L’infanzia
a Tarzo
LE
FOCACCE DI PASQUA
Già
la rondine
terminato
aveva il nido
sotto
il cornicione
e
l’aria odorava di focacce:
gialle
per le uova
aspettavano
rigonfie
l’ultima
operazione
raccolte
intorno al fuoco.
La
punta della forbice
tagliava
in petali di rosa
e
la penna di coda di gallo
le
lucidava con la chiara d’uovo.
Le
donne arrossate il volto e le mani
sfornavano
e infornavano le focacce
che
indugiavano pel turno,
e
scottanti come brace
le
ponevano nei cesti foderati.
Pubblicata:
LA BOTTE E IL VIOLINO
Rivista
diretta da Leonardo Sinisgalli – Roma 1966
Era
oramai comune a Bepo Bridot
la
strada per Revine
percorsa
di notte
quando
appena poteva misurare
al
chiarore il passo.
Allora
il nascituro
premeva
per le doglie.
Gli
veniva naturale di pensare
ai
suoi molti figli,
uno
all’anno ne nasceva
e
soggiungeva
fra
sé e sé:
Pubblicata:
LA BOTTE E IL VIOLINO – Roma 1966
Jio
Hoffia aveva la forbice
che
gli ricordava
mille
e mille pecore denudate,
montagne
bianche di lana
e
un coniglio di razza
dal
quale tutti desideravano
avere
eredi.
Ma
dopo aver spiegato al cliente
il
trattamento dovuto
e
questi soddisfatto se ne partiva
con
il coniglio stretto nel sacco,
ingigantiva
l’idea
che
della gente non bisognava
fidarsi
troppo
e
correva a lui dietro gridando:
<L’è
mio il cunicio, il cunicio l’è mio!>
e
richiudeva il magnifico esemplare
a
sgranare occhi dall’alto dello stavolo.
Andava
allora per i prati suoi
e
più su sotto i castagni,
urlava
sempre del coniglio che era suo
e
glielo volevano portare via,
finché
al dolore si univa
il
silenzioso aspettare della moglie.
Pubblicata:
LA BOTTE E IL VIOLINO – Roma 1966
PIERO
Piero
era sempre puntuale
alle
cinque del mattino
l’estate
come l’inverno
quando
era fredda
anche
la maglia più pesante.
Forte
il passo negli scarponi.
La
lanterna nella mano vacillava
con
i muri delle case,
su
per la scalinata
fino
al campanile
con
la toppa già vecchia
pel
chiudere e l’aprire
con
quella chiave lunga da campanile.
La
scala a chiocciola scricchiolava
fino
all’orologio da caricare.
Suonava
la campana.
Nel
risveglio si accendevano
lumini
di vita nel buio.
Destarsi
era al lavoro
nel
campo o alla fornace.
Al
doppio della vigilia
aiutava
pure la Giustina,
una
campana suonava
l’altra
batteva anche il botto.
Si
fermava lei un poco a tabaccare
lasciando
la corda
salire
e scendere a suo piacere.
Piero
allora prendeva a sbraitare,
volavano
parole e parolacce
al
suono delle campane.
Una
volta all’anno
andavano
di casa in casa
a
riscuotere la paga in vino,
patate
e tutto quello che dona il campo,
finché
il carretto stentava nelle salite
o
correva troppo nelle discese
e
la Giustina sempre parlava,
diceva
che nessuno meglio di loro
sapeva
fare il campanaro
e
frugava nel petto
giù
per la scollatura
a
trovare la scatola del tabacco
per
tabaccare ancora.
Nel
cortile, l’albero di noci
aveva
una panca che lo circondava.
Vecchia
la panca, vecchio il noce,
vecchio
l’uomo che sedeva
a
contemplare l’ombra
che
si spostava col sole.
Non
trovo i pensieri di quella mente.
Stava
lì solo, senza la moglie,
senza
le figlie, sempre operose.
Nel
focolare nero di fuliggine
un
grillo aveva preso dimora
e
con profusione scioglieva
il
suo cri, cri
fino
a celare il timore per il padre.
Ogni
tanto
un
pianto sfrenato di ragazza stizzita
passava
sotto la sferza
o
eccedeva nello sfogo la voce mascolina
come
nell’orchestra si alternano gli strumenti.
Poi
un silenzio forzato
con
l’ultima parola del padrone
che
era lui il Barba Min.
