L’infanzia a Tarzo

Le focacce di Pasqua Bepo Bridot Jio Hoffia Piero
Il Barba Min Ernesto Andreon Florian La sera abbaia il cane
Barocce, Florian e Marietto Barocce Ilario La Fiorina
Il cavallo bianco '15-'18: I figli non tornano più La nonna Anna Tarzo, Primavera 1968

     

 LE FOCACCE DI PASQUA

 

Già la rondine

terminato aveva il nido

sotto il cornicione

e l’aria odorava di focacce:

gialle per le uova

aspettavano rigonfie

l’ultima operazione

raccolte intorno al fuoco.

La punta della forbice

tagliava in petali di rosa

e la penna di coda di gallo

le lucidava con la chiara d’uovo.

Le donne arrossate il volto e le mani

sfornavano e infornavano le focacce

che indugiavano pel turno,

e scottanti come brace

le ponevano nei cesti foderati.

 

Pubblicata: LA BOTTE E IL VIOLINO

Rivista diretta da Leonardo Sinisgalli – Roma 1966


BEPO BRIDOT

 

Era oramai comune a Bepo Bridot

la strada per Revine

percorsa di notte

quando appena poteva misurare

al chiarore il passo.

Allora il nascituro

premeva per le doglie.

Gli veniva naturale di pensare

ai suoi molti figli,

uno all’anno ne nasceva

e soggiungeva

fra sé e sé:

Un altro fiol, un altro fiol,
Santa Maria, oh ben, ben
intant la magna soppa.

 

Pubblicata: LA BOTTE E IL VIOLINO – Roma 1966


JIO HOFFIA

 

Jio Hoffia aveva la forbice

che gli ricordava

mille e mille pecore denudate,

montagne bianche di lana

e un coniglio di razza

dal quale tutti desideravano

avere eredi.

Ma dopo aver spiegato al cliente

il trattamento dovuto

e questi soddisfatto se ne partiva

con il coniglio stretto nel sacco,

ingigantiva l’idea

che della gente non bisognava

fidarsi troppo

e correva a lui dietro gridando:

<L’è mio il cunicio, il cunicio l’è mio!>

e richiudeva il magnifico esemplare

a sgranare occhi dall’alto dello stavolo.

Andava allora per i prati suoi

e più su sotto i castagni,

urlava sempre del coniglio che era suo

e glielo volevano portare via,

finché al dolore si univa

il silenzioso aspettare della moglie.

 

Pubblicata: LA BOTTE E IL VIOLINO – Roma 1966


PIERO

 

Piero era sempre puntuale

alle cinque del mattino

l’estate come l’inverno

quando era fredda

anche la maglia più pesante.

Forte il passo negli scarponi.

La lanterna nella mano vacillava

con i muri delle case,

