DIARIO DI UN'INSEGNANTE

   Di Marina Torossi Tevini

 

         

  "Generalità?"

  "Anna Rizzo. Ero una sua amica."

  "E lei?"

  "Antonia Mauri. Una vicina di casa."

  "Non aveva parenti?"

  "No."

  "Età?"

  "Per quel che so aveva una cinquantina d’anni".

  "Professione?"

  "Insegnante".

  La polizia finì di prendere le sue note, lasciò l'appartamento in condizioni miserande, richiuse con troppo impeto la porta.

  Io e la signora Mauri rimanemmo in quell'improvviso silenzio un po' imbarazzate. In fondo ci conoscevamo appena. Eravamo le sole amiche di Teresa? Ci mettemmo a consultare la rubrica del telefo­no. Numeri generici, pochi complessivamente. Mi annotai i nomi di alcuni colleghi della scuola dove avevamo insegnato insieme per alcuni anni. Parenti a Milano non ne aveva.

 La signora Mauri si mise a sedere. Era una donna alla buona, casalinga, con due figli. Non capivo proprio come poteva essere stata amica di Teresa.

 Teresa così raffinata, così esigente, così amante della solitu­dine.

  "Prenderò con me Robin. E' un cane troppo buono. Non vorrei che finisse male. E poi i miei bambini lo adorano. Ma per i gatti non so proprio che cosa fare. Forse lei......"

Lulù e Miele se ne andavano in giro per la casa deserta dove la loro padrona non sarebbe più ritornata. I gatti mi erano sempre piaciuti. Ma erano un impegno. Ed io ero quasi sempre in giro. Vilmente, come tante altre volte, mi tirai indietro: non posso proprio. Mi spiace. Vedrò di mettere qualche annun­cio.

  Teresa col suo suicidio ci aveva lasciato un bel da fare.

  In fondo non vedevo l'ora di sistemare la cosa e di allontanar­mi da quella casa, da quell'odore di morte e da altre eventuali incombenze che potevano gravare la mia già cronicamente costipata esistenza.

  Ma qualcosa mi tratteneva. Mi misi a frugare nei cassetti. For­se la curiosità di sapere che cosa l'avesse spinta al suicidio. Forse il desiderio di conoscerla un po' di più. In fondo ci si conosce sempre così poco.

  La signora Mauri senza che me ne accorgessi era venuta alle mie spalle. Le sue parole mi fecero sussultare. "Era da tempo grave­mente ammalata. Si è uccisa perché ha voluto morire con dignità, senza scendere i gradini estremi della sofferenza e della degra­dazione. Era una donna così mite, così buona".

  Io non la conoscevo come una donna mite e buona. La conoscevo come un'insegnante pignola e severa. Forse un po' troppo intran­sigente. Io le ero amica ma non concordavo in tutto e per tutto con le sue idee.

  Un cassetto della scrivania conteneva una quantità incredibile di fogli dattiloscritti, di appunti  scritti con calligrafia mi­nuta e fittissima. Li presi in mano. Non sapevo che Teresa scri­vesse. E che avesse scritto tanto. Ecco il motivo per cui si sot­traeva tanto spesso agli impegni che le proponevamo. Perché nel resto investiva così poco. Aveva investito tutto là in quel suo mondo privato. In quel suo mondo di carta che nessuno avrebbe mai conosciuto. A meno che...... Sentii il solito fastidio. Un'altra responsabilità. Altri impegni. Come i gatti. Come se non avessi abbastanza da fare nella mia vita.

  Allungai qualche foglio alla signora Mauri. Scosse la testa "Sapevo che scriveva. Me lo aveva detto. Ma a me non interessa. Veramente. Non ho né la cultura né la sensibilità per capire que­ste cose. Li tenga lei. Li guardi. Li faccia leggere magari a qualcuno che se ne intende. Sarebbe il regalo più bello che po­trebbe fare alla sua amica."

  Presi controvoglia qualche blockes ed un piccolo diario. Era quello che mi interessava di più. Volevo mettere a confronto l'i­dea che mi ero fatta di lei in quel tempo trascorso insieme con la verità. Volevo sapere.

