Di Francesco Massinelli
Ma consideratemi ancora disimpegnato! V'è un velo solo, da spostare: agile e lieve dietro al davanzale. Sono un ufficiale generale di corpo d’armata ed ho un figlio scrittore. Tre son le donne che ho consolato alla presenza di mia moglie. Nulla m'osta, nulla mi si oppone, se cedo alle lusinghe che mettono in atto per farmi sentire unico. Per questo non nego che fremo quando le vedo. Ma le ho appena congedate. Sono fedele a mia moglie da sempre ma quando è tutta la mia vita a dirmi che non amo è impegnativo per me convincermi che son capace d’amare, che quelle tre donne posso in qualche modo aiutare. Fuori la luce accesa, due ombre scure scure. Poi, grazie a me, buio. La moglie a letto e una di loro che forse mi spia. Ricordo che aprii lo scrittoio e c'era ancora il tampone, il pennino e quell'odore. L'odore intenso di inchiostro chiuso lì da tanto, da quando le stilografiche erano un lusso e le penne a sfera non esistevano. In quello studio avevo letto una marea d'opere minori, zeppe d'errori, che non palesavano il mestiere degli artisti che le avevano redatte ma solo l'entusiasmo dell'imperizia. Ricordo che ho sopportato al tempo, supportando in tempo, la comprensione della letteratura in una lettura a tentoni, andante a tastoni. Vedevo il trasparire degli artisti, il senso più bello della loro miseria. Nei loro errori mi appariva un mondo infantile, inconscio, incontrollabile. La bellezza dell'indifeso come dell'indifendibile, di peso se rapportata alla perfezione della più felice opera maggiore, non era un profondo tradimento dell'amore nascosto nell'opera che non può diventare merce, impossibile da vendere. Quanto avrei voluto dire a quei critici di libri al taglio, venduti come pizze, se vi sfianca il rincorrer l’artista che non vi si concede, se poggiate la sicurezza sull’accumulo punti da non perdere. Un gladiolo, un narciso, un giacinto, una gardenia e delle gerbere feci cadere in terra per sbaglio, assorto com’ero nei miei pensieri. Ma urtando il tappeto fecero un rumore contenuto, adeguato all’ora tarda. Le due donne che giravano fuori non c'erano già più quando un lampo e poi un'altro aprirono di bianco il buio fino a mostrar la sagoma della darsena per un breve momento. Era ancora lì a spiarmi, la terza. Insieme alle altre viene da me per farsi correggere le bozze dei curriculum che manda in giro per avere una vitae lavorativa. Ma poi finiamo sempre per parlare dei loro problemi di cuore: non ravvisano uomini seri, diffidano orripilate dei modi morbosetti con cui vengono avvicinate, si sotterrerebbero pur di non farsi mai vedere con un capello fuori posto. Io, che son falso in buonafede, che chiedo spesso cose che il mio cuore non vuole, qualche volta le stuzzico nella contorsione mia. Con il dolore per quel che sono le lascio pilotare i miei discorsi per arrivare a dire cose che neanche avrei mai immaginato. Tiro a chiacchierare e a campare per rendere la prolissità di me stesso almeno una doppiezza chiara. È così che metto a punto il genere a cui do lustro. Rigorista intrattabile lì lì per crollare però non sono. Ogni cosa che ha pubblicato mio figlio l’ho scritta io. Lui è bravo a porsi nel mondo editoriale ma non sa scrivere. E fa così patapunfete anche quel disamorato mio vocio, che non vociò espanso, pur di dire alla terza di andare a dormire, che io stasera ho saltato il contrappello ma ho il fremente rudimento dell’adunata mattutina per l’alzabandiera alle 7. Ma chi come lei petula per la deferenza del mio saluto certe cose non le può capire.
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