ERNESTO
ANDREON
Ernesto
Andreon
aveva
sempre il volto sorridente,
il
collo rigonfio
per
la tiroide ingrossata.
Il
passar del tempo gli aggiunse
altri
disturbi,
diventò
anche sordo.
A
lungo aveva sentito parlare la gente
ora
immaginava il loro dire,
ad
ogni occasione indovinava le risposte.
Un
giorno stava lavorando
tranquillo
il campo
e
così rispose ad un amico:
<Eih,
compare bongiorno>.
<Sì,
son qua che are>.
<Ma
setu anca sordo?>
<Eh
sì, semene l’orzo>.
FLORIAN
Florian
era uno
dei
tanti figli di Bepo Bridot.
Timido
com’era
diceva
sempre di sì.
Assieme
a Barocce e a Marietto
teneva
curato l’orto,
il
campo in cima, la cantina.
Rinnovavano
l’acqua alla pompa
nei
secchi che portavano
nel
secchiaio appesi in fila
tra
le pareti coperte di pentole
di
rame.
Bisticciavano
tra di loro
ma
in casa zittivano
sempre
pronti
alla
voce di zio Paolo
che
alta comandava
e
di loro si sentiva solo
lo
zoccolar dietro.
Florian
non aveva morosa
e
se qualcuno gli chiedeva:
<Allora
Florian non ti sposi?>
<Eh
sì, – rispondeva – se
la cate sì eh!>
LA
SERA ABBAIA IL CANE
La
sera abbaia il cane
al
sentore di tempesta lontana.
Braccia
protende il cedro
al
palpitar di luci.
Il
chiasso risuona altrove.
Quest’angolo
è chiuso, dimentico.
Qui
il giorno muore dietro le mura.
Qui
stride lo spirito e scrolla noie
che
la notte annulla
nell’anima
silenziosa
di
quest’angolo solitario.
BAROCCE,
FLORIAN E MARIETTO
Barocce,
Florian e Marietto,
un
giorno votarono morte
al
cane bastardo:
ululava
di rabbia alla luna.
Arrotolata
una lunga corda,
si
avviarono alla Valonera
ed
il cane dietro
come
sempre faceva.
il
cielo era cupo,
presago
di tempesta.
Un
capo della corda strisciava
saltellando
a terra.
Ondeggiavano
i rami dei gelsi,
l’erbe
piegavano
ai
margini delle siepi.
Giunti
alla baita della Valonera
presero
il cane con le carezze,
gli
passarono il laccio al collo,
tesero
e tirarono la corda
da
albero ad albero.
Il
cane moriva dimenandosi
con
la lingua lunga a penzoloni.
Da
sopra la collina piovvero goccioloni
a
bagnare la lenta agonia
del
cane impiccato
tra
il verde dell’erbe rigogliose.
BAROCCE
Barocce
aveva grandi occhi azzurri
velati
di tristezza.
Pensava
e vedeva sempre
qualcosa
di più importante
di
quello che faceva.
Era
venuto da noi piccolo e orfano.
Spesso
mutava la tristezza in pianto
per
l’esser nato così solo.
Ma
con i risparmi
si
comprò la fisarmonica
ed
una nuova speranza trasparì
da
quelle note tormentate.
Si
fece bravo a suonare
la
sera nelle balere
e
piano piano prese il volo
con
tanti progetti in testa
e
la forza della solitudine
lo
aiutò ad aprirsi
una
strada nella vita.
ILARIO
Il
vino sfumava ad Ilario
nella
mente svagata
con
le serenate al grillo, al firmamento
ed
alla primavera baciata dal sole.
Diceva:
<Il grillo l’è piccenin
sempre
contento, sensa pensieri.
mi
ghe voi ben povera piccenina:
un
baso te voi dar>.
<Ma
va là – rispondeva lei –,
dallo
al Signor>.
<L’Agnese
la è una brava femmenetta,
mi
ghe voi ben ma no la spose mia>.
Faceva
a volte ceste di vimini
che
vendeva di casa in casa
e
sempre raccontava,
mentre
frugava nelle tasche
il
residuo di tabacco,
che
i padroni erano gente infame
mangiavano
la carne
e
a lui lasciavano le ossa
come
ad un cane.
