LE CASE DI ZUCCHERO

   Di Marina Torossi Tevini

 

         

Il cielo stellato è il cielo stellato, ma queste stelle era­no un po' troppo piccole.

Mi sedetti guardando il cielo. Ero stanco di quella strada viscida che percorrevo da ore.

Un tunnel, come quelli dei luna park, a un tratto si era a­perto, mi aveva fagocitato ed ero piombato su quella strada ret­tilinea, perfettamente lineare, inconcludente. Giorno, sera, not­te.

La meta, quella città dalle case di zucchero, non l'avevo scelta. D'altronde le cose essenziali della vita non siamo noi a sceglierle, catapultati a caso in un secolo, in una condizione sociale, in un reticolo di affetti. E lì ci giochiamo la nostra, presumibilmente unica, esistenza.

Le case di zucchero avevano il tetto scuro, scaglie di fon­dente e la porta di marzapane.

«Non è prudente starsene fuori la notte» una voce d'uomo al­le mie spalle mi riscosse. Mi volsi e vidi che indossava una di­visa. Lo guardai con aria interrogativa e allora il poliziotto continuò: « Quando cala la sera tutti sprangano l'uscio. Certo, anche di giorno uscire non è consigliabile ...» Si interruppe e, improvvisamente meravigliato dalla stranezza della mia presenza, chiese: «Ma lei perchè è qui? Non ha una famiglia? Da dove vie­ne?»

Raccontargli del tunnel, della strada, del caso, della mia non provenienza, perchè in fondo mi sembrava di non aver mai avu­to una sede sicura , una nicchia sensata nella storia, mi sembrò decisamente improponibile.

Il poliziotto mi venne in aiuto. «E' forse l'insegnante che i Gauser stanno aspettando?»

«Sì, - risposi senza esitazione- sono Karl Hauser. Mi sa­prebbe indicare la loro casa?»

«Prenda questa strada a destra, la percorra per circa cin­quecento metri e vedrà un'insegna con un grappolo e un gufo. Ri­conoscerà la casa facilmente.»

Lo ringraziai e rimanemmo per un po' in silenzio, poi l'uomo riprese  «Però non può rimanere qui fino a domattina. Sarebbe troppo pericoloso. La condurrò a casa mia.» Si rivolgeva a me con una gentilezza mielata che quasi mi indisponeva. Mi sembrava strana. Ma, d'altronde, avevo forse dei punti di riferimento? In realtà non ricordavo affatto come fossero i rapporti tra gli es­seri umani prima di quell'assurdo tunnel che mi aveva proiettato in un mondo alieno.

«Sieda qui» disse una donna grassa sulla quarantina» le por­terò qualcosa da mangiare». Ritornò con delle salsicce e dei crauti e aggiunse: «Anche mio marito mangia a quest'ora, quando ha finito il suo turno di lavoro.»

C'era in quella casa un'atmosfera  calda e accogliente, così  io me ne lasciai subito conquistare. Mi offrirono una brandina per le ore che rimanevano della notte. Disteso, nonostante la mia fantasia si affannasse a rincorrere un passato sfocato e un im­prevedibile futuro, presi subito sonno.

La stanza attorno a me, zuccherosa e dolce, mi dava uno strano senso di tranquilla ebetudine. Senza sognare dormii fino al mattino.

Mi risvegliai bombardato da un frastuono assordante. Uno schermo gigante a tutta parete trasmetteva figure bizzarre che ondeggiavano, due bambini sdraiati a terra giocavano e cantavano guardando lo schermo. Parevano non accorgersi di me, che pure ero vicino.

Dapprima circospetto, poi con sempre maggior sicurezza , ini­ziai a visitare la casa. Strano, la notte mi era sembrata molto piccola e invece adesso non facevo altro che attraversare stanze e corridoi, una galleria infinita. Vidi un bambino di circa dieci anni parlare con un  amico che appariva sullo schermo. Mi avvici­nai a lui ma il ragazzino, era evidente, non si accorgeva della mia presenza o per lo meno non le dava importanza.

Trovai infine l'uomo che mi aveva ospitato. Sedeva dietro a un'enorme scrivania circondato da video e tastiere.

Anche la moglie mi passò accanto indaffarata senza  accor­gersi di me.

La casa era  davvero una specie di labirintico castello. La cucina gigantesca, quella che mi era sembrata così piccola e o­spitale la notte precedente, ora si ergeva in tutta la sua tecno­logica potenza.

