PREFAZIONE
di
Mario Dibitonto
Vi
è sempre, in ogni poeta, in modo più o meno latente un intento
ideologico-didascalico o idealistico-liberatorio: si tratta - a ben vedere - di
una eredità inconscia o talora consapevole che assorbe le origini della nostra
poesia, sintesi certa del mondo greco e della latinità. Reno Bromuro non fa
certo eccezione e in tutta la sua produzione poetica si è manifestata sempre
l'affermazione dello ethos e della gnome non arte moralisticamente ma
sicuramente come esperienza umana al servizio degli altri; da uomo a uomo vivo
tra gli uomini, cittadino del mondo, figlio dell'Amore,
Reno ha saputo destare nel lettore valori solitamente oggi sopiti ed obsoleti.
Per altro il Nostro, nella realtà in cui si è sempre mosso, ha saputo .
travalicare i chiusi limiti dell'esperienza individuale e quotidiana per
indagare ben oltre, in un viaggio fantastico attraverso gli immensi silenzi del
cosmo per avvicinarsi alla divina luce del tutto di cui egli, Bromuro, ha saputo
cogliere il senso dell'Eterno, della Fratellanza, della Pace, dell'Amore.
Reale ed ideale si fondono cosi in questa poesia che, pur nutrendosi del
contesto storico del presente, può dirsi acronica, ascrivibile ad ogni età, coglibile
sempre da chi non ha dimenticato la lacrima o il sorriso. In questa
stupenda raccolta, Bromuro ricupera un passato denso di emozioni, ricco di
palpiti, pregno di sensazioni, percorso sovente da brividi oscuri; non è poesia
della memoria, non è autobiografismo romantico, tantomeno
decadente crepuscolarismo; non è calligrafismo puro tanto meno spontaneismo naïf.
Si
tratta, invece, di una indagine psicologica, di uno scandaglio interiore di un
viaggio non dal presente nel passato ma dell'attualizzazione
di questo in quello. E' l'infanzia del poeta che
parla con il poeta e per lui: noi, gli altri, possiamo ascoltare e rivedere, in
questo dialogo conoscitivo, la ragione che da spiegazione ai sentimenti ed
insieme questi che salvano quella da una fusione di tipo squisitamente
psicoanalitico. Ed ecco il primo giorno di scuola, Suor Anna, i balilla,
Angela, il primo sguardo, la prima punizione, il regime, la guerra ... la morte.
Insomma, storia dell'uomo come storia degli
uomini, l'infanzia di tutta una generazione che vive la guerra per amare la
pace. E nel crudo realismo di certi passaggi, nell'orrore di alcuni momenti,
avverti quasi l'epopea dei poveri, dei miseri, dei diseredati, quasi una nuova
folla di evangelici straccioni ai quali un Cristo intravisto nei dolori e negli
stenti ancora una volta moltiplica i pani ed i pesci. Verso dopo verso si dipana
e cresce questa infanzia di adulto che creerà un adulto bambino: è un epos
consacrato da eroi quotidiani, le loro storie sono Miti. Troia è ancora la
guerra, ^Omerico cavallo le illusioni tradite. Ma l'uomo cresce, il bimbo non
muore, la verità è sofferta, dolorosa fatica. E il poeta alla fine può dire: Guardo
a Oriente nel giorno che nasce scruto...
Bramo
orme venire all'approdo speranza di vita.
Ma
questo scrutare, questa immensa operazione di una ragione che tale vuoi essere e
non intelletto puro conduce il Nostro ad una domanda: «DOVE VAI, UOMO?»
Il
bimbo di Paduli oggi bimbo più che mai ancora grandi occhi e grande cuore:
avverte l'illusoria idea del progresso, avverte la crisi dell'uomo, sa vedere i
boschi di ciminiere, i prati di siringhe i mari di petrolio, le nubi di smog, il
sole che muore.
Conosce
bene, quel bimbo di Paduli la voce del mitra, il rombo del cannone, la
devastazione delle bombe. Sa dunque intuire i nuovi tiranni, i nuovi slogans, le
nuove assurde profezie ...
L'ansia
di pace nutre questo pessimismo di stampo più lucreziano che non leopardiano;
l'amore per la natura, per il mondo nutrono la speranza di fronte alla nuova età
oscura ...
