IO, FETENTE SIN DA PICCINO

Di Francesco Massinelli

Glisso quel che non esperisco pur di sostenere belle conversazioni con chi prefigura cogenti pertinenze nella sua vulgata. Le preminenti intenzionalità per dire il vero non ci sono nello strato del semema mio, zeppo d’immanentismo e di vezzi antropocentrici, poco sostanzioso. Son propenso ad alienarmi in uno stato tra il permaloso e l’estremamente sensibile quando, come un filosofo cinico, o un rétore ammannita, corrompo le opere che leggo senza saper leggere, interpretando male. Dimidiato d’aspetto do prove asemantiche così enervate da palesare, non l’intraducibilità del luogo in cui è incarnata la mia lingua rispetto al polo in cui la lingua è facilmente traducibile, ma la mia diacronia. Se sincroni e polisemici son gli apologeti io, nella prassi ultradecennale del raccontar del mio, non sono tra i proseliti di alcun neofita. Introduco quindi liberamente un fatto della mia infanzia, un riferimento alla stanza dove allora dormivo, priva di riscaldamento, in cui si scivolava nel pavimento umido. Lo introduco come per dire che io, nel sequel di un bel prequel, non desumo alcun surplus che reifica un deficit. Ero un bambino bellissimo e tanto dimostrai di saper impiastricciare con un getto di vomito il muro del soffitto sopra il mio letto: come un piccolo idrante, nel cuore della notte, senza guastare la postura supina. Sono un adulto bellissimo e tanto dimostro di saper impiastricciare con un getto d’inchiostro una matassa senza bandolo, il cliché d’una latente tensione di cui mi capacito.

 

      Francesco Massinelli

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