Su enormi schermi venivano  proiettati in continuazione film mielosi o assassini, sempre un po' sopra le righe, abbastanza rozzi, così almeno mi sembrava, e inverosimili. Ero stupito che nessuno mi rivolgesse la parola. Non avevano tempo o non mi rico­noscevano? Oppure, per uno strano prodigio, ero diventato invisi­bile?

I bambini erano quasi graziosi. Cuccioli come tutti i cuc­cioli del mondo. Sebbene la loro testa rasata a metà e nell'altra parte costellata da perline fosforescenti inquietasse un po'.

      

La madre si avvicinò ai ragazzi invitandoli  a lasciare la sala giochi per iniziare le ore di scuola. Disciplinati si porta­rono ai loro terminali. Seguivano le lezioni sul video e rispon­devano premendo dei pulsanti. Di continuo  si accendevano delle luci. Poi usciva una scheda che la madre passava a ritirare, fa­cendo gli opportuni commenti sui risultati . Il più piccolo aveva preso un bel mediocre, prometteva  bene.

      

Quell'ambiente mi annoiava. Ero curioso di vedere il resto della città, le altre case.  Aprii la porta di marzapane e mi trovai in una lunghissima strada pianeggiante e deserta. Dall'e­sterno nuovamente le case sembravano graziose e piccole . Mi sfrecciarono accanto alcune automobili veloci. Le guardai e mi sembrò per un attimo che fossero senza conducente. Staccai gli occhi da quello spettacolo inquietante e decisi di seguire le in­dicazioni che il poliziotto mi aveva fornito per trovare la casa in cui era atteso un insegnante.

Riconobbi senza difficoltà l'insegna con il grappolo e il gufo. Bussai. «Sono Karl Hauser» dissi.

 La donna che era venuta ad aprire in vestaglia e pantofole mi sembrò alzata da poco e lievemente contrariata. Mi fece entra­re in fretta, quasi avesse paura che qualcuno ci vedesse, e pre­cedendomi mi parlava «Sì effettivamente noi cerchiamo un inse­gnante  ma è meglio che non lo si sappia in giro. Abbiamo pensato che vorremmo per i nostri figli qualche cosa di diverso anziché la solita scuola via cavo, anonima, con i ragazzi che hanno sì le risposte perfette, i risultati immediati, ma non vedono mai i lo­ro insegnanti se non in rari momenti sul video. Noi crediamo» e abbassò la voce»  che il contatto personale, il carisma di una persona abbiamo molta importanza.» Diceva  cose ovvie ma le dice­va con l'aria di dire qualcosa di misterioso e del tutto illega­le. Parlava e intanto mi precedeva nei meandri della sua casa che, come l'altra, era smisurata, angosciante.

«Oh Dio - disse a un tratto fermandosi - Vede, sono già ar­rivati gli ospiti!» Vidi su uno schermo gigante alcune figure che sorridevano e si salutavano.

«Oggi c'è una piccola festicciola in famiglia - spiegò la signora - mi deve scusare ma sono terribilmente in ritardo. Par­leremo più tardi dei dettagli. Lei intanto si sistemi come vuole , dove le piace oppure... ma forse non vorrà  uscire. Uscire non è mai prudente. Faccia un po' lei.»

      

Decisi subito di uscire. Volevo dare un'occhiata all'ester­no, al sole, al cielo, a quella strada infinita, volevo cercare qualche mezzo per andarmene da lì.

Era una grigia giornata di sole. Un sole pallido, asfittico illuminava il  paesaggio.

       In effetti l'elemento su cui si posava più volentieri lo sguardo erano le case dolci, allettanti. Vidi che il loro numero era enorme. Si perdevano all'orizzonte, sempre solcate da quelle strade rettilinee, in quella pianura che non dava adito a fanta­sie.

Cercai la fermata di un bus, qualche indicazione per una me­tropolitana. Le automobili mi sfrecciavano vicino indifferenti. Era chiaro che non si sarebbero fermate. Dopo alcuni chilometri trovai una pensilina con le consuete indicazioni . Mi misi ad a­spettare. Sentivo gravare sopra di me il cielo , un'immensa cappa biancastra. I colori spenti  del paesaggio mortificavano l'anima. Ah i colori degli schermi giganti che comparivano sulle pareti e  rendevano variopinte e straordinarie quelle case! Ah i colori di una realtà che vagamente mi sembrava di ricordare come in un so­gno, montagne, pareti a precipizio, gole coperte di neve e le on­de del mare e i fiori nei prati di maggio! E poi il sapore, l'o­dore della realtà che in quella monotona copia scolorita erano andate perdute. Mi sembrava di ricordare, sì, però  avevo la sen­sazione di aver perduto per sempre la capacità di ricreare nella mia mente il passato.