 

                             II

  A casa mentre i figli reclamavano cibo e vestiti mi sprofondai nella lettura. Era un quaderno ingenuo, a fiorellini rosa ed az­zurro e, come ingenuo era il suo aspetto, così mi sembrò anche a tutta prima il suo contenuto. Una donna strana, Teresa. Si inti­tolava: "Una donna senza qualità"

                            

   7 ottobre 1994

  La mia vita che scorre tra i toni del grigio e del viola. Tra dicotomie senza soluzione. Non credo di aver nulla da dire (e forse niente che può esser detto ha più senso) eppure non posso non frugare tra le maglie delle mie contraddizioni per cercarvi un qualche significato. Almeno per me. Perché questa vita dovrà pur quadrare in qualche modo. Ed eccomi dunque indifesa e con­traddittoria, incoerente e sincera a sondare tra i pensieri in­confessati e i segni meno chiari delle mie inquietudini. Se non vogliamo barare non possiamo che raccontare una crisi.

 

12 ottobre 1994

Questi sono per me gli ultimi anni di scuola. Speriamo Sì …perché mi angoscia l’idea che il momento in cui non ne potrò più mi colga bloccata imprigionata prigioniera. Una volta non era così: andare prima o dopo in pensione dipendeva dai tuoi desideri, da quanti figli avevi, da quante forze avevi. Sono scappate bande di trentacinquenni, orde di quarantenni. Troppo facile quella volta andarsene. Ma adesso! Le prospettive fanno venire i brividi. Perché se è un indubbio male per lo stato che un quarantenne si succhi per anni una pensione che si è conquistata a poco prezzo è ancora peggio per gli interessati ( e - orribile parola - per gli utenti) l’insegnante ormai stanco, incapace di rinnovarsi, avvizzito sul suo passato, prigioniero di un edificio che odia e di cui da troppi anni ha varcato la soglia. Quando comincia a chiedersi se gli anni della sua vita saranno sufficienti a fare tutto quello che vuole e vede scorrere il calendario scandito dai soliti  appuntamenti, quadrimestri voti compiti e invece è  tutt’altro quello che vorrebbe, vita luce altri colori.

 

14 ottobre 1994

 Spesso mi rammarico di non avere il tempo per scrivere, mi la­gno che la quotidiana routine con la sua ripetitività assorba le mie energie e smorzi i miei slanci. Ma è soltanto questione di tempo? L'aridità che talvolta sento dentro di me nasce veramente da un cronico esaurimento delle mie forze?

  Oppure mi nascondo dietro false giustificazioni.  Forse la fa­tica di vivere è proporzionale alla mancanza di entusiasmo (per il genere umano). Non so. Certo che mi sorprendo spesso a deside­rare degli spazi vuoti, dei momenti di "otium", per rielaborare la vita secondo la mia dimensione e non essere impegnata sempre nella logorante forzatura di rendermi comprensibile al prossimo.

 

  8 novembre 1994

  Sento, e questo mi viene indubbiamente dall'educazione cattoli­ca, che dovrei amare il prossimo comunque. Ma come è possibile amare l'uomo con le sue ipocrisie, le sue miserie, il suo nascon­dersi anche a se stesso, i suoi meschini traguardi, i suoi miseri mezzi? L'uomo con la sua stupidità che non riesco a sopportare, sempre intruppato, felice di poter inneggiare assieme agli altri non ha importanza se alla patria, al partito o alla squadra del cuore. Non ci riesco. E ne soffro profondamente. Non ho la con­vinzione fanatica e fortunata di quelli che pensano di poter in­fluire veramente, di creare delle coscienze. Non ho fiducia. Cre­do nella giustezza delle mie convinzioni e con altrettanta sicu­rezza credo anche che la verità non potrà mai affermarsi. Eppure, ecco il mio destino di contraddizione irresolubile, credo però che quelli che in un modo o in un altro scorgono un po' di verità al di là della generale follia debbano testimoniare, non per con­vincere, non con la speranza, né la presunzione di mutare le co­se, ma solamente perché è un dovere dare il proprio più o meno piccolo contributo.

  Però soffro. E in un certo senso invidio chiunque: il prete così sicuro di sé, l'entusiasta con i suoi progressisti convinci­menti e la sua laica fiducia , il qualunquista a cui solo interes­sano i fatti propri. Io devo testimoniare verità scomode. E ogni volta per me è un gran dolore. Non posso non vedere i volti piut­tosto scettici e poco convinti dei miei alunni. Non posso non leggere anche nei loro cenni di assenso un atteggiamento di appa­rente, interessata approvazione che cela indifferenza, perples­sità forse derisione.

