VOI FOSTE SORVOLATA DA TURBOLENZE NEL REFETTORIO

Di Francesco Massinelli

              

Riflettei su chi rifletté più di me. Spiluzzicai un chewingum blasé. Istanti a se stanti, quanti. Come bianchi lampi al magnesio leggero. Ma c'è qualcosa che voglio dire, a detrimento di parole strascicate a lenire un fluido discorso, una parlantina divagatoria, con la sua tecnica ectodica. Un'idiosincrasia tout court vivo. Provo sempre ad uscire dalla folata in cui come fogliami si disperse la mia ostica pretesa villania, la mia bozza da piccola craniata. Riuscite a mantenervi rapita dalla dimensione dell'amore? Io sono ancora il suo attendente, sempre pronto ad aspettarlo. Mi parla anche nei limiti delle vocali atone, elise. Ed il suo nome non è Pelosone. Non lo è. Ricordate? Dopo l'orario d'uscita delle medie! Eravate solita entrare con me nel giardino d'una villetta momentaneamente abbandonata, a trangugiare leccornie e ricevere simpatia lontano da mura parimetali esterne prive di tramezzature interne. Tartassavate il prof. influente (da accontentare sempre) con castelli di carte fantasticate. V'affascinavano le mie bravate, iconoclaste come le lotte studiate. Ci perdevamo nella neppur troppo attenuata eco delle leggende sfatate promanando intense suggestioni letterarie. Citavamo opuscoli per non persuadere a peggior vita la nostra allegrezza, con tante indicazioni di preferenza. Ricordate lo scherzo dei cappotti cuciti con il filo da imbastire? La romanzina dal preside? Le punizioni a star tra i fiacchi e fiochi discorsi dei votati per ore d'assemblea dentro la scuola? Chi come me sta nel secolo senza dolersi ancora se la gode quella spensieratezza. Ancora s’illude di goderla, anche se, studiando le disposizioni degli ambienti, le zone d'ombra, la protezione dai venti, l'areazione naturale, si ritrova a dar l’assenso ad una verecondia che lo strattona. Che in un minisecondo gli fa vedere quell’inceppamento da saracche prese per cui non siamo più i confidenti di un tempo, guancia a guancia. Né io né voi, cozza mia, siamo stati avvantaggiati a rifuggire il sogno. Né io né voi, mia bella stanga, ci siamo chiesti il permesso di toccarci. Ci siamo addentrati in quel salto impressionante che l’amor che ha per care le persone sconsiglia. Il tam di uno schiaffone, un pastrocchio concesso ma non ammesso, avrebbero potuto forse farci vedere quella gratitudine che precede l’ascolto dell’amore non riconosciuto. Avrebbero potuto, ma questo non è stato. Nessuna fanfara strombetterà più per noi se voi accentuerete l’attitudine a far scintille come una pietra focaia, sfregata sul falcino d'arrotare (da ribattere perché si è ammaccato), ogni volta che vedete che mi provo ad accostare a voi. Quel che vi sorvola è una molteplice turbolenza che non volete vedere a faccia scoperta, un’accettazione supina in tutta confidenza che v’erode. Anche se siete in una tuta sicura, affatto pazzerella. Anche se siete passata sopra a tante fazioni di sopraffazioni. Quindi suvvia, suvvia! Non con asserzioni su di me, che è la prima volta che vi riparlo, potrete smuovervi dalla fermezza che rivolle e represse in voi il frenetico desiderio di me, la gelosia di tanti progettucoli finiti in un vuoto da colmare. Lasciate alle turbolenze il compito di smuovere quei pali fittamente addensati a sostenere i muri delle vostre difese. L’opacità del non chiedere sinceramente scusa, che tutto pregiudica, io non l’ho più. L’espressione della vostra personalità nelle parole che potrete dirmi non può andare a scapito del nostro divario, in cui da parte mia non c’è più nulla da evincere. Perdonatemi. Se mi perdonerete, sarà più bello il rinfresco per me. Nel refettorio sarete la più buona. Non vi beccherete il premio “pantofola di ghiaccio”.

 

      Francesco Massinelli

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