L'arrivo di un bus interruppe i miei pensieri. Feci un cenno all'autista, un cenno ampio, evidente. L'autista però non aveva alcuna intenzione di fermare, mi passò accanto, senza rallentare neppure.

Consultai l' orario. Tra poco sarebbe passato un altro pul­lman. Decisi di aspettare.

La scena si ripetè, allucinante. Mi ero quasi gettato in mezzo alla strada per farmi vedere, ma, questa volta ne fui  cer­to, alla  guida del pullman non c'era nessuno.

Rassegnato ritornai alla casa dei Gauser .

 

«E tu saresti il mio insegnante!» mi rise sulla faccia un bambino di circa otto anni. «Vediamo se sai colpire il leone» e mi mostrò un bersaglio che correva sulla strada polverosa di un videogame.

Non sapevo proprio dove mettere le mani.

«Mamma, mamma, quest'uomo è un impostore. Non vale niente. Buttiamolo via.»

Ci volle tutta la pazienza della signora Gauser per indurre il bambino a darmi qualche chance  e a introdurmi nel suo mondo.

       Con gli altri, due ragazzi di quattordici e sedici anni, fu più facile. Mi ascoltavano con aria di sufficienza, però non si opponevano. Semplicemente mi ascoltavano con indifferenza.

Dopo un po' questo mi diede più fastidio dell'aperta osti­lità del piccolo Albert.

«Parlate, dite quello che pensate. Se non parliamo non ci intenderemo mai.»

Ma i ragazzi non avevano nessuna intenzione di discutere. Avrebbero risposto a domande precise se io gliele volevo fare. Ma perchè discutere?   Non avevano nessuna verità da sostenere o forse semplicemente non avevano nessuna intenzione di comunicar­mela perchè pensavano che non l' avrei capita o che l' avrei usa­ta contro di loro.

«Sono buoni ragazzi, non si preoccupi, devono soltanto pren­dere confidenza con lei. Noi sinceramente non ci possiamo lamen­tare. Rispetto a tante altre famiglie. Vede che cosa succede sem­pre più spesso in questo mondo?» E mi mostrò sugli  schermi gi­ganti, che come quadri tappezzavano le pareti, il male del mondo in diretta.

«Nella nostra città è già da qualche giorno che non succedo­no incidenti. Da noi, dobbiamo riconoscerlo, si sta bene. Lo ha visto anche lei. Le case sono accoglienti. Abbiamo tutto quel che ci serve. I ragazzi vivono volentieri con noi . Ci vogliono bene. Non so proprio che cosa vadano a cercare fuori... Ma, sa, i gio­vani sono così, a loro non basta mai... Qualche volta  si lascia­no influenzare... Insomma si fa tanta fatica ad averli sempre sotto controllo, in senso buono si intende, perchè dal mondo, da  questo mondo , brutto com'è, sono come affascinati. Proprio per questo motivo  abbiamo pensato a un insegnante. Abbiamo pensato a qualcuno che abbia influenza su di loro, che si faccia ascoltare e che abbia credito.» A bocconi, saltellando tra i suoi pensieri, la donna cercava di indicarmi  quale doveva essere il mio ruolo.

«Certo, signora - le rispondevo - e intanto la mia mente inda­gava per cercare di capire le sue parole. Che cosa facevano i ragazzi ?  Non si accontentavano di quegli schermi che rappresen­tavano a tutte le ore realtà e finzione in un perverso miscuglio? »

La signora  mi accompagnò in quella che sarebbe stata la mia stanza. Era una specie di appartamento, anch'esso munito di schermi giganteschi. «Se si vuole rinfrescare lì c'è il bagno». Confortevole, come tutto in quella casa, non c'era dubbio.