Reno
Bromuro, uomo del sud ha incontrato ad Eboli il suo fratello: spezza con lui il
pane dell'Amore e se ne nutre: ritrova dunque la forza per andare, per vivere
nonostante tutto, per camminare insieme agli altri lungo i sentieri di sassi e
di rovi dove: Non parla l'umana
giustizia al povero cuore che sanguina
il mio
che
è fatto a spicchi
per voi.
E
la strada del poeta, di ogni poeta è lunga e senza fine, conduce all'Infinito,
nutrita sempre di ansia e di dolore, un: Dolore
che consuma per vederti sorridere.
Mario
Di Bitonto
OCCHI
CHE NON CAPIVANO
«un triste sorriso
sulle tue labbra esangui
aleggiò
e fu il silenzio».
PREFAZIONE
Alla
1° Edizione
Gli
istanti fotografati dalla mente del fanciullo, le impressioni e i sentimenti non
compresi, ma fortemente sentiti e rimasti nell'anima indelebilmente, ci hanno
dato una poesia in cui l'autobiografismo si liricizza in immagini saporose
d'infanzia, raggiungendo il connubio fra materia vissuta e materia contemplata.
L'esperienza,
o meglio la percezione di determinati momenti lirico-impressionistici, rende la
poesia, e per essa l'uomo- poeta, un fatto nostro, rievocativo di universali
situazioni umane.
Il
verso moderno nella concatenazione e nella metrica, per un fatto spontaneo in
apparenza istintivo, è adeguazione formale al grumo sentimentale
irrinunciabilmente romantico, ma germe reale e fantastico di poesia
antiscolastica.
L'autenticità
del sentire ed il momento veritiero si realizzano felicemente in una forma
immediata, necessaria conseguenza ritmo- biologica di un bisogno avvertito ed
espresso.
Nella
lirica «L'inesorabile» un dolore vibrante e filtrato in forma essenziale si
svolge nelle parole e nelle immagini, inarrestabile come il male causa e
soggetto della poesia:
...dopo
sorridesti ancora/ma era sempre silenzio».... Autobiografia, descrizione
talora potente, commozione autentica sono le componenti di questi versi, pregni
di neo-realismo-penso a Brecht - ma ugualmente di volontà redenta e
trasfiguratrice.
Lucio
Garofalo
PRESENTAZIONE
della 1° Edizione
In
linea generale possiamo dire che la poesia è vita. Poesia è vita ed è, in
questa, ricerca del trascendente, dell'universale. Ecco perché secondo me,
cadono i ragionamenti faziosi di coloro che si domandano se in questo mondo, in
questa civiltà, la poesia ha ancora diritto di cittadinanza. La poesia non avrà
più diritto di cittadinanza quando la vita, nel senso proprio, con la «V»
maiuscola, non avrà più diritto di cittadinanza. Questo è il mio pensiero e
più o meno credo sia anche il vostro. Questa vita si rigenera però attraverso
i secoli e la descrizione della vita deve adeguarsi a delimitate situazioni.
Sono stato, purtroppo (per mia disgrazia ho perso un sacco di tempo), presidente
di una Commissione che doveva giudicare poesie. Di queste le più moderne
potevano essere collocate al livello della civiltà di Gabriello Chiabrera; per
tali poeti non è successo nulla nell'800, non è accaduto niente nel 900. Non
c'è stata la bomba atomica, non ci sono state due guerre mondiali; quelli
vedono ancora il fiorellino che esile si reclina sul suo gambo e la cosa mette
in essi tanta malinconia. Evidentemente, forse, i primi nemici della poesia sono
i poeti, o meglio «gli scrivitori di poesie».
