Note e Motivi
©
1999 - Reno Bromuro
L’autore di questi
componimenti
giunge al travaglio dell’espressione artistica solo per interiore coercizione:
né ozi, in effetti, né facilità di esistenza né tranquillità di ambiente
sono nella sua vita o vi sono in quantità tale da consentire a lui quegli
abbandoni spirituali e verbali che caratterizzano l’arte cosiddetta “fiore
di serra”. Mancano, perciò, in queste pagine sintesi quintessenziali e
lagrime di alambicchi: come quelle di un famoso poeta antico, essa sanno
d’uomo, hominem sapiunt.
Al lettore distratto lo
rivelano i titoli; agli altri lo rivelano i singoli componimenti, i quali si
tengono aderenti alla vita di tutti i giorni e la riecheggiano con una semplicità
che talvolta può parere ingenuità, tal’altra candore, ma che è sempre
aderenza di sentimento.
Di che natura sia questo
sentimento, non è difficile vedere: l’autore non vuole nascondere, e forse
non saprebbe, il mondo nel quale si aggira la sua ispirazione e che cosa di
questo mondo lo colpisca. Sono palpiti, gioie, dolori sentiti in maniera scevra
di complicazioni, forse anche non sempre approfonditi, ma sinceri e sinceramente
espressi.
Questo
dà al volumetto sapore di freschezza; e questo renderà certo gradito il
lirismo della maggior parte di questi componimenti, che, nei limiti già posti,
vogliono rivelare un’anima. Sarebbe bello che qualcuno, nel disordinato e
convulso fragore del tempo nostro, porgesse ascolto a questa voce tenue: essa
(sarebbe, a me pare, da attenderselo) potrebbe forse domani irrobustirsi, per la
nostra gioia e per l’elevamento spirituale di questa nostra inesausta umanità
perennemente protesa all’avvenire.
Enzo
V. Marmorale
1) In treno, una sera | 2) Non ci sarà più sole | 3) La vita | 4) Malinconia |
5) Signorina Felicita | 6) Napoli | 7) Notturno | 8) Canto di sera |
9) Canto di notte | 10) Il mio regno | 11) Soffocamento | 12) Assenso |
13) Due tombe | 14) Aurora | 15) Lettera | 16) Mio padre |
17) Suono di campane | 18) Desiderio appagato | 19) Meditazione | 20) Chi sei? |
21) Notte di luna | 22) Il tempo dell'aurora | 23) Nel dirti addio | 24) T'ho voluto bene |
25) Virginia | 26) Come il vento | 27) Rosa | 28) Contrasto |
29) L'uomo del lago | 30) Preghiera | 31) La notte | 32) La morte |
33) La fontana | 34) Pentimento | 35) Il canto dell'usignuolo | 36) Invocazione |
37) Ottobre | 38) Fomelhaut | 39) Aldebaran | 40) Castore e polluce |
41) La greppia | 42) Regolo | 43) La Spica | 44) Kiffa |
45) Antares | 46) Al morto Sole di Cefeo | 47) Il giovinetto dell'Acquario |
L’incerto
mio cammino
ogni
sera
mi
portava alla gioia:
ti
trovavo in attesa.
Ma
quel giorno dal treno
un
uomo cadde in tonfo;
e
disse qualcuno:
Un
uomo è morto…
Era
morto un uomo!
Ed
io più forte sentii la gioia
Di
saperti in attesa all’arrivo,
creatura
di vita
per
l’altra viva creatura.
Dicevi:
“A primavera
avremo
tanto sole…”
Ma
venne la primavera,
e
fu freddo ed ombra;
e
ne vennero altre,
ma
ombra e freddo ancora.
Amore,
eri tu quella
che
potevi donarmi
luce
e calore:
ma
con le tue vane promesse
il
sole fu vana speranza.
E
torni pure aprile:
io
non me ne avvedrò:
non
ci sarà più sole.
Sappilo,
amore:
è
solo un fiore, la vita,
dallo
stelo sottile
che
al primo vento un po’ forte
si
spezza.
Vale
soltanto, amore,
nel
timore del nulla in agguato
tenersi
per mano…
Ogni
uccello torna al nido,
e
talvolta anche alla gabbia:
ma
io non tornerò.
Lasciamo
dimenticare,
lasciami
immergere il capo
nell’acqua
dell’oblio.
Se
ritornassi, un’ombra
ti
troveresti avanti:
solo
Dio può far morire
e
poi chiamar dal sepolcro.
Ho
conosciuto quella del poeta,
te,
non t’ho mai veduta
se
non nelle parole delle madri,
che
nuora ti sognarono.