      

Il mio primo istinto fu di guardare fuori dalla finestra.  Mi accorsi però (come non me n'ero accorto ancora?) che non esi­stevano finestre. Ripensai  alle altre case. Sì certo, anche le altre case avevano la grande parete di zucchero che saliva dirit­ta, inesorabile fino al tetto.  Le uniche finestre erano quegli schermi in cui si leggeva la realtà che avveniva (o non avveniva) nelle altre parti del mondo. Emozioni certamente ne davano, me ne resi conto dopo qualche ora trascorsa a guardare. Fittizie, ma pur sempre emozioni. E per un ragazzo che non avesse mai visto il mondo, come presumibilmente i ragazzi di quella casa, quegli schermi che rappresentavano altre città, altri paesaggi, a tinte forti, vivaci, dovevano essere più esaltanti della realtà piatta, incolore che avevano davanti a casa, dove il sole splendeva a stento, le stelle non luccicavano, lo splendore del sole al suo apice era , per così dire, offuscato. Meglio quelle altre realtà (vere? fittizie?) dai colori accesi, dai toni enfatici, che per­foravano quasi le pareti. Film, documentari, telegiornali si al­ternavano e si mescolavano. La realtà cedeva posto alla fantasia, la fantasia superava la realtà.

Ma la signora Gauser mi aveva parlato di un pericolo , aveva parlato dello strano fascino che la realtà, pur quella realtà de­qualificata e scipita, esercitava sui ragazzi.

 Mi proposi  di  affrontare  presto quello che ritenevo un punto importante della mia educazione: discutere con i ragazzi più grandi sui limiti tra realtà e finzione. Ma  ben presto mi resi conto che era un argomento insidioso e difficile. Qual è la realtà? La dimensione in cui viviamo, che cambia così velocemente d'aspetto? Quella  rappresentata negli «spettacoli verità», re­pulsiva ad arte?  Oppure quella degli asettici documentari che mostrano un mondo bellissimo, quasi incredibile per chi sia vis­suto solo in una mediocre dimensione? Non me la sentivo di af­frontare un argomento così complicato  con quei ragazzi che  sem­brava la sapessero più lunga di me e accettavano la comodità del­le case di zucchero ma pure, come accennava velatamente la madre, avevano già assaggiato altre realtà.

Le ore che non trascorrevo con i miei alunni le passavo  a guardare, come si usava lì, più spettacoli contemporaneamente. E intanto la mia mente vagava, percorreva altre strade, si trovava in luoghi sconosciuti che da quella città probabilmente non sa­rebbero mai stati raggiungibili. Esistevano davvero? O erano so­lamente ricordi, forse deformati e falsi, di un passato lontano oppure finzione, come i teleromanzi a puntate che m'ero messo a seguire?

 

Quella notte passarono i topi. Me ne stavo rincantucciato nella mia stanza, quasi assopito, quando sentii verso la mezza­notte uno scalpiccio, un rumore fitto e crescente.

Dalla stanza dei signori Gauser colsi qualche parola. «Hai chiuso bene tutte le fessure? L'altra volta uno è riuscito a en­trare e poi per mesi abbiamo dovuto lottare per ucciderlo.  Il rumore continuava  assordante.

«Non ci libereremo mai da questi topi» commentava l'uomo» e, quello che è peggio, li sentiranno i ragazzi. Noi vorremmo che il passato, il nostro orrendo passato, venisse cancellato e inve­ce...»

Che cosa c'entravano i topi? Di che passato parlava? Perchè ne avevano tanta paura? Erano domande che quella notte mi ponevo senza trovare una plausibile risposta e neppure le parole che la signora Gauser, mielosamente gentile, mi disse la mattina seguen­te furono più convincenti.  Era indaffarata e inquieta, tutta in­tenta a passare minuziosamente in rassegna ogni angolo della ca­sa. Puliva, spolverava, sollevava oggetti. Io la seguivo e la tempestavo di domande. 

Dopo molte risposte vaghe e gentili improvvisamente  si ri­volse a me seccata: «Ma che cosa vuole sapere? Sono topi, topi giganteschi. Ecco qua la zampa di uno». E sollevò in aria  una mostruosa estremità. « Questo evidentemente ha tentato di entrare . E non c'è riuscito.» Raggiante fece ondeggiare davanti a me la zampa , poi mi voltò le spalle.

      

La sera sentii i Gauser parlare di me «E' troppo curioso il signor Hauser - diceva la signora - non sa stare al suo posto. Noi vogliamo dimenticare, vogliamo evitare che il male venga cono­sciuto e lui pare non abbia altro fine che investigare.»

Sentii anche le parole quasi sussurrate del marito : «Tal­volta però mi chiedo se non sia sbagliato cercare di dimenticare. Impedire che i figli sappiano veramente. Impedire che i mostri del passato entrino e si confrontino con noi. Qualche volta avrei voglia di aprire la porta. Di affrontarli, di sterminarli. Forse se tutti ci unissimo potremmo...»