Questo
non è il caso di Reno Bromuro, come vedremo fra poco. Quindi ribadisco: esiste
una necessità della poesia anche nell'era tecnologica. Ma quale poesia? Una
poesia che si contrapponga giustappunto a quelle che sono le caratteristiche
negative dell'era tecnologica, all'integrazione eccessiva dell'uomo entro
strutture che egli non ha creato, che si trovano li, che l'efficienza o la
viscosità sociale creano e mantengono. La poesia è quanto di più inefficiente
vi sia; basti pensare che i poeti scrivono i libri di poesia e poi ci mettono i
soldi di tasca loro, eppure sono contenti di fare cosi. Non è che sia una
scelta, ma essi accettano anche questa situazione. Dunque, il punto difficile
per la poesia oggi è quello di aggiornare gli altri e di aggiornarsi sotto il
profilo formale e semantico. Abbiamo la disgrazia, in Italia, di aver avuto dei
grandissimi poeti. Dico disgrazia perché a un certo punto il grandissimo fa un
poco il vuoto intorno, costringe anche i critici a valutare gli altri, secondo
il metro di costoro e quindi chi scrive a cercare di adeguarsi. E' la vecchia
teoria delle scuole. Inoltre noi abbiamo avuto dei poeti della forza di
Ungaretti e Montale che hanno fatto molto vuoto intorno a sé. Voi direte, perché
Ungaretti e Montale? Perché l'ermetismo di Ungaretti e lo stile
particolarissimo di Montale sono proprio quelli che sono più difficili da
superare. Forse Ì nostri poeti in erba non guardano abbastanza Cardarelli,
Pavese e Pasolini, i quali secondo il mio modestissimo punto di vista sono, fra
gli italiani, quelli che hanno saputo di più calarsi nella realtà di oggi, in
quello che è veramente la poesia di «oggi». Il difficile per tutti è il
riuscire a salvaguardare il senso poetico della vita e delle cose, che non è
per niente intrinseco. La rosa di per sé non è poetica, siamo noi che la
facciamo poetica in quanto ha dei bei colori e inoltre, sfiorisce in un giorno,
per cui i poeti, a partire addirittura dai romani, ma in particolare con Ronsard
che ha amato descrivere la rosa, hanno creato l'archetipo della rosa. Per chi è
venuto dopo, la rosa è diventata automaticamente una cosa straordinariamente
poetica. Se ci pensiamo però, può essere altrettanto poetico il traliccio
dell'alta tensione: si tratta di saperci mettere la carica poetica.
Il
nostro amico Reno Bromuro è una persona che ha saputo, in certo senso mettere
la poesia nel traliccio dell'alta tensione. Mi pare che mi guardate sbalorditi.
No, non è che egli abbia messo nulla nel traliccio dell'alta tensione: sono io
che considero questo manufatto metallico semplicemente come una possibile
simbolizzazione del mondo d'oggi. Non mi piace chiacchierare molto, amo il
concreto e allora, pur consapevole che qualcuno leggerà meglio di me l'opera di
Bromuro, desidero offrirvi un primo impatto con essa. Del resto, quando si paria
di poesie, o si ha il libro in mano, o bisogna sentirle dire due volte. Secondo
me, questa breve poesia che vi leggerò adesso, dal titolo «Nostalgia»
riassume questo rapido e lontano viaggio nel passato che Reno Bromuro fa in
questo libro. D'altra parte credo che non a caso essa sia collocata al penultimo
posto: «Nostalgia»: Cantore
notturno//che mi porti le note //'di un antico verso//in questa notte di
nostalgia//non cantare quel verso //. Devo tornare? Ritornerò//. Decisamente
si riscontrano piuttosto influenze di ermetismo, però le altre composizioni
sono di genere del tutto diverso. Mi ha giurato l'amico poeta, sui suoi numerosi
figli, che queste poesie, poi sono veramente dell'epoca a cui si riferiscono,
cioè sono poesie giovanili a cui ha voluto lasciare le asprezze, a cui non ha
voluto togliere talune forme d'ingenuità, in cui ha voluto addirittura
rimanessero degli errori di sintassi e un paio di errori d'ortografia. D'altra
parte tutto ciò e messo sulla penna, di un ragazzo di otto, nove, dieci anni
(adesso vedremo anche questo) e si giustifica pienamente. Questa forma
sinceramente naïf è quello che mi ha notare come l'individuo Reno cresca, e
lui stesso se ne accorga; a pag. 9 dopo un certo numero di poesie, (voglio
leggere con le sue parole) «avevo otto
anni due mesi// e venticinque giorni: ieri»//. Questo è una pietra miliare
per quello che si è detto prima: più avanti: «avevo
undici anni un mese e dieci giorni// ieri».
Non
abbiamo motivo di non credere che quello che ci dice il poeta non sia vero, cioè
che queste poesie non siano state scritte li per li. «Ho
tredici anni // 5 mesi e ventun giorni//.