Signorina
Felicita,
par
che vederti in volto
sia
privilegio raro:
io
non vorrei sciuparti
neppure
in sogno: resta
nel
tuo giardino chiuso:
forse
verrò a vederti,
quando
pel cuore amareggiato e stanco
vorrò
l’amor d’un simbolo sublime,
fuor
della vita, esangue.
Note
arabescate
sullo
sfondo azzurro del mare,
poeti
che sognano
un
mondo che domani
abbia
un sorriso e una lacrima
per gli affanni di tutti.
Voci
rivenditori
Malinconiche
e tristi,
luci
multicolori,
cuori
innamorati in attesa,
nottambuli
viandanti
per
le strade illuminate
dalla
splendida luna.
Quando
giunge la sera,
d’inverno
o di primavera,
il
cuore mio comincia a cantare.
E
nella silenziosa pace
dà
un addio alla malinconia:
cantando
si sente felice,
perché
il suo pianto
nel
canto
si
fa gioia sommessa.
Tutte
le sere,
a
mezzanotte,
sale
dalla strada un canto.
“Un
canto nella notte”
penso
fra me
E
mi chiedo ogni sera
chi
mi porti tanta pace col canto.
Suvvia,
cantore:
la
luna è già scesa oltre Baia:
cantore,
è tardi, riposa:
anche
troppo presto
verrà
la luce,
tornerà
l’affanno.
Talvolta
mi creo
nell’orrore
notturno
angosciosi
silenziosi,
medicina
sperata
per
placare l’insonne nemico.
E
la luna,
amante
dell’anima,
si
circonfonde di rosso torpore.
Così
si placa l’anima.
Squarciate
le mura
di
questa camera tetra,
spalancate
nuovissime finestre
su
cieli d’abisso.
Qui
non c’è luce, mio Dio,
qui
non c’è speranza di luce.
Fate
ch’io mi senta
Diventato
diafano,
datemi,
Signore,
l’immenso
respiro del Tutto.
E
così sia!
Ringraziate
pure il Signore
Di
questo nuovo giorno trascorso,
di
questo pane morso,
del
poco vino bevuto,
del
molto che invano chiedeste,
del
poco che vi fu provveduto,
della
facoltà che vi è data
di
chiedere ancora domani.
S’allunghino
le vostre mani,
bambini
malaticci e rassegnati,
al
pomo della povera mensa:
ringraziate
di tutto dispensa
del
poco che vi diede,
pregate.
Fra
tante tombe
Ne
cerco due,
le
tombe a me più care,
due
persone da amare
oltre
la vita.
Io
cerco voi, don Franco,
io
cerco te, Enrico.
Trovare
le vostre tombe,
muovere
la gelida pietra,
ritrovarvi
compiacenti e buoni,
sorridenti
come un tempo…
Ma
presto torno indietro:
le
vostre tombe sono in me,
la
vostra, don Franco,
la
tua Enrico,
e
solo in me voi vivrete,
finché
io pure vivrò.
L’ultima
stella impallidisce
E
il cielo lentamente si colora
all’oriente
d’un tenero rosa.
Il
sole ritorna,
il
sole torna a splendere,
splende
più caldo il sole:
come
risorge l’anima,
che
al primo tramonto
si
credeva perduta.
Anima,
hai ritrovato l’Aurora,
e
l’hai chiusa nel cuore,
novello
dono di Dio.
Amico
insperato, ascoltami,
ho
solo vent’anni.
Ma,
te ne prego, non dirmi
Ch’io
son della vita alle soglie.
Amico
insperato, la vita
m’è
sfiorita in cuore a vent’anni:
nell’anima
ho rughe profonde
pel
pane che non mi bastò,
per
la luce che non ebbi.
Se
ti dicono, amico insperato,
che
il sole splende per tutti,
smentisci
la stolta menzogna:
nella
mia vita non c’è stato sole.
Forse
domani, se tu
non
sparirai alla mia sete,
dirò che vedo l’aurora.
Un
urlo angoscioso alla mia porta,
in
quella notte di tempesta,
ma
all’uscio non trovai nessuno:
solo,
mi parve, l’odore del mio sangue
in
lontananza.
Attesi
sotto la pioggia,
finché
non intravidi nella nebbia
un
uomo: mio Padre.
Brancolava:
era cieco.
Ma
come, mio Dio?
Lo
trascinai con me,
lo
cullai come un bimbo,
com’egli
nei terrori dell’infanzia
mi
aveva cullato.
