NATANIELE PAGHINI

Presenta

Inkta ed Osgda



I

Dialoghi tra Inkta ed Osgda

Secondo antiche trascrizione su roccia

Primo dialogo: Da sotto un'albero e da sopra una torre Secondo dialogo: In riva ad un fiume Terzo dialogo: Sulla collina degli alberi in fiore

II

Frammenti delle opere perdute di Inkta ed Osgda

Frammento 1 Frammento 2 Frammento 3

III

Fiori assoluti

I fiori assoluti Campo Santo Segmento
I pensieri rubati Similitudini cosmiche  

IV

Barbara

Barbara 1 Barbara 2 Barbara 3 Barbara 4

V

Notturni

Notturno 1 Notturno 2 Notturno 3 Notturno 4 Notturno 5


I

Dialoghi tra Inkta ed Osgda

Secondo antiche trascrizione su roccia


 

Primo dialogo

Da sotto un albero e da sopra una torre

 

Chiese Inkta ad Osgda da sotto un albero:

Qual è il piacere più grande?

Rispose Osgda da sopra una torre bianca:

L’opposto del dolore più acuto.

Dovevano un poco urlare per farsi capire.

E quando capita di provare questo dolore

di cui parli, amico Osgda?

I tuoi desideri, le tue speranze, i tuoi amori,

dei cui inebrianti profumi ti bei come

in un campo di fiori eternamente soleggiato,

vanno oltre i limiti che la vita ti ha donato;

quando il fiore che è in te non sboccia.

ecco la risposta, Inkta; ma per quale ragione

una simile domanda mi hai posto?

Io non ho mai provato grandi dolori

né grandi piaceri, né desideri o privazioni.

Vivo da sempre in un eterno e grigio mezzo.

Forse è questo il dolore più grande,

concluse Osgda, ma non lo disse all’amico.

Poi rimasero in silenzio di voce e di mente

fino a quando le stelle

cantarono melodie di luci cosmiche.



 

Secondo dialogo

In riva ad un fiume

 

Domandò Inkta, ai piedi di una collina,

 specchiandosi nella pura acqua

d’un fiume: Chi è il prossimo

se seguo la tendenza energica del solipsismo?

Altri che si pongono la stessa domanda,

rispose Osgda non molto lontano, sorridente.

Allora, riprese Inkta, cupo, è una teoria errata.

Aggiunse Osgda, imperturbabile nel suo sorridere:

In alcuni dei miei sogni v’erano uomini

che mi sognavano mentre sognavo loro.

Non esiste una verità assoluta, constatò l’afflitto Inkta,

 e s’alzò triste allontanandosi

verso un solitario cipresso.

Anche l’assoluto è relativo, replicò Osgda.

Osservò il suo amico coricarsi sotto l’albero,

il cielo era blu e la terra verde dell’erba.

Un drago prese il volo all’orizzonte

e Inkta lo guardò con meraviglia:

Quell’airone ha i colori del paradiso.

Che aquila maestosa, disse placido

Osgda ed immerse la mano nell’acqua fresca.

 

Nel paese di Inkta ed Osgda non esistevano draghi



Terzo dialogo

Sulla collina degli alberi in fiore

 

Sul far della sera giunse Inkta alla collina,

per il dì intero aveva studiato i libri

che giacevano dimenticati nella polverosa biblioteca,

ed ora, esausto e dubbioso, cercava l’amico osgda.

L’amico Osgda se ne stava sotto un albero

in fiore a mirare la luna trasparente

carta velina sull’acqua. Di tanto in tanto

chiudeva gli occhi ed un vago sorriso

illuminava il bel volto suo sereno.

Osgda, chiamò Inkta salendo per la collina

e fermandosi a guardare i petali dei fiori.

Poi si sedette accanto all’amico e la parola

gli rivolse: Più mi addentro nell’arido

spessore della filosofia e della metafisica,

più indago i dilemmi dell’ontologia,

più s’allarga il cerchio mio della conoscenza

e maggiori sono i dubbi, maggiore l’inquietudine.

Ed Osgda sorrise

e si sistemò beatamente

contro il tronco

e gli occhi li tenne chiusi.

Dimmi, la voce pacata, dimmi: è forse

la logica, e prima ancora la mente razionale

che l’escogita la fondamenta della sapienza

che da anni studi fra quei perduti libri?

Sì, è lei la base sicura su cui costruire.

Vedi, io non capisco nulla

di quella scienza, né pena

mi diedi per apprenderla, come tu sai.