  Dovrei non pensarci per dare più forza alle mie parole ma le mie non sono verità da gridare. Le sussurro frugando dentro di me, in un certo senso la classe diventa la cassa di risonanza di un mio ininterrotto colloquio interiore che solo per me ha un ve­ro senso.

                       

11 novembre 1994

  Trovo la quotidiana ripetitività logorante. Vorrei  ricreare  in me le antiche emozioni per una bella pagina o per un'idea e riuscire a trovare le parole adatte per riuscire a comunicarle compiutamente agli altri. Ma questo mi ha sempre turbata: l'idea che la comunicazione avviene ad un livello così superficiale ed equivoco da risultare snaturata. L'idea che le parole che in me si caricano di determinati significati assumono per gli altri connotazioni imprevedibili. Ma d'altra parte per quanto limitante e avvilente la comunicazione è una necessità. E allora dove potrò trovare l'entusiasmo di cui la gente pare disporre in abbondanza per ridire con convinzione ed efficacia sempre le stesse cose? Non credo che l'emozione che nasce dalla sorpresa, dalla novità possa essere ricostruita a tavolino. E non mi va di simularla.

 

9 dicembre 1994

  Le generazioni forse si succedono troppo in fretta. E mi scopro improbabile e lontana. I miei ideali non coincidono con quelli dei ragazzi. Io già appartengo alla storia. Mi trovo spesso davanti ragazzi ambiziosi e disincantati,  diversi da come sono e da come ero. Mi dico che spetta a me plasmarli, cam­biarli. Ma cozzo contro qualcosa di possente. In realtà le con­vinzioni che hanno acquisito negli anni in cui avidi di una pseu­do- realtà stavano a sognare davanti ai loro eroi non sono dispo­sti a cambiarle.

  Qualche volta mi conforto davanti a qualche loro consenso, a qualche idea messa giù nei temi (e non riesco a capire se solo per compiacermi). Ma è un attimo solamente. Non amo le facili consolazioni. Forse come fanno gli altri dovrei accontentarmi. Me lo ripeto da sempre. In fondo ho bisogno di loro.

 

  21 febbraio 1995

 I ragazzi che mi stanno davanti sono stati formati dai modelli di comportamento e di pensiero che la nostra società pro­pone e contro i quali nulla possono le mie parole. Non sono maga­ri in grado di discuterne ma sembrano non avere nessuna intenzio­ne di rinunciarvi. La pubblicità ha fatto scuola. Più della scuo­la. Mi rendo conto che è una generazione che ha imparato di più dagli slogans televisivi che dai propri genitori. In fondo oltre che triste è anche pericoloso.

 Li sento ingenui e fragili, troppo fissi su valori formali e allora talvolta non posso non cedere alla tentazione di sfruttare le loro debolezze. Mi appiglio ad esempio al loro rispetto per l'autorità e ne abuso. Tanto per dimostrare, contro quello che penso, che alla stupidità dell'uomo va risposto abusandone e sfruttandola a proprio vantaggio.

 Ma pochi giorni dopo sono pron­ta a mettere tutto in discussione. Me stessa prima di tutto. Nel complesso sono abbastanza  disorientante. E più di loro sono in crisi. Credo sia ormai la mia dimensione di vita. Importante sa­rebbe vivere di questa condizione tutte le valenze possibili, vi­vere fino in fondo le contraddizioni del nostro tempo. Capire. E' sempre stato l'unico fine della mia esistenza. L'unica cosa in cui credo.

  Potessi trasmettere a qualcuno quest'amore per comprendere sen­za schemi pronti e soluzioni di comodo la verità e non mi ramma­richerei di aver insegnato.

 

18 aprile 1995

Oggi abbiamo tutti la sensazione di un gioco senza senso che ci costringono a giocare, in cui siamo gli ingannati e gli ingannatori ed è questa mancanza di chiarezza, di luce direi, che rende così tristi gli occhi dei miei colleghi, che rende così spente le loro parole. Ingannarsi e ingannare non fanno bene alla salute. Altro che riforma, ministro, ci vorrebbe ben altro! Ma quello di cui abbiamo bisogno non potrà mai esserci dato perché andrebbe contro troppi interessi. E allora tiriamo avanti. Chi ha potuto farlo è scappato, chi non può si lamenta e intanto l’opinione pubblica si illude che la scuola sia tutt’altro. Gli insegnanti per pudore  o non so per cos’altro non si confidano che tra di loro, un sordo borbottio e mugugno che non risolve nulla. Non osano gridare forte quello che li rode.  Qualsiasi altra categoria di lavoratori lo farebbe.

