Di Francesco da Milano
Il
treno era
finalmente partito.
Dopo baci
e abbracci
con lacrimucce
alla stazione,
mi ritrovavo
solo per
la prima
volta nella
mia giovane
vita. Lontano
da casa,
lasciando dietro
di me
genitori e
fratelli. Ecco
la grande
avventura. Partenza
da Milano
per raggiungere
la Colonia
di Misano
Mare. Il
viaggio era
organizzato dal
Dopolavoro “POSTE
E TELEGRAFI”
e pagato
da mio
fratello piú
grande che
appunto lavorava
per le
suddette.
Il
convoglio era
stracolmo di
bambini di
tutte le
etá che
con urla
e frastuono
si avviavano
verso la“Vacanza
Estiva.” Un
acre puzzo
di fumo
invadeva lo
scompartimento;
era il
1951 ed
il treno
a carbone
doveva aver
visto le
due Grandi
Guerre. Rantolava
come un
asmatico ad
una velocitá
non superiore
ai 30
Km. orari.
Il nostro
gruppo era
vigilato da
una maestrina
che si
sarebbe presa
cura di
noi per
tutta la
vacanza.
La
Signorina
era talmente
magra e
rinsecchita che
subito la
ribattezzai “Stecchino.”
La poverina
si dava
un gran
da fare
per tenere
a bada
i bambini
piú chiassosi,
ma con
poco successo.
Ne ricordo
uno in
particolare
che
si divertiva
a dar
calci negli
stinchi a
tutti quelli
che capitavano
a tiro,
finché gli
andó male.
Uno piú
grande di
lui gli
sferró un
gran pugno
nello stomaco.
Da quel
momento non
tiró piú
calci a
nessuno. All’improvviso
un temporale
estivo, con
lampi e
tuoni, si
scatenó sul
treno. Pioggia
e grandine
talmente fitta
da non
vedersi piú
la campagna.
Il treno
avanzava ancora
piú piano,
quasi a
passo d’uomo.
Con nostro
grande sollievo
il tutto
duró soltanto
una mezz’ora.
- Calma,
calma, il
temporale é
finito -
gridó Stecchino.
- Mettetevi
tutti a
sedere che
tra poco
vi porteranno
il sacchetto
con la
merenda. -
HUEEE.... -
Fu il
grido di
gioia che
si levó
da noi
tutti con
fame atavica
trasmessa da
generazione in
generazione.
Un inserviente
arrivó con
i sacchetti
di carta
contenenti: un
panino con
burro e
marmelleta, per
la precisione
una “michetta;”
questo era
il nome
che a
Milano si
dava a
quel tipo
di pane,
C’era anche
un Gianduiotto
Ferrero, triangolo
di cioccolato
avvolto in
carta dorata
come fosse
un formaggino.
Infine tre
biscotti Marie
ed una
mela. Non
avevo mai
visto tanto
ben di
Dio per
una merenda.
Finalmente arrivammo.
Un pullman
sgangherato ci
caricó tutti,
con valige
e cartelle
per i
compiti, lasciandoci
poi di
fronte ad
un edificio
enorme imbiancato
di fresco.
Ci portarono
subito in
una grande
camerata assegnando
un lettino
a ciascuno,
con armadietto
adiacente per
sistemare le
nostre cose.
Erano ormai
le sette
di sera
e cosí
andammo al
refettorio dove
ci fu
servita la
cena: minestrina
in brodo,
una schifezza
che soltanto
pochi mangiarono
e per
secondo spezzatino
e patate
nel rapporto
di uno
a dieci;
un pezzetto
di carne
e dieci
pezzoni di
patate. Fú
divorato senza
ripensamenti
tra il
sorriso delle
cameriere che
lo avevano servito
da pentole
giganti e
mestoli generosi.
pag.2
Non
capivo quasi
nulla di
quello che
si dicevano
fra di
loro e
non mi
raccapezzavo
del fatto
che potessero
parlare tanto
diversamente
da noi
di Milano
pur essendo
a soltanto
200 Km.
di distanza.
Alle nove
eravamo tutti
a letto
con Stecchino
in fondo
alla camerata
dietro una
tenda che
le dava
un po’
di privatezza.
Per assicurarsi
che fossimo
tutti a
letto, Stecchino
coperta da
una lunga
vestaglia, faceva
un ultimo
giro. Quando
passó di
fianco al
mio letto,
la vidi
avvicinarsi.
Sbirciavo nella
semi oscuritá
facendo finta
di dormire.
Avrei dovuto
forse aprire
gli occhi
cosí
evitavo quel
bacio che
mi diede
su una
guancia con
le sue
labbra aride.
Mi sono
sempre domandato
perché mi
diede quel
bacio. Non
aveva un
figlio suo
a cui
darlo? Sospirai
di sollievo
quando la
vidi allontanarsi.
Con
la mano
mi strofinai
la gota
dove mi
aveva baciato
e mi
misi subito
a dormire.
Il mattino
seguente tutti
in spiaggia,
correndo e
urlando
come ossessi
con i
nostri costumi
di lana
assicurati da
una cintura
per reggerli
su. Mi
misi a
giocare con
un altro
bambino con
cui avevo
fatto amicizia.