Con
due soldi andava da Ferruccio
che
gli brontolava:
<Se
tutti i clienti i fosse cossì,
due
alfa e n’ombra de vin!>
per
le vie illuminate
solamente
dalla luce
riflessa
di qualche finestra
e
nella piazza trovava
balenii
di ombre vaganti
con
la sola lampada accesa
ed
il buttare a singhiozzo della fontana
che
lo rassicurava:<Non sei solo
nel
freddo gelido di sasso>.
Quasi
sempre un fienile
lo
accoglieva meglio del letto
dove
pensava e ripensava
che
sfortunato proprio lo era
da
quando quella morosa
lo
aveva lasciato.
La
Fiorina ogni momento
sciacquava
e zoccolava
alla
fontana
e
sempre brontolava
contro
lo zio Bortol
che
<L’ha lassà la terra
a
me sorela
che
no l’ha gnanca un fiol>.
E
sempre si commiserava:
<Ah!
Povera mi, mi poaretta>.
Marietto
accudiva al nonno
e
al cavallo bianco.
Dormiva
nella stanza del nonno
e
striava e nutriva il cavallo:
tutti
e due sentivano
gli
acciacchi della vecchiaia.
Ogni
giorno attaccava il cavallo
alla
carrozza l’inverno
o
al sarret l’estate.
La
meta era una passeggiata
che
fingeva la necessità:
al
mercato, alla fornace,
dai
contadini e quasi sempre
qualcuno
approfittava di un passaggio.
Spesso
era Bepo Bridot
che
lasciava parlare il nonno
e
ribatteva col variare del discorso:
<Eh
sì, paron Giovanni, avè rason,
avè
rason paron Giovanni,
o
bempo, bempo, sippo, sippo>.
se
approfittava del parlare
per
frustare il cavallo
che
trotterellando
frenava
nelle discese.
Questi
anni passarono veloce
fra
brevi malattie del cavallo,
la
salute precaria del nonno,
le
passeggiate tranquille
ed
il ricordare il tempo passato.
Finché
un giorno
pronto
era il cavallo di buon mattino
e
lassù dalla finestra
della
stanza da letto
il
nonno diede l’ultimo sguardo
al
suo compagno fedele.
Lo
spogliava Marietto piangente,
ma
d’improvviso impazientì
e
nitrì a lungo a lungo nella stalla.
Marietto
magro e pallido
ritornò
alla sua casa
nel
borgo più povero e buio,
dove
non entrava mai il sole
dalle
finestre che avevano cartone
al
posto del vetro.
‘15-‘18:
I FIGLI NON TORNANO PIU’
I
soldati sui monti
vanno
a giocare alla morte
e
piangono d’amore
nelle
notti di luna.
Scendono
il mattino
carichi
di armi e di freddo
in
fila per due con i muli;
vissuti
come cervi
cacciati
a dormire
lontano
dalla tana.
LA
NONNA ANNA
La
nonna Anna
sedeva
alla finestra dall’inferriata.
Inforcati
gli occhiali
indugiava
un poco
col
filo tra le dita
e
la cruna dell’ago
poi
cuciva ricurva
e
nel silenzio dorato di quella casa
dai
pavimenti di rosso mattone
si
sentiva un bisbigliare continuo.
L’udivano
le sedie di paglia,
quel
mazzo di dalie variopinte
che
occhieggiavano
con
i piatti fioriti
in
mostra sopra la credenza.
Nella
preghiera
soccorreva
tante pene,
tanti
figli, tutti cresciuti
ma
ad uno ad uno
se
n’erano partiti
per
non tornare più
lasciando
quella vecchietta
in
preghiera.
All’imbrunire
arrivava
a volte la Giustina,
così
si attardava a chiacchierare
e
beveva d’un fiato
una
grossa scodella di vino
e
gonfiava lo stomaco
per
riprendere a parlare
di
tutte le sue pene e a dire
che
il vino le piaceva
ma
ne beveva assai poco.
Il
nonno Domenico
seduto
dietro il giornale
rimaneva
come una statua
dietro
un paravento
poi
ad un tratto
si
sentiva un frusciare
come
di carta da buttare
e
appariva alto
con
i lunghi baffi bianchi.
La
donna che ciarlava
capiva
il momento
e
se ne andava.
TARZO,
PRIMAVERA 1968
Inquiete
nubi filtrano raggi.
Viti
annose spuntano sul prato.
Gli
ippocastani così giganti
premono
il cielo con cupole,
testimoni
di una terra prodiga.
Il
cipresso allora non radicò
per
attirare auspici di fecondità.
Terra,
nessuno più ti ridesta.
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