La mia vita è colma istante dopo istante,

ha l’identico ritmo di quest’albero

e di questa collina che ci sostiene

e di quella luna che ogni sera è un’altra.

Io so chi sono e dove sono

in ogni attimo della mia vita.

Non basta questo per essere in pace?

Inkta: E chi sei tu?

Osgda.

E chi è Osgda?

Non ci stai forse parlando

insieme?

Dopo, Osgda non disse

più nulla e si addormentò.



II

Frammenti delle opere perdute di Inkta ed Osgda


 

1

…di non giudicare oltremodo male

l’uomo che è nero di bestia, per

non biasimare l’angelo riposto

nei suoi recessi.

E non lodare esageratemente l’angelo,

altrimenti vanteresti anche la bestia.

Gioisci, piuttosto, gioisci nel vedere

quell’uomo che sa di essere bestia

tentare di divenire angelo.


 

2

(Ho) un buco nero…

un baratro assoluto privo di Dio.

Si è conficcato come una lama,

un cerchio di nulla

fra petto e ventre che…

 

Fagocita tutto ciò che produco,

lo annulla mutandolo in fango,

accatastandolo in un angolo

che ho idea essere infinito.

 

Le mie giornate

sono diventate vane,

sequenze di inutili eventi

ai quali assisto impotente.

 

Mi sento precipitare

verso una imperitura neutralità…

galleggerò come foglie secche,

lasciandomi cullare dalle onde

cosmiche…


 

3

Cerco Dio,

lo anelo,

lo pretendo.

Non ammetterò

alcuna giustificazione.



III

Fiori assoluti


I fiori assoluti

 

Toccavo l’angoscia della vita,

nei miei recessi, la sua essenza

che è la scomparsa nel nulla;

percepivo le urla

delle stelle morenti,

l’ineffabilità dei tramonti,

la pura illusione

e l’agghiacciante esattezza

dell’imperturbabile tempo,

ed il frantumarsi ed il risorgere

dell’intero universo

allo scadere d’ogni secondo.

Ed allora mi sedetti,

mi ricordavo d’una musica

cristallina d’arpa celtica,

d’un’amore che non era mai sbocciato

e di un altro che viveva

nella banale turbolenza

della quotidianità,

e tutto era così raro e bello,

così sciocco ed importante,

i miei pensieri, gli amori,

i soli di tutti i miei giorni.

Sostarono gli occhi

su semplici fiori di campo

e m’avvidi che non erano solo fiori,

non solo petali, gambi, foglie e profumi,

bensì la somma di milioni d’anni,

il risultato finale

di un percorso sconvolgente

ma preciso,

un’opera d’arte… l’opera d’arte.

Erano fiori assoluti,

erano la realtà.

La mia realtà.



Campo Santo

 

Del padre mio

il tempo s’accinge a strapparmi

i ricordi minuti

la cui somma fanno una persona.

La sua voce,

le parole che mi disse,

i semplici gesti quotidiani,

per strada il camminare,

lo sfogliare delle pagine.

Rinfrescano per un attimo

le fotografie l’immagine sua,

poi cerco un sentimento,

e non so più se genuino

od inventato per timore.

Mi rattristo delle sere che tornava

- quand’ero bimbo e felice -

con un gioco nella borsa,

dei pomeriggi che mi rapiva

al tedio della scuola

per donarmi gli stupori del cinema.

Fu un buon uomo,

l’infermità di mio fratello

lo rinchiuse in un guscio di rabbia,

forse covava la delusione

di avere fallito nella vita,

un proposito che non raggiunse

per colpa nostra… saprò mai

la verità?

Commise errori, non pochi,

da sempre non è modello

di vita per me,

ed oramai non so più

cosa devo a lui e cosa no.

Fu mio padre,

lo è tuttora,

venni al mondo anche per sua volontà.


Segmento

 

Io so che provengo dal nulla

ed in quella totale assenza

alla fine dell’arco mio tornerò,

assolutamente inesistente prima

ed azzerata coscienza dopo,

e so di tutti i colori e profumi

che ha ideato la mia specie

per la vanità di conoscere

falsi sapore e direzione…

e non uno che sia uno ne nego,

non potendo e non volendo.

Io mi inchino al sole che nasce,

all’effigie dell’egizio falco,

prendo per vere le parole del Corano

(che sono una qualità di Dio)

non meno delle novelle bibliche

e le mitologie – qualsiasi – oramai polverose

sono per me sacri al pari

di quelle che devono venire.