Cercavamo
conchiglie per
poi metterle
su castelli
di sabbia
come fanno
tutti i
bambini di
quell’etá.
Per noi
era una
cosa molto
seria e
andavamo in
giro a
vedere cosa
e come
facessero castelli
i nostri
concorrenti.
-
Cosa vuoi?
- Mi
disse in
malo modo
un bambino
affacendato nella
sua opera.
- Niente,
sto solo
guardando! -
- Non
voglio che
mi guardi,
vai via
ché
mi dai
fastidio.- Potei
tornare cosí
dal mio
amico e
mostrargli come
si potessero
fare le
guglie facendo
scivolare la
sabbia bagnata
fra le
mani e
per fere
i torrioni
bastava un
filo sottile
per tagliare
di netto
la sabbia.
Entusiasmati
ci mettemmo
all’opera.
Due ore
dopo di
paziente lavoro
si alzó
la marea
e ci
distrusse tutto.
- Un accidenti,
- disse il
mio compagno.
-
Sí, un
accidenti che
gli spacca
alla marea.
- Dissi
io rinforzando
la dose.
Non
potevamo immaginare
quali ben
altri disappunti
ci riservava
la vita.
Si
andó cosí
al refettorio
e subito
dopo a
fare il
sonnellino pomeridiano
che era
d’obbligo anche
per quelli
come me
che non
l’avevano mai
fatto.
Bisognava
ad ogni
modo starsene
a letto
per un’ora.
Ne approfittavo
per fare
i miei
compiti delle
vacanze, senza
farmi vedere
da Stecchino
che diceva
sempre con
la sua
voce sottile:
- ogni
cosa a
suo tempo.
–
Poi
si tornava
in spiaggia
ed il
mio amico
mi disse:
- andiamo a
vedere le
“Bagianne,”
che in
dialetto voleva
dire le
bambine. Queste
erano separate
da noi
per mezzo
di una
rete metallica
che divideva
il nostro
pezzo di
spiaggia dal
loro. Chissá
poi chi
le inventava
queste divisioni.
A scuola
era lo
stesso, classi
per maschi
e classi
per le
femmine. Il
perché era
per me
un mistero.
Lo chiesi
al mio
compagno che
disse tutto
saputo: - perché
le
femmine sono
sceme, giocano
con le
bambole e
cose stupide
come
“La
Bella Lavanderina”
ed altre
porcherie. -
Allora perché
vuoi andare
a
pag.
3
vederle?-
gli chiesi.
- Ma,
cosí per
passare il
tempo.- Ci
avviammo di
buon passo
verso la
rete. A
me non
sembravano sceme,
anzi le
trovavo carine
ma lontane
ed inaccessibili.
Di cosa
si poteva
parlare con
una bambina?
Si interessavano
forse di
calcio o
dei giornalini
di Mandrake
e Gordon?
Probabilmente
no; avrei
dovuto chiederlo
a qualcuna
di loro
ma chi
trovava il
coraggio. - A
me piace
quella con
le trecce!
- disse
il mio
amico.
- Quale,
quella che
salta e
ride come
una matta?
- - Si, proprio
quella.-
- Spiegami almeno
perché! - - Non
lo so,
mi piace
e basta.
–
-
Hei senti.
- Gridó
sfacciatamente.
La bimba
si giró
mostrandogli
la lingua.
- Te
l’ho detto
che erano
sceme. - In
quel momento
pensai di
aver capito
tutto sulle
ragazze: mai
chiamarne una
che non
conosci se
non vuoi
rimanerci male.
In quel
momento una
palla passó
sopra la
rete. Il
mio amico
si stava
allontanando
a testa
bassa. Raccolsi
la palla
pronto per
lanciarla dall’altra
parte quando
“un angelo”
si avvicinó.
- Mi
rendi la
palla? - -
Certo! - - Non
adesso, prima
dimmi come
ti chiami!
- - Mi
chiamo Franco.
- Non
ebbi neppure
il coraggio
di dire
“ e
tu? ” Lo disse
lei
ugualmente. -
Io mi
chiamo Virginia!
- Era
cosí bella
coi suoi
capelli biondi
e degli
occhioni azzurro
chiaro. Aveva
una peluria
tutt’attorno
alla
fronte
ed il
sole vi
si rifletteva
come in
uno specchio.
Il suo
corpo aveva
giá delle
forme femminili
ed io
mi sentivo
girare la
testa e
provai una
nuova sensazione
al basso
ventre. Forse
devo andare
al gabinetto,
pensai come
uno stupido.
Non riuscivo
a toglierle
gli occhi
di dosso
e avevo
la bocca
secca. Lei,
sorrideva luminosa.
- Vuoi
essere il
mio fidanzato?
- mi
chiese
biricchina. - -
Come fidanzato,
come quelli
che poi
si sposano?
–
-
Sí, proprio
cosí! - Come
avrei voluto
che l’altra
notte fosse
stata lei
ad avvicinarsi
al mio
letto e
darmi un
bacio. -
Domani torno
a casa,
- disse
all’improvviso
e sempre
sorridendo scappó
via. Sono
passati cinquant’anni,
ma
non lo
mai dimenticata.
Quando arrivai
alla camerata
mi accorsi
di avere
ancora la
palla tra
le mani.
da “ I RICORDI DI UN BIMBO INVECCHIATO”
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