La stanza rimase a lungo in silenzio poi la donna riprese a parlare «Alle volte con le tue idee mi fai paura. Non riusciremo certamente a sterminarli, neppure tutti assieme. Sono più forti di noi. Quello che possiamo fare soltanto è tenerli lontano e proteggere i nostri figli.»

La notte seguente il passaggio dei topi si ripetè. Evento del tutto insolito, come tenne a precisare la signora. Di solito ripassavano a distanza di due, tre mesi. Che cosa poteva signifi­care?

Nella casa c'era aria di tragedia. Alle mie domande rispon­devano in fretta e svogliatamente. «Che  cosa vuole? Lei pensi a educarli, a insegnare loro il rispetto per il prossimo, l'amore, la tolleranza. Bisogna sempre ripetere che le guerre, il razzi­smo, l'odio immotivato appartengono ormai a un passato sepolto. I nostri figli devono crescere felici, all'interno di un ambiente in cui sono amati e protetti, dove non ci sono contrasti nè in­comprensioni. Insegni questo, solo questo .»

Certo tutto questo era giusto, sacrosanto, ovvio. Ma erano belle parole. Io avrei avuto tante osservazioni da fare: la rela­tività delle cose e la non conoscenza che non poteva mai essere considerata un bene e poi la mia perplessità per quelle parole mielate dietro cui non avvertivo alcuna sostanza.

      

Dieci, venti battute alla porta. «Sono venuti, lo sapevo» sentii dire dalla stanza vicino. Poi, dopo un po' di confusione,  una voce maschile «Non servirà. I ragazzi sono veloci. Saranno già usciti.»

«Ma faranno sciocchezze. Sono ancora così giovani. Ho tanta paura.» Si sentiva la voce della donna disperata. «Almeno il pic­colo. Lascia che vada da lui».

«Il piccolo starà dormendo. L'altra volta non l'hanno volu­to.»

«Quante inquietudini. Mi sembra di impazzire.»

       Stavo con le orecchie tese, e mi domandavo se era il caso di intervenire. Forse l'uomo aveva ragione, i ragazzi erano già scappati. Ma perchè? Che cosa avevano in mente di fare?

 

«Guida in stato di confusionale, detenzione di armi da fuoco e da taglio....» Un poliziotto la mattina seguente elencò ai de­solati coniugi le imputazioni contro i loro ragazzi. «E poi c'è stato un pestaggio nel paese vicino e ci sono stati dei feriti.»

«Ai nostri figli faremo mettere giudizio noi, non si preoc­cupi» dicevano i Gauser supplichevoli « sono bravi ragazzi . Sono gli altri che li trascinano.»

«Tutti sono responsabili» disse con aria professionale il poliziotto concludendo con il solito «mi auguro che non si ripeta più.» Erano le parole che i coniugi Gauser sentivano spesso.

      

«Che cosa possiamo fare?  Hanno troppi esempi negativi.  Co­me si fa a trasmettere programmi così? Noi cerchiamo di dar loro un'educazione...» così diceva la signora Gauser ciabattando per casa e piangendo.

Mi meravigliai. «Allora succede spesso?» le chiesi.

«Succede» rispose controvoglia la signora. «O qualche pe­staggio o qualche terribile scontro. Di notte, sa, è pericoloso, ci sono tante automobili senza  conducente. Noi diciamo loro di non uscire. Che cosa andranno a cercare poi lì fuori? Abbiamo cercato di dar loro dei principi. Ma sono soprattutto i grandi, quelli di 20, 30 anni che non hanno ancora  un lavoro e non hanno niente da fare tutto il giorno che ne pensano una più del diavo­lo. E poi ce l'hanno col mondo, perchè sono stati presi in giro, dicono, e che cosa possono fare i loro genitori più di tenerseli a casa,di mantenerli fino a trent'anni,  lasciandoli  divertire. I ragazzi se la prendono con la scuola che ha dato loro un pezzo di carta che non serve a nulla. Se la prendono anche con noi ge­nitori che li vincoliamo con il nostro affetto, con la nostra i­perprotezione. No, non i nostri. I nostri sono ancora dei ragaz­zi. E ci vogliono bene.»

Che cosa potevo fare io in quella situazione?  Pensai che la cosa migliore era parlare con i ragazzi. Li trovai un po' pesti ma quasi soddisfatti di quello che era accaduto. Si sentivano grandi. Importanti. Pensai che era mio dovere far loro la predi­ca.