Si
potrebbe a lungo studiare questa poesia appunto per la sua genuinità, la sua
sincerità, la sua sprovvedutezza, nel senso buono, e cioè non ci sono
lenocini, non ci sono trucchi, non ci sono cose per fare bella figura. Guardate,
vi voglio leggere - certamente sarà fra quelle che si leggeranno: «Un correre».
Notate,
vi ho detto che la figura del nonno è una figura nobilissima - è colui che
risolve tutti Ì problemi, è colui che è un poco la divinità del libro - però
vi farò notare adesso come a un certo punto anche la divinità si spoglia di
fronte a qualcosa di più grande: «Un
correre». «Un correre, un bisbiglio frettoloso ^Nell'alba radiosa è
primavera// il nonno, giacca in bocca// scarpe slacciate corre per le scale//si
abbottona la patta dei calzoni//. E' ritornato! - dice - E' ritornato! // il
cuccioletto è ritornato a casa!»// Non c'è molto da commentare, queste
sono poesie che si commentano da sole. Quello che si nota in Reno Bromuro è...
pure in tenera età, la sua facoltà di costruire strutture verbali e
sintattiche molto personali, direi straordinarie; vedete a un certo punto,
pagina 20, in un elemento di una composizione più grande questa serie di parole
che sono collegate in un modo ben strano fra di loro e che pure ci dicono
moltissimo. Si parla di un marinaio, cioè di un abitante del paese, imbarcatesi
sul «Giulio Cesare», destinato quindi a una tragica fine: «Sua vita le lagrime della madre//Su mani callose abituate//
al rastrello//
erba cattiva estirpare//sano frumento non suo».
Come potete notare, con divisioni successive qui ci sono 4 o 5 periodi
accavallati eppure si intende e si penetra benissimo quello che il poeta vuoi
dire. Sempre considerando questo complesso di poesie come una sagra della
gioventù o meglio della fanciullezza, in un periodo di tormenti e di dolori per
tutti, può essere anche interessante notare come è preparato e probabilmente
non se ne è accorto appieno chi l'ha scritto, il
ritomo del padre. Ricordiamo che il padre è stato lontano per tutto il periodo
della guerra. Il padre mi permetto di sottolinearlo, ritorna a pagina 22. Però
a pagina 18 cominciamo ad avere dei prodromi: «Fuori
il balcone//il pesco piantato da mio padre//comincia
a perdere le foglie// e reduci,
a carovane
//'passano
per Paduli//. Si vede questo cataclisma che passa li accanto: «i reduci» a
carovane, non a reparti, non a gruppi: a carovane. La poesia che segue canta un
altro reduce, morto sotto una galleria. Voi sapete - è capitato in quel periodo
- che, per il carbone (che era più zolfo che carbone), se un treno doveva per
avventura fermarsi sotto una galleria, i casi di asfissia potevano essere
numerosi. Quindi nel caso considerato abbiamo che la gloria coincide con una
morte oscura, una morte forse sciocca, certo inutile, che solo il ricordo dei
cari nobilita. In un'altra composizione, abbiamo il reduce, decorato ma che
muore di fame. Ovviamente qui il nostro ragazzo-poeta si pone il problema e si
domanda: quando ritornerà mio padre quale di queste strade farà? Mi arriverà
vivo, cioè in condizione di essere un uomo, oppure finirà come è finito
questo o quello e quest'altro? E' una tematica certamente nuova e molto
interessante: II poeta inconsciamente, desidera e pure teme ed aspetta; attende
il ritorno del padre, ha paura però che questo ritorno possa risolversi in una
tragedia, o almeno in una delusione che invece di rappresentare una specie di
catarsi familiare davanti al paese teatro pronto al consenso, in un interesse
corale, diventi invece solamente dolore sventura personale e segreta. Sono
arrivato al termine di queste poche cose che vi volevo dire ritengo però, in
modo sommesso e seguendo il filo indicato dall'autore di avere cercato di
spiegarvi che cosa è il libro. Se ci sia riuscito o no, sta a voi dirlo la
prossima volta che ci vedremo, dopo che il libro stesso, ve lo sarete letto.
Ringrazio il poeta per questa occasione che mi ha dato di esaminare a fondo la
sua opera. Siccome sono pigro, come lo siamo tutti, sono stato costretto a
guardare a fondo un'opera che ritengo molto valida.
Marcello Eydalin 8 Febbraio 1975 - Teatro «De Lollis» - Roma
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