E
s’assopì nel sonno,
per
sognare – oh, dono di Dio! –
il sole che gioca ancora col mare.
Così
vicino era Paduli,
che
se io salendo
avessi
steso la mano,
fra
sassi e polvericcio
avrei
potuto toccarlo.
Una
gioia trionfante mi prese alla gola:
sentivo
di lontano
le
campane di Pasqua.
E
fui nel borgo
Già
prima di entrarvi,
e
ancora mia madre
mi
conduceva per mano
ad
ammirare fra gli incensi
il
Cristo risorto
in
una festa di biancospini.
Mi
scaldava la mano di Mamma,
mi
carezzava il fiato di aprile:
così
entravo a Paduli,
prima
di entrarvi.
Mi
dico: “Eccoti, infine,
nella
bramata campagna,
sotto
l’ombra d’un folto pergolato.
Canta,
poeta, stringi fra le braccia
Il
mondo intero: intona
anche
l’inno dell’amore”.
Taccio:
di dentro solo
un’eco
di sorriso:
l’attimo
della gioia
è
spesso senza canto.
Tra
un punto di cucito ed una rima
passo
la vita, indifferente al mondo:
chi
mi sa leggere dentro,
chi
può vedermi nel cuore?
E
qui, mentre la brezza
mi
porta effluvi tetri di sobborgo,
medito:
un tempo anch’io
respirai
la purezza
d’un
cielo ubriaco di verde,
fra
gli ulivi di lontane colline.
Ero
fanciullo, allora,
né
ancora la vita mi aveva deluso,
mettendomi
un ago fra le mani.
Ma
con nel cuore un poco
Di
poesia sognante,
anche
l’ago si dilegua talvolta,
l’ago
amaro destino di vita.
Sei
venuta sulla mia strada
E
ti sei messa al mio fianco.
Qualcuno
lungo il cammino
Ha
sussurrato: “E’ un angelo”.
Ed
io ho scosso il capo:
chi
tu sia non so,
ma
non sei certo un angelo:
l’angelo
non accende desideri,
ed
io, sappilo, attendo
la
prima svolta a ponente,
sì,
attendo, quella svolta,
per
dirti ciò che nessuna
ha
mai pensato d’un angelo.
Cheta
e misteriosa,
la
luna sorride nel cielo,
mentre
io parlo di lei,
e
intanto par che la rosa
fra
le mie mani appassita
riprenda
forza e consenta.
Io
parlo ancora di lei
Alla
sorella luna:
chi
sa che un giorno non torni
a rallegrarmi la vita…
Tu
guardi al rosso di sera,
e
sei nel fiore dell’adolescenza…
Fa
ch’io ti prenda per mano
e
ti aiuti a passare la notte:
attenderemo
il tempo dell’Aurora.
Nel
dirti addio,
voglio
confessarti che t’amo.
So
che di primavera
Tornano
al nido le rondini,
tornano
i fiori nei campi.
Tu,
come rondine bella,
tu,
come fiore di carne,
non
tornerai: non mentire,
e
se ti dico che t’amo,
sorridi
e dimmi: “Davvero?”
e
parti senza voltarti.
Bastava
un attimo di gioia
Per
avvincermi a te.
E
se mi dicevi “caro”,
era
una dolce musica di stelle
in
un cielo di desiderio diffuso.
Era
solo una parola,
ma
in quella parola
l’abisso
riluceva senza fondo,
come
lontanissima luce
in
un viale alberato
verso
l’infinito.
Sul
roseto trionfante
Ti
vidi e volli coglierti,
fanciulla
dal gelido nome
verginale.
Ti
ebbi così,
ma
al volger d’un anno
non
più rosa
ma
carnale camelia
senza
profumo ti ritrovai.
Ed
oggi per te
ogni
roseto mentisce,
intristisce
ogni cuore.
Col
tredici del sesto mese
Sei
anni di già.
Sei
anni, amore, sei
granelli
della nostra polvere
mortale…
Come
il vento si porta
gli
aghi morti dei pini
-
ed esso solo sa dove – ,
così
la passione
ci
trascinò sei anni.
Ora
mi guardi, stanca
non
so di che,
e
mi chiedi se tanto
tempo
potrà tornare.
Ma
chi ritorna indietro,
povero
stanco amore?
Sei
tanto bella, Rosa,
sei
la rosa più splendida
degli
umani roseti.
Felice
il tuo giardino,
nel
tuo fulgore stupendo.
Io
t’ho amato, ma oggi
penso
che solo è bene
goderti
nel mistero
della
Bellezza pura
ma
tanto bella, Rosa
ti
sogno qualche volta
anche
pietosa e buona…
Hai
giocato col mio cuore,
che
per te ha riso e ha pianto.
