:
corridoio d’entrata,
dopo due
passi sulla
sinistra c’era
il tinello,
quindi sempre
a sinistra
un cucinino
a corridoio
con gabinetto
separato ma
dentro la
stessa cucina.
In fondo
al corridoio,
si fá
per dire,
sará stato
lungo meno
di tre
metri, c’era
la camera
da letto.
Sarebbe stato
appena appena
sufficente per
una coppia.
Noi eravamo
in sette.
Vi faccio
i conti.
C’ero io,
il piú
piccolo; poi
Guido di
dodici anni;
Lillo di
quattordici;
quindi mia
sorella Maria
di diciassette
e infine
Gianni, il
piú grande,
di venti.
Se
aggiungete a
noi tutti
Papá e
Mamma i
conti tornano.
Eravamo sette.
Come ci
arrangiavamo
per dormire
la notte?
Questo é
un mistero,
ne ho
dei vaghi
ricordi. Ricordo
una brandina
che si
apriva alla
sera per
poi richiuderla
al mattino
per permettere
la deambulazione
e un
piccolo materassino
buttato a
terra che
doveva sparire
al piú
presto insieme
alla branda.
Da parte
mia dormivo
nel letto
matrimoniale
con la
Mamma e
quando Papá
era in
giro per
lavoro, accadeva
molto spesso,
ci entrava
anche mia
sorella. Come
poteva la
Mamma accudire
tutti noi
preparando pranzi
e cene,
lavare e
stirare? Riusciva
perfino a
mettere la
cera sulle
mattonelle tanto
che quando
in estate
c’erano gli
scarafaggi, ci
facevano il
pattinaggio artistico.
In tutto
questo, naturalmente,
l’aiutava mia
sorella Maria
che se
sgarrava d’un
filo con
orari di
ritorno da
scuola o
cose simili,
si prendeva
delle gran
tirate di
capelli e
non per
“modo di
dire.” Ci
chiamavano “l’Esercito
Silenzioso dei
Lazzano.” A
casa, specialmente
se c’era
Papá, non
si doveva
fare alcun
rumore o
discussione.
Papá era
lo spauracchio
per tutti,
l’uomo nero,
il castigamatti,
tanto che
la Mamma
usava “il
suo nome”
come forza
di terrore:
- quando viene,
lo dico
a Papá!
– Questo metteva
tutti a
tacere, cercando
saliva nella
bocca improvvisamente
arida. La
guerra era
finita solo
da due
anni e
la
vita
era molto
dura almeno
per chi
doveva procurare
vitto e
alloggio alla
propria famiglia.
Alle otto
ero in
strada con
quella nebbia
Padana mischiata
al fumo
di tutti
i camini
e ciminiere
industriali della
cittá. A
volte ti
ritrovavi pezzi
di fuliggine,
grossi
come
coriandoli, sulla
testa e
le spalle.
Sotto al
cappotto avevo
il mio
grembiulino nero
con colletto
bianco e
grande fioccone
blu.
Vedere
a scuola
tutti gli
altri bambini
vestiti come
me, mi
faceva sentir
parte di
una comunitá.
La mia
Maestra era
eccezionale,
fú
sempre
la stessa
per tutti
i cinque
anni delle
Elementari e
si chiamava
“Signora Botta,”
É strano,
non ho
mai saputo
il suo
nome di
battesimo. Quello
che insegnava
a noi
bambini quella
donna saggia
era che
imparare, leggere,
non era
un castigo
ma era
un premio.
- Cosa
c’é di
piú bello
del sapere,
conoscere e
capire un
po’ di
tutto che
si mischia
poi nella
nostra mente
e ci
rende piú
Uomini conoscendo
il pensiero
e le
idee di
altri uomini,
dagli antichi
filosofi su
su fino
ai nostri
contemporanei. Non
é meraviglioso
sapere la
Geografia, la
Storia e
tutte le
altre materie
di
studio che
incontrerete
durante le
vostre scuole?
- Queste
erano le
parole che
ci diceva
la “Maestra”
in quei
lunghissimi anni
di Scuola
Elementare. Lei
era la
“Signora Maestra,”
lo era
letteralmente.
Quando qualche
volta si
assentava per
cinque o
dieci minuti,
a volte
anche piú
se andava
a vedere
il preside,
sceglieva quasi
sempre me
per badare
alla classe.
Divideva la
lavagna in
due con
una linea
in gesso;
scriveva quindi
in alto
Buoni e
Cattivi. Il
mio compito
sarebbe stato
quello di
scrivere i
nomi sulla
lavagna. Non
lo facevo
mai. Quando
tornava mi
chiedeva: - come
fai a
tenerli
cosí buoni,
tutti in
silenzio e
seduti ai
loro posti?
– -
Racconto delle
storie, - rispondevo, - anche
delle barzellette.
– Avevo una
grande facilitá
a raccontare
storie che
m’inventavo
lí per
lí, ricordo
una delle
mie barzellette
preferite: - “ Pierino,
hai fatto
la pipí?
– - Sí Mamma,
ho dimenticato
peró di
sbottonarmi i
calzoni! –
Ricordo
un bambino
enorme. Si
chiamava Lamura,
é incredibile
come possa
ricordare ancora
il suo
nome. Era
ripetente ed
era lo
spauracchio di
tutti per
la sua
forza e
aggressivitá.
Un giorno
gli dissi:
- Lamura, se
non la
pianti dovró
proprio scriverti
sulla lista
dei Cattivi!
– Rispose: - e se
non mi
“scancelli,”
io ti
aspetto fuori
dalla scuola
e ti
rompo la
faccia! - - Allora
ti cancello!
– Si misero
tutti a
ridere, tranne
lui che
non rideva
mai; diventammo
tuttavia amici.
Natale, come
si puó
dimenticare il
Natale di
quando si
aveva sei
o sette
anni! Tra
i miei
regali c’erano
sempre dei
libri,
Pinocchio,
le Favole
dei Fratelli
Grim, libri
di Salgari
ed anche
dei giocattoli.
A quell’etá
non mi
facevo domande
da dove
arrivassero.
Era
Gesú Bambino
e la
cosa finiva
lí. Diventando
piú grande
cominciavo a
farmi delle
domande. Come
mai i
miei libri
e giocattoli
erano sempre
usati e
piuttosto vecchi
in apparenza?
Seppi
cosí anni
dopo che
mia Sorella
Maria, con
una gran
faccia tosta,
andava per
le case
dei “Signori”
chiedendo se
avevano qualche
libro o
giocattolo per
i “Bambini
Poveri” che
lei stava
aiutando a
raccogliere per
il Natale.
E cosí,
grazie a
lei, anch’io
avevo
i miei
regali di
Natale ed
anche per
l’Epifania.
Fra tutti
i miei
regali quello
che ricordo
di piú
é una
macchinina rossa
che questa
volta era
nuova di
zecca. Me
la regaló
mio fratello
Gianni,
che
giá lavorava.
Ero affascinato
da questa
macchinina a
molla che
non cadeva
mai dal
tavolo. Aveva
una ruota
trasversale che
toccando il
bordo di
qualsiasi superfice,
la faceva
girare e
ricominciare
la sua
corsa. Ci
giocai letteralmente
per anni.
Che strani
possono essere
i ricordi
di un
bambino invecchiato!
Nel
1950, si
sposó mia
Sorella e
nel ’52
mio Fratello
Gianni.
“ L’appartamento” si faceva piú grande e i cinque piani di scale sempre piú faticosi da salire. Ma questa é un’altra storia.
da “ I RICORDI DI UN BIMBO INVECCHIATO”
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