Coltivo la speranza nel Paradiso

e non nego il Nirvana,

ogni cosa è vera e giusta e bella

se paragonata al nulla gelido.

O mio dio, amico e fratello,

mi attendi sorridendo,

a te io verrò nel tempo giusto,

pur sapendo che non esisti

per le fantasie dei profeti

ma per i dolori dei dannati.

Che ragione

per dubitare di te, o di chiunque

altro, per non seguire le orma di Siddharta,

sapendo che questo mio corpo

è un segmento di carne e tempo?


 

I pensieri rubati

 

Un giorno scrissi una poesia

in un momento di beata ispirazione,

guardando la città estiva da una finestra.

Di tutta l’estate

che trascorsi nella città semivuota

non so proprio che dire.

A lungo godetti

del lieve sapore dei tre versi,

illuso d’esser poeta

degno d’una pubblicazione,

finché la cosmica provvidenza

mi parò in una biblioteca

innanzi agli occhi

le medesime parole che pavese

scrisse prima della mia nascita.

Ora mi piace pensare,

negato il caso della coincidenza,

che quella proposizione

che mi precedette di anni

fu la mia eterna anima

cullata da Dio a suggerirla a Pavese.

Forse siamo tutti figli

di pensieri e parole altrui,

forse le nostre anime

spandono saggezza e poesia

prima di precipitare nella carne,

forse siamo solo suggerimenti

di un dio artista ed intrattenitore.



Similitudini cosmiche

 

Guardavo un giorno una fotografia

che aveva il sapore dello sconfinato:

nello spazio esiguo

della carta patinata

l’immagine della remota nube

ed immensa

di polvere cosmica che da sempre

ha forma di testa di cavallo.

Quale sconvolgente coincidenza,

mi dissi. Fra le possibili ed infinite

variazioni e configurazioni,

vaste e labirintiche

come la memoria di Dio,

gli atomi remoti

nel corso di milioni d’anni

avevano riprodotto

un’animale che sul nostro mondo

non si era ancora evoluto.

Ed ancora più sbalorditivo

il pensiero del mondo

alla fine della sua età,

gelida e morta la sua crosta,

ma nel cielo la forma

di una vita che ospitò.

E se il destino di Ares

avesse seguito nel passato,

se nessun uomo, nessuna palpitazione

d’esistenza avesse strisciato

fra i fumi primordiali…

l’incommensurabile cavallo

sarebbe stato lassù,

memoria d’una vita probabile.

Quanti nubi,

quanti disegni casuali sulla sabbia,

quante geometrie di foglie e rami,

quanti banali segni su pietre

riproducono archetipi

di creature probabili,

o che forse esistono

chissà in quale lontano mondo,

di idiomi, costumi, architetture

che a menti aliene

risulterebbero confacenti.

Alla fine, mi piace pensare

che senza il nostro cavallo a venire

i remoti atomi avrebbero

speculato altra cosa vivente.



IV

Barbara


1

Chiamarti fiore del mio giardino

come potrei se son’io

a cercar sicuro rifugio, chino

tra le verzure della tua anima?

Tocca a me ristorarmi

col tuo polline ed il tuo miele,

tra l’erba fresca a giacere

calmo, tra le acque languide

a bagnarmi e col ricco paniere

della tua anima a saziarmi.

Mi conosco, sono ospite

cupo duro e gelido;

mi rintano spesso lontano

tra zolle umide,

solitario vago come foglia

autunnale tra i tuoi fiori.

Riuscissi a comunicare il mio amore,

non perdono ti chiederei

ma comprensione,

le lodi di Afrodite canterei,

di cui sei specchio nei miei occhi.

E’ un’assoluta verità,

non macchiata,

e voglio farti partecipe.


 

2

Oh dolce, raramente dolce

nella notte il tuo respiro,

liscia la tua pelle

nella fragile penombra,

profumate le tue labbra

e delicate ali di farfalla

i tuoi capelli.

La notte è profonda e tacita

e quanto mai lontano il mattino,

ed io ti osservo con riverenza religiosa

come l’adorante il tabernacolo;

voglio cercare nei canticchi

e nei sorrisi del tuo sonno

la bontà assoluta dei tuoi sogni.


 

3

Non ci possono essere

punizioni per te,

né vendette o pensieri cattivi.