Ora
non posso più:
addio,
amore mio.
Ma
t’ho chiamato “amore”
E
dunque ancora,
se
per mano mi prendi,
ti
seguirò come ieri,
anche
verso l’abisso.
Più
che il buio selvame
del
Lago d’Averno
mi
attrassero gli occhi dell’uomo
che
si offriva per guida.
E
bramai che in quel luogo
Egli
ritrovasse la pace
per
un miracolo
sprizzato
dalle mie mani.
Ma
il suo male
era
come il mio
senza
convalescenza.
Tutto
quel che m’è dato
è
tuo gratuito dono,
ed
io l’accetto, Signore,
deciso
a non ribellarmi.
Ma
come è grande quel peso
d’ansiosi
tormenti!
ed
è pur sempre un dono
che
solleva me indegno
al
dolore de pare la via
al
tuo Regno.
E’
giunta la notte,
e
tutto dorme d’intorno:
anche
il vento.
Sosta
l’umano lavoro,
tace
l’umano travaglio.
Trapunto
di stelle,
stende
il suo manto la notte
sulla
laguna di lacrime.
Che
vale ch’io vegli?
Ma
datemi l’oblio…
Non
temere la morte,
che
non sa farti male:
nell’incoscienza
dei sensi
s’apre
il sorriso dell’anima.
Ogni
rimpianto è inutile
per
quel che non fu
nella
vita delusa:
s’apre
lontano lontano
l’immenso.
Con
una nuova speranza
ritorno
in quel sentiero di bosco
accanto
alla fontana.
Un
giorno, chini sull’acqua,
ti
dissi “Amo quella ch’è in fondo”,
e
tu sorridesti confusa.
Ora
più nulla resta del sorriso,
più
nulla resta delle mie parole.
Ma
la fontana è là,
con una nuova speranza.
La
prima stella della sera
si
fa vedere nel cielo
e
in me scende il timore:
il
timore del bimbo
che
prima di addormentarsi
vuol
esser certo che altri
l’accolga
al risveglio.
Ho
paura d’addormentarmi
nel
sonno senza sogni.
Ieri
avrei forse voluto,
oggi
non voglio più:
ho
respirato l’effluvio
del
suo sperato ritorno.
Venivi
all’approdo con Sirio
e
il nostro canto d’amore
traboccava
nel cielo.
Ora
in quel nido
son
solo,
come
l’usignuolo del bosco,
ma
senza il suo canto,
che
sa sempre
ridonargli
l’amore.
Oh,
guardare le stelle
da
questo remoto pendio!
Rimirare
Cassiopea
che
inarca il carro dell’Orsa,
Orione
potente,
Ercole
gigante dal ramo d’ulivo,
e
il celeste Bifolco.
Oh
grandezza di Dio
fa
che i miei nemici ed io
camminiamo
fianco a fianco,
come
Castore e Polluce,
in quest’arido luogo d’inganni!
Dovunque
foglie morte
nella
sinfonia del vento.
Ma
se due esseri ebri di gioia
lasciano
la loro impronta
sugli
aghi morti dei pini,
il
cielo d’improvviso si schiarisce
e
Diana affacciandosi sorride.
CANTI
DEL VIANDANTE
NOTTURNO
Hai
il letto nelle spumose onde
e
vivi in cielo nel regno dell’amore.
Fomelhaut,
il tuo volto
muta
come l’iride,
se
ti circondi d’un velo
sull’orizzonte
d’estate.
E
penso che forse
la
letizia che mi fugge
vive
sulla tua bocca celeste.
Aldebaran,
di tutto il tuo splendore
s’illuminano
il Toro furioso
e
le timide Pleiadi.
So
che dal seno tuo
rigermina
la vita del mondo,
risuscita
la morte.
Con
te dovunque
canta la giovinezza.
Nell’aria
turbinante di fuoco
spuntano
i Gemelli,
e
la notte che sembrava
aver
trovato fine
si
ottenebra ancora.
Sorridono
gioiosi e violenti
i
figli di Leda,
mentre
in lontananza
si
ode il dolce suono della Lira
in
corteggio di stelle stupite.
Greppia
divina e vergine
come
il frutto dell’Eden,
illumina
ancora una volta
il
mio cammino,
fa
che ancora una volta
il
labbro mio si schiuda al sorriso.
Greppia,
tranquillo
ammasso del Cancro,
passa
come la brezza del mattino d’aprile,
fonte
di verginità,
datrice
di purezza.