 

19 aprile1995

  Un sogno.

  Entro per uno stretto cunicolo che ha un forte odore di muffa. Ai lati delle cellette. Non vedo quasi nulla, solo a tratti da una botola in alto entrano sprazzi di luce. Nihil agendo homines male agere discunt, ripeto camminando. Sento che devo fare, devo lottare, anche se le cellette sono nelle tenebre. Qua e là a ter­ra vedo bambini canuti che contano soldi o armeggiano tra scatole e barattoli. Un'anguilla mi si para davanti e con un gesto natu­rale la raccolgo. Mi sento a mio agio adesso. L'anguilla per così dire mi fa strada. Ed ecco che i ragazzi che prima non volevano uscire dalle cellette ora sono impazienti. Un suono di campanello ed escono coprendosi con le mani la luce.

 Si siedono ordinati e tranquilli. L'anguilla mi guizza tra le mani. I ragazzi annuiscono. Io sento di non essere più io: un'al­tra persona si è impossessata di me e ripete senza scrupoli nè tentennamenti il rito voluto. I ragazzi cantano con voci squil­lanti. Dicono che non ci vuol molto per essere felici.

 

 5  maggio 1995

  Ho quotidianamente la sensazione di rischiare troppo poco. Ep­pure mi rendo conto che rischiare è vivere, che non è possibile irrigidirsi dietro un'immagine di sé immutabile, che bisogna sem­pre mettersi alla prova. Ma io quanto veramente mi confronto con gli altri?

 Vorrei parlare con i ragazzi in modo autentico e completo ma i rapporti con una pluralità, possono essere rapporti veramente sinceri? Possiamo insomma rischiare di denudarci delle nostre più intime e segrete difese? Possiamo parlare veramente

 

12 maggio 1995

 Dal mare vengono riflessi di luce e amore di vastità. Ma io non sento d'amare. Eppure vorrei. Vorrei come insegna qualsiasi fede amare ogni uomo, anche il più abietto. Anche colui che poteva scegliere e ha scelto il male. Ma mi sembra pura follia. Io non ho illusioni né fedi e seguire ciò che appare razionale mi rende infelice.

 

III

 Interruppi la lettura. L'idea che io e gli altri avevamo di Te­resa corrispondeva molto poco alla realtà. Balzava fuori un'imma­gine inedita, un'immagine sfumata, complessa e non il solito ri­gido schema in cui siamo soliti ingabbiare il prossimo. Per como­dità, per non metterci in crisi, per avere dei punti fermi, per non dover rimettere sempre tutto in discussione. Non vogliamo convivere con una realtà più complessa, più variegata, più sfuma­ta che richiederebbe troppo sforzo e forse ci inquieterebbe. E così ci accontentiamo di apparenze, di discorsi fittizi, di rap­porti più o meno superficiali. Come con Teresa che pure avevo sempre considerato un'amica.

  I doveri mi chiamavano. La vita aveva le sue esigenze e i suoi ritmi. Riposi il diario nel cassetto e mi ripromisi di prenderlo in mano quella sera.

 

IV

 Quella sera invece capitarono da noi degli amici di Piero e passammo la serata a chiacchierare delle solite amene oziosità. Avevo tradito il mio impegno e come al solito mi sentivo un po' in colpa.

  L'indomani al ritorno da scuola ripresi in mano il piccolo block azzurro e rosa. Quello che mi rimaneva di Teresa. Parole che mi svelavano una realtà nuova, da me non prevista. Parole che mi mettevano in crisi. Parole che mi facevano pensare a quanto io in realtà fossi poco autentica nella mia vita di equilibrista a­bilissima.

  

16 maggio 1995

  Non mi sembra ragionevole trattare una massa come una persona. Lo si può anche fare ma con la malafede e l'astuzia che io non mi ritrovo.