I tuoi petali hanno profumo imperituro,

e come Cristo di tra gli ulivi

chiese a Dio suo padre chiarore

così io fra le spighe di grano maturo

chiedo a te motivo del mio amore.

Tu sei la gloria mia,

mi confesso tuo servo fallace,

e per sempre così sia.


 

4

La voce tua più non sento,

i miei pensieri non mi confortano,

ho solo mucchi di ricordi

che mi lasciano fondi amari.

Mi duole il sangue nelle vene

nel saperti lontana e cupa

come fronde autunnali.



V

Notturni


1

Non voglio essere preso

tra le tue confortevoli braccia,

quando la mia vita rotola

e si disfa come un mucchio

di foglie autunnali, Signore.

Non voglio voltarmi

su quella spiaggia dell’eterno

e scorgere le tue impronte

che sostituiscono le mie.

Mi puoi guardare e giudicare,

ammaestrare gli angeli

per il giorno del giudizio,

io arriverò per conto mio,

arrancando e sudando e bestemmiando,

gli occhi accecati dal sudore,

stanco del mio stesso cuore.

Osserva un uomo combattere

per un destino di sacrificio

che tu stesso hai approvato.


 

2

A tutte le donne che ho amato

io questi pochi minuti dedico

di questa notte invernale,

di questo anno di nuova vita,

di questa vita fuggevole.

Ripenso ai volti fatati

che mi incantarono,

volti floridi, chiari come lino,

freschi, assolati ed innocenti,

volti di fanciulle che hanno riempito

il mio cuore e la mia memoria,

volti contratti nel piacere,

volti allegri, irati e piangenti.

Vi ricordo con nostalgia,

vi raccolgo e vi riscaldo

e faccio posto nella mia anima,

nella mia coscienza e nella mia vita.

L’amore passato non lo voglio rinnegare,

anche quello fugace e corridore

per un volto visto di sfuggita

nella metropolitana e mai più rivisto.


  3

E quando Iddio ebbe finito

di plasmare il fango

si scostò e rimase a lungo

a contemplare la sua creazione.

Allora decise di infondergli

l’essenza della vita

e di donargli il lume della coscienza;

e quando l’uomo gli occhi

aprì per la prima volta,

quando il suo cuore

batté per la prima volta

e le sue mani l’erba e la terra

strinsero per la prima volta

si commosse e si ritrasse a piangere.

- Ho formato un essere

di carne corruttibile

e di peccato facile,

non un angelo imperituro

od un animale innocente:

ucciderà ed odierà il suo simile.

Ma nessuno mi amerà come lui.


 

4

Pace, pace ed ancora pace.

Queste sole parole vorrei

che dal cuore mio sgorgassero,

che dalla bocca mia fiorissero,

che gli occhi miei colmassero.

Vorrei che un’imperitura

luce della mia pelle fossero,

un vento profumato

tra i capelli

e nelle orecchie

un beato suono.

Ho visto migliaia di soli,

respirato centinaia di cieli,

calpestato infinite terre

e si è talmente empito il cuore

d’amori e di speranze

e si è talmente imbevuta la coscienza

di dolori e rinunce

e questi benedetti occhi

hanno contemplato

così vasti mondi

che non posso non avere scorto

anche solo un minimo dettaglio

dell’infinito volto di Dio.

Quante volte ho confuso

un suo sospiro

con la brezza primaverile?

e la sua voce di rimprovero

con il martello del tuono possente?

e la sua poesia sommessa

con il canto solitario d’un’usignolo?


 

5

Capisco ora, che la vita

ha accumulato anni e cose

nella mia illusoria coscienza,

quanto sia invano rincorrerti,

Dio silente e felice.

Il mio spirito solitario,

scorbutico, ombroso,

le mie incomprensioni,

i miei amori alternati,

la mia armonia spezzata

mi allontanano

giorno dopo giorno da te;

eppure tu sei

più vicino all’uomo

di quanto non lo siano

le sue vene.

Ti lascio perdere, Dio,

non sei neppure quello che cerco.

Lascio perdere tutto quanto,

le mie sciocche poesie,

le mie velleità filosofiche,

le mie chimere narrative.

Mi rimane solo

un penoso residuo,

un mucchietto di foglie autunnali:

le mie speranze arenatesi,

i giorni che avrei potuto vivere,

gli amori che ho condannato,

le parole che non ho detto,

i pensieri che non ho avuto.

Non ti chiedo perdono.

Non ti chiedo aiuto.

Non ti voglio,

non posso.



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