Di Francesco Massinelli
Mi hai lasciato un bel chiodo, un bel debito: e che m’hai porto? Dagli pure giù con le scuse, ma che m’hai porto? Ti squalifico con l’incredulo mio dispormi alle tue succitate, a tinte fosche, scuse. La sola fortuna che hai è quella d’esser nerboruto. Ti risparmio quei termini ingenerosi con cui provi a rassegnar le dimissioni. Quando ridarai il meglio del peggio che tieni in te ricorda che dai tortuosi intrighi si esce. Se odi il tam tam del tram tram capirai i miei problemi davanti al bouquet delle tue ripicche. Equivocazioni, dicerie che danno noia, m’han raggiunto qui dove t’attesi, dopo che non ti presentasti. Mi son sottomesso alla tua libertà attendendoti, rispettando quei tuoi goffi tentativi di bloccare, con potere di veto, quel che non ti andava a genio. Poi ho messo in discussione quel mio latitante amore per te, nell’inimitabile suo esprimersi, quando oltre ad essere in debito mi guardavi in modo cattivo. Mi son detto che son tirchio nell’attaccamento al credito ma che quando un’azienda vivacchia e non prospera son io a dovermi comportare da capo. Non è ammissibile per il bene della ditta un mio sentirmi in colpa verso chi gli arreca danno. Ho pensato pure d’offrirti il peggior cioccolatino, quello più secco del cestino; scusami. Mi sono accorto del rischio di coartarlo inconsciamente, per quel che m’asserve, il tuo comportamento. Per farmi notare mi son fatto il callo a schiacciare le persone, ma sempre con un po’ di dolore. Il cinismo con cui ho ricoperto tante ferite lo uso anche con te. Postulami con modi paludati e algidi la rara verve, il glamour, che ti aspetti da me. Però ti licenzio.
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