                  

17 maggio 1996

  Mi sto accorgendo che il mio quotidiano dissociarmi tra me e l'immagine che di me devo dare (pur con tutti gli scivolamenti verso quanto vorrei) mi sta irreparabilmente allontanando dalle parti più genuine di me stessa che recedono per forza verso le zone più remote e difese della mia anima. Non ho più la forza di riflettere: la ginnastica quotidiana tra la mia "figura" e "me stessa" mi ha a tal punto stremata che sempre meno frequento i recessi più riposti della mia coscienza. Non vivo. Sopravvivo soltanto.

 

 8 gennaio 1997

  Quand'ero un’adolescente pensavo che l'amore fosse la cosa più impor­tante. Amore in tutte le sue sfumature, le sue valenze infinite. E penso ancor oggi che l'amore come un sottile liquore debba scorrere sempre nelle nostre vene e solo questo dia senso alla vita. Amare è parlare. Amare è scrivere. Io scrivo per manife­starmi e il mio è un atto d'amore. Io parlo per un pubblico che amo anche se  la maggior parte delle mie parole è destinata forse ad essere mal intesa, snaturata, banalizzata. E' un atto in un certo senso disperato perché se veramente capissi (ma fortuna­tamente non posso capirlo) che è tutto inutile e senza senso, la vita sarebbe veramente senza senso.

 

11 febbraio 1997

  Non pretendo di non essere contraddittoria. Per me le contrad­dizioni sono in qualche modo garanzia di sincerità. Il fondo di tutti noi è fangoso e scomposto e solo il nostro paziente volerci rendere comprensibili agli altri ci rende coerenti.

             

V

Mi fermai ed alzai gli occhi. Io avevo una vita tranquilla. Fi­gli, un marito, dei rapporti discreti con il prossimo. Non mi po­tevo lamentare. Ma non avevo mai sentito in me quell'ansia di a­more assoluto che Teresa aveva sentito. E che aveva pagato fino in fondo. Mi ero accontentata. Mi ero accontentata anche di sor­risi non sinceri, mi ero accontentata pensando che la natura uma­na è così, gli uomini non sono perfetti. Teresa avrebbe voluto qualcosa di più. Ripresi a leggere.

 

6 aprile 1997

 Forse ognuno ha due sole possibilità: o amare incondizionata­mente senza chiedere, senza dubitare, amare qualsiasi uomo solo perché è un essere umano, oppure quando si trova a dare comunque e sa che l'umanità è meschina questo suo dare quotidiano (a cui pure non sa rinunciare) è per lui un dolore che mai l'altro pro­verà.  E' la consapevolezza della delusione nello stesso agire, la negazione di quanto si compie, il non senso di tutto. Ma que­sta consapevolezza è per me in un certo senso il punto di parten­za: non riesco a fare mio il fanatismo più acceso quello che in un amore senza condizioni annulla il puzzo che viene dal corpo e dall'anima del genere umano. Ma neppure riesco a fare anche solo a parole i miei interessi. Un'altra dicotomia senza soluzione.

 

8 maggio 1997

 Faccio talvolta professione di severità e a dire il vero funziona ma mi rimane sempre in bocca l'amaro di avere davanti una classe di servi.

 

10 maggio 1998

 Mi rendo conto tristemente che quelli che ho davanti a me per cui con poco frutto e con tanta fatica mi adopero sono nati per essere servi e contenti della loro condizione. Vani saranno i miei sforzi per insegnare loro la libertà. Mi coprirò ai loro oc­chi di ridicolo. Eppure non posso non rischiare in nome di una libertà che potrebbe anche volgersi contro di me. Debbo farlo. Non mi basta avere una classe acquiescente pronta a studiare qualsiasi corbelleria soltanto perché gliela impongo. Voglio dei ragazzi che si chiedano dei perché e che diano un senso a quello che stanno facendo. Ma questo è il problema: fin tanto che si tratta di recitare la lezioncina per accontentarmi e assicu­rarsi la promozione sono pronti a perdere ore su ore per impadro­nirsi di una quantità immane di idiozie che poi velocemente vomi­teranno a interrogazione   finita ma se pretendo di scalfire l'involucro ferrigno che chiude i loro pensieri si serrano come ricci. No! Voglio troppo. Voglio mettere in discussione le loro idee, metterle in rapporto con quanto apprendono, metterli in crisi. E loro non vogliono discutere e non solo perché del potere si diffida sempre perché alle belle parole chissà poi cosa segue ma soprattutto perché non vogliono discutere. Che senso ha l'iro­nia dell'Ariosto o il modus di Orazio per loro uomini del XX se­colo? Che senso ha il passato? Il presente l'ha di molte braccia superato. Che senso ha riflettere su errori ed idiozie? Ma io credo che il non conoscere e non capire il passato sia uno dei pericoli più gravi che corre la nostra società presuntuosa.