Ascolta
il canto degli angeli
il
vagabondo terreno
che
valica i cieli.
Gli
angeli cantano
E
sanno il suo dolore,
mentre
invitano Regolo
a
dar la sua forza di leone
al
loro canto giulivo.
E
Regolo dice
che
brillerà per lui.
La
Spica nel suo colore bianco
Festosa
si sente,
perché
stanotte ha visto
la
Vergine spigolatrice
vagare
pei cieli
vestita
di purezza
e
fermarsi a mezzogiorno
per
attingere acqua limpida di fonte.
Vergine,
in
te si rispecchia
l’Infinito…
Tu
sai, Kiffa,
che
pesanti catene mi tengono avvinto
al
mio destino di vita.
Sì,
sono molti i peccati
e
non lievi le colpe,
ma
tu che della Bilancia
sei
regina,
metti
un po’ di sorriso
e
fa muovere l’Ago
nell’atteso
soccorso.
Nella
notte nebulosa
udii
la tua voce cantare
in
un rosso fulgore di gioia
accompagnata
dal coro delle tue stelle:
“La
mia spada
ha
battuto Orione”.
Oh,
con essa vorrei tu tagliassi
corde
e legami di neri pensieri
per
cullare gli uomini
in
un letto di stelle.
Anche
tu, morto Sole di Cefeo,
un
giorno rifulgesti di splendore.
Ora
ti conosce solo il dotto:
altri
non sa.
Anch’io
un giorno risplendetti
agli
occhi di una donna.
Ora
chi conosce il mio penare?
E’
simile il mio cuore
al
morto Sole di Cefeo.
E
tu, che dispensi il canto
Pervaso
di dolcezza,
nel
segno dell’Acquario passi
con
l’anfora stellata.
Disseta
l’arsura degli uomini
Che
mai si smorza,
fa
che possano attingere
alla
tua limpida fonte
la
luce dell’eternità.
Altri
poeti, estranei alle influenze esercitate dalla poesia ermetica ci vengono
presentati da Enzo V. Marmorale e da Luigi Pepe, accolti nella piccola collana
“I Poeti dell’Acanto” edita da C. Armanni (Napoli).
Reno Bromuro intitola “Note e Motivi” i suoi versi, in cui vibrano
sentimenti lievi e musicali, sinceramente e sobriamente espressi, come afferma
Marmorale, che attribuisce al volumetto un
“sapore di freschezza”.
I brevi canti di Bromuro sono intrisi di pacata dolcezza, si snodano
liberi e cristallini. Ecco il “Canto dell’Usignuolo”: “Venivi
all’approdo con Sirio/ e il nostro canto d’amore/ traboccava nel cielo./ Ora
in quel nido/ son solo, / come l’Usignuolo del bosco,/ ma senza il suo canto,/
che sa sempre/ ridonargli l’amore!”
Il motivo predominante è l’amore, che il giovane poeta avverte con
tremore lirico: “Hai giocato col mio cuore, / che per te ha riso e ha pianto.
/ Ora non posso più:/ addio amore mio!”
Le cose sono dette semplicemente ed efficacemente, senza complicazioni
intellettualistiche. Anche l’accento mistico è risolto in pura nomenclatura
immaginativa: perché sentita è la presenza di Dio, che sovrasta gli uomini e
le cose. “Squarciate le mura/ di questa camera tetra,/ spalancate nuovissime
finestre/ su cieli d’abisso. / Qui non c’è luce mio Dio,/ qui non c’è
speranza di luce. / Fate ch’io mi senta/ diventato diafano, / datemi, Signore,
/ l’immenso respiro del Tutto.”
Sono note che per lo più sembrano tenui e fugaci, ma risuonano a lungo
nell’animo dell’attento lettore che sappia trascegliere e coglierne i motivi
più profondi. Si veda ad esempio la nuda ed essenziale efficacia di questo
finale: “ma con le tue vene promesse il sole
fu vana speranza - E torni pure aprile: - io non me ne avvedrò: - non ci
sarà più sole”: oppure si rilegga il “Canto di sera”, dove il poeta
“cantando si sente felice, - perché il suo pianto nel canto - si fa gioia
sommessa”.
Altrove l’anelito del poeta si fa contemplazione dell’umano destino e
il suo canto si eleva ad alta consapevolezza lirica nella poesia “Assenso”
che ci sembra senza dubbio la migliore della raccolta.
Qualche
nota di preziosismo compare negli ultimi componimenti della raccolta che
l’autore intitola “Canti del viandante notturno”.
Luigi Pepe
Reno Bromuro
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