Invece mi sorpresi a ricordare quando da ragazzo scappavo anch'io di casa.  Mi sembrava di ricordare, era strano,in modo molto netto e vivido. Un'ombra del mio  passato mi veniva donata. Mi misi a rincorrerla e intanto assurdamente chiedevo particolari ai ragazzi. Che cosa avevano fatto? In che città erano andati? Quanti erano?

I ragazzi sentendomi interessato raccontavano fieri. Ma quando  li sentii dire «abbiamo fatto bene a dar loro una lezio­ne» fui strappato violentemente dai miei ricordi.  Capii che mi trovavo davanti all'ennesima versione della stupidità umana che tante forme ha assunto nella storia, connotandola di barbarie. Gli altri. I diversi. Picchiati. Uccisi. Estirpati perchè poteva­no rappresentare un pericolo. O forse solamente per crearci una pallida banale identità.

Avrei dovuto discutere  a lungo  con i miei alunni. Far ri­percorrere loro la storia, fare vedere  gli errori nel passato, dove possono essere contemplati senza faziosità e passione, senza sentirsene implicati. Avrei voluto farli diventare più saggi. Era questo il mio compito.

Ma le lezioni si tenevano negli scampoli di tempo. Tra gli spettacoli, la scuola e gli appuntamenti telematici con gli ami­ci. Minuti, qualche volta delle ore, troppo poco  comunque per influire veramente.

Ma forse non era soltanto un fatto di tempo. Sempre più mi accorgevo che il terreno mi scivolava sotto i piedi.

La settimana seguente la fuga si ripetè. Questa volta anda­rono più lontano. Il più grande ci rimise quasi un occhio. Ma a­veva accoltellato quattro «nemici».

Non avrei fatto in tempo a modificare nulla. La realtà cor­reva più in fretta di me. I ragazzi  si conformano agli spettaco­li che vedono sugli schermi, crescono, in un isolamento assurdo, alimentando in sè la perenne aggressività dell'animale uomo. E avvertono oscuramente la vacuità delle parole che non tengono conto della complessa e intricata natura umana.

In fondo, mi sorpresi a pensare , in ogni società i giovani devono sempre lottare per affermarsi. Ogni società li teme. Le famiglie temono la loro indomabile energia. Un tempo era stata tenuta a freno dall'autoritarismo. Poi si era passati a una tec­nica più raffinata, un permissivismo viscido, atto a sottrarre e­nergie e a disinnescare la miccia della ribellione. Ma è nella natura delle cose che il figlio soppianti il padre (Crono mangia­va i suoi figli eppure Zeus ce la fece ugualmente a prendere il suo posto !).

Cominciai a pensare che è assurdo proteggere in case di zuc­chero chi ha bisogno di fare i propri errori e di confrontarsi con il reale. Pensieri fuorvianti che mi toglievano la forza di persuasione e mi allontanavano dalla mia funzione di docente. Mi sentivo del tutto inadeguato.

«Signora» iniziai una mattina a parlare. La signora non mi rispose. Volevo dirle che non ero più in grado di svolgere il mio compito. Che volevo dare le dimissioni. Ma intanto tra me pensavo che era pura e semplice follia. Dove avrei potuto andare? Ero senza patria, senza ruolo, senza una collocazione nella storia. Forse era meglio fingere e rimanere a recitare la mia parte alla meno peggio. Oppure cimentarmi ancora e lottare.

Mentre parlavo però, e la signora Gauser continuava imper­territa a fare i suoi lavori di casa, mi resi conto che in realtà non mi stava sentendo. Forse ero ridiventato inesistente.

Per un momento ne fui sconvolto, come se si abbattesse su di me la più grande delle sciagure. Poi mi resi conto che essere un'ombra, vedere, osservare, non essere coinvolti non è poi così tremendo.

Avrei potuto rimanere in quella casa di zucchero, penetrare in altre case, veder crescere i ragazzi, osservare i loro errori, guardare gli spettacoli assurdi e inebrianti della realtà e della fantasia.

E non esistere. Non è forse per l'uomo  la sorte migliore?

 

da  Il migliore dei mondi impossibili Campanotto editore 2002

Marina Torossi Tevini

 Il presente racconto non potrà essere pubblicato, o utilizzato in qualunque altro modo, sia parzialmente che integralmente, senza il consenso dell'autrice.

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