 

11 maggio 1998

 Alleviamo generazioni con un senso della storia molto discuti­bile e arrogante. Con l'idea demenziale che noi siamo all'apice del progresso e non solo tecnologico, il che è indiscutibile, ma del progresso in tutti i sensi. Io temo la tracotante convinzione dei nostri giorni (degna del più oscuro Medioevo) che l'oggi pos­sa reggersi nell'ignoranza del passato e che l'individuo possa perseguire una propria libertà e grandezza senza attingere alla saggezza del passato. Ma forse la saggezza è l'ultima cosa al mondo che si possa insegnare.

 

9 giugno 1998

 La saggezza è l'ultima cosa al mondo che si può insegnare. Mi sorprendo a pensarlo con stupore. Se la saggezza si potesse tra­smettere, la storia del mondo sarebbe ben diversa. Sono trasmis­sibili le nozioni, le conoscenze. Ma la struttura su cui queste nozioni si impiantano non si trasmette o in parte si trasmette ma per vie più complesse.

  Io avevo imparato dai miei insegnanti nozioni ma anche valori, punti di riferimento, ma solo perché in un certo senso costitui­vano delle risposte a domande che io già mi portavo dentro. Era un discorso che facevo con me stessa e cercavo risposte dai li­bri, dalla scuola, dalla vita. Che senso però ha dare risposte a chi non si pone domande? O si pone domande diverse?

 

10 ottobre 1998

 Un sogno. Cammino avanti e indietro per un lungo corridoio. Brevi feritoie lo illuminano a tratti e tra l'una e l'altra c'è un lungo intervallo di buio. Nel buio a gruppi molti bambini si abbracciano. E' l'intervallo e se ne stanno tutti ammucchiati passandosi coca cola e accennando a motivi di canzoni. Dicono "Che cosa c'è da fare nella vita? Stare insieme e cercare di non pensare!"

  Io sono di sorveglianza. Il tempo non passa mai. Passeggio sen­za scopo per il lungo cunicolo e aspetto il momento in cui me ne andrò da quel tunnel. Mi aspettano il tramonto e la mia casa so­pra la collina.

       

11 novembre 1998

 Ai giovani di solito non piace "La coscienza di Zeno". Me ne sono accorta con stupore e ho cercato di capirne i motivi. Non piace loro quel personaggio che definiscono troppo insicuro ed incerto, che non raggiunge i propositi che si prefigge o che ne ottiene per caso altri. Mi accorgo che sono figli dell'ideologia dell'ef­ficienza, dell'iperattività e del successo ad ogni costo. Posto per l'inetto sognatore nel nostro mondo c'è ben poco. Lo si guar­da con diffidenza e sospetto e, nel giudicarlo più debole, in realtà si teme la sua forza corrosiva.

  Belli, forti e pieni di successo. Come le telenovelas presenta­no i loro personaggi. Come i teleromanzi confezionano le loro storie su schemi omologati.

  E il rifiuto di questi schemi?

  E chi mette in crisi con il suo sorriso il dovere di presentarsi agli altri sempre all'interno di un idiota cerimoniale? E chi vorrebbe un pelle a pelle più vero? E chi fruga tra le sue con­traddizioni per riconoscere anche le piccole e grandi disonestà che sono in lui e conviverne con serenità?

  Troppo inquietante! I giovani non amano l'inquietudine. Me ne sono accorta molte volte. I giovani vogliono essere rassicurati.

  Quante volte mi sono dovuta prestare a questo gioco di dar loro sicurezza. Gioco disonesto per me. Io li vorrei liberi, capaci di convivere con le loro insicurezze, non bisognosi di appigli ad ogni costo.

 

15 novembre 1998

 Giorno dopo giorno viviamo vicini senza capirci davvero. Io a lambiccare nei miei alambicchi le loro parole per distillare qualche grammo di conoscenza, loro a cercare di compiacermi senza riuscirci.

 Li disoriento perché le risposte scontate mi lasciano perplessa e sospettosa mentre accetto qualsiasi posizione diversa. Formali­sti e ipocriti per natura vorrebbero trovare la via per fare con poca fatica breccia nel mio cuore. Ma io sguscio come un'anguilla da chi vorrebbe conoscermi solo per conquistarsi dei risultati gratificanti.

 Non è la mia verità che voglio sentire ripetuta ed insincera ma la loro.

 Ripenso a quando avevo la loro età. Come ero? Mi ricordo tra­boccante di idee seppur povere e ingenue. Cercavo nelle parole degli altri la mia verità.

 

16 novembre 1998

 Ma molti di voi non cercano affatto. Passivi ed indifferenti mi stanno davanti con un volto che scoraggia l'entusiasmo. Preferirei qualsiasi ri­fiuto. Ad esso saprei contrapporre argomentazioni infinite  Ma al loro silenzio, ai loro pensieri inespressi, al loro ripetere senza capire dav­vero le mie parole, al loro disamore, che cosa

 posso contrap­porre?

 Mi manca la forza e l'amore per amarli comunque. O il disonesto qualunquismo di quelli che accettano come naturale tutto questo.

 

 

25 novembre 1998

  Gli uomini, e ovviamente a maggior ragione i ragazzi, cercano sicurezza. Non possono convivere con una libertà interiore che li inquieterebbe. Sono schiavi di se stessi prima che degli altri ma in fondo amano la loro schiavitù.  E temono chi li vorrebbe libe­rare. Hanno bisogno di inserire i loro passi in schemi prefissa­ti. Hanno bisogno di mete verso cui illudersi di procedere.

  La loro opzione per la serenità in fondo  è comprensibile. Pa­gano in fragilità morale quello che ottengono in sicurezza. Ma evidentemente per loro questa è la scelta migliore.

 

1 dicembre 1998

  La maggior parte delle persone non ama mettere in discussione la sua vita. E' molto più facile vivere secondo gli schemi che una volta per tutti essi stessi e spesso, almeno in parte, gli altri hanno prefissato. E' il più comodo ed in fondo più costrut­tivo. Non si può partire ogni giorno da zero. E fuggono  le mie parole che li metterebbero in crisi. Non hanno torto dopotutto. In fondo cercano solo di salvare un po' di sereno.

  Che ne sarebbe di una società di uomini inquieti? Indubbiamente l'angoscia ed il capire è meglio rimangano sempre privilegio di pochi.

 

3 marzo 1999

 Non finisco mai di sorprendermi.  Oggi facevo lezione su Piran­dello e ho scoperto che fino a che punto il pensiero di un autore può essere deformato e sconvolto.

 La polemica di Pirandello contro un'organizzazione so­ciale cogente, contro la costrizione e le pastoie che un indivi­dualismo esasperato non può accettare erano diventate per i miei alunni la sicurezza riconquistata da Mattia Pascal  nel ritornare alla sua pure insoddisfacente vita. Meglio la vedova Pescatore della soli­tudine, meglio Miragno che una Roma vissuta da ombra. Non era Pi­randello, è vero, ma erano loro, loro che mi dicevano che i ruoli sono necessari, anzi che nel caos dell'attuale sono dei punti fermi, delle ancore irrinunciabili.

  I fremiti dell'individualismo di inizio secolo sono lontani. Un ragazzo ha scritto persino che i mass media esercitano un'azione benefica perché ci rendono più simili, più "medi" e quindi più vicini, più capaci d'intenderci.

  Integrato, un po’ banale, fondamentalmente conformista per necessità e per convinzio­ne, il giovane di oggi non apprezza e non comprende le vette più alte della genialità  perché se genialità significa diversità, solitudine, disperazione è più confortante il caldo belato delle altre pecore non ha importanza su che cosa. Basta avere dei punti comuni, basta intendersi, basta non vorticare più come una miria­de di atomi nel nulla. Basta darsi la mano bonariamente, stupida­mente, anche ipocritamente. Non ha importanza.

  Troppo deboli? Io sarei portata a giudicarli così. Credo che chi non ha il coraggio di addossarsi il peso della solitudine sia troppo debole ma forse il mio è un discorso inattuale.

  Massificati? Certamente siamo ormai arrivati agli estremi, ormai non c'è più neppure la consapevolezza di ciò. Basta la maglietta,l'abito diverso, l'illusione che con un percing o un tatuaggio sarai diverso dagli altri per credersi tali .

  Per chi dunque parlare?

 

5 marzo1999

 E invece continuiamo a parlare perché in fondo anche se non vuoi impegnarti e ti dici che non ne vale la pena… quando sei là davanti a certi occhi, perché qualche sguardo che ti scruta nell’anima c’è sempre, qualche persona meravigliosa si trova anche nella classe più sfigata, allora quello che ti hanno inculcato un tempo: la coscienza, il dare, il dovere di  testimoniare ciò che sappiamo e amiamo, rifanno capolino e ti impongono, che dico… ti costringono ad essere almeno un po’ come sei e allora ti sfiati ti sgoli ti consumi anche con l’idealismo maciullato da anni di frustrazioni e di autocritica…

 

6 marzo 1999

  E’ questa dunque la mia condizione, una condizione di non vita, per qualche aspetto pesante e in un certo senso persino dolorosa. Perché non sono fuggita anch’io? quante volte me lo sono chiesta. Adesso potrei  sfogliare depliants turistici e progettare vacanze esotiche a prezzi calmierati. Invece sono rimasta dentro i miei vincoli, quasi avessi paura, ma forse l’avevo davvero,  che se questi fossero caduti e mi fossi trovata davanti quella libertà sconfinata , un mare da inghiottire con la  gola- stupendo!  mi sarebbero venute le vertigini. Avrei dovuto confrontarmi con quello che ho sempre desiderato di essere e non avrei avuto più scuse. Quello che non sono diventata non lo sono diventata forse perché non ho mai avuto il coraggio di strappare del tutto  cordoni  vincoli legami potenti.  Non ho avuto il coraggio di dire: volto pagina e via.

 

6 aprile1999

 Che cosa vi posso proporre? Quando mi guardate come punto di riferimento, come mi posso presentare? A che conclusioni sono giunta nella mia vita?

  Sono conclusioni lontane anni luce dai vostri pensieri. Non stento a capirlo. Questa mia serenità fredda, questo mio limbo razionale è molto poco allettante, molto poco proponibile a dei giovani che vogliono la felicità a pieni colori e non si accon­tentano del grigio.

  Avidamente hanno desiderio di sensazioni forti, di piacere, di potere. La saggezza non rientra nei loro progetti. E d'altronde una società edonista come la nostra dà più ragione a loro che a me.

  Ma io amo questa mia condizione e la considero in un certo sen­so un privilegio. Certo, privilegio è senza dubbio poter vivere capendo e non impazzire.

 

7 aprile 1999

 Talvolta ho provato a bluffare. Ad agire sull'inconscio. E ho avuto sempre successo. Se dai loro sicurezza sono disposti a se­guirti come dei gregari fedeli. Ma queste arti mi ripugnano.

Non è questo che voglio.

Non è questo di cui mi possa accontentare.

 

10 aprile 1999

 Non scriverò più. Tanto mi ripeterei. La mia vita si ripete. Ogni giorno continuo questo romanzo assurdo di odio e d'amore. La fantasia si impoverisce, la mente si  ottunde nella ripetitività, l'animo si snatura nell'esercizio di un potere che altera i rap­porti umani.

 Forse col tempo imparerò ad accontentarmi. Ad essere un po' co­me i vecchi che mentalmente sono miopi. A guardare vicino. A non sognare l'infinito. Mi darò pace.

 Per ora mi sembra tremendo.

 

                            VI

  Rinchiusi il libricino azzurro-rosa. Che cosa è un manoscritto? Un sogno, una testimonianza. Per quanti anni,  dietro quel lavoro paziente c'era stata una donna che aveva sperato di fare qualche cosa d'importante.

Che cosa era stato per me? Forse il primo vero colloquio che avevo avuto con Teresa.

Ma era stato una lettura faticosa. Mi aveva emozionata ed io, costretta a suddividere con razionalità ed accuratezza le mie e­nergie, ero abituata a considerare l'emozione come un lusso su­perfluo.

Perché aveva sepolto tutto in un cassetto? Perché  non aveva mai osato pubblicare? Perché aveva rischiato così poco?

Avrei voluto non pensarci più. Non sentire su di me la respon­sabilità di sopperire io al dovere di dare voce alle sue parole.

 Ma questa volta non potevo essere vile.  Mi guardai allo spec­chio. Davvero. E avrei preso anche i gatti.

Marina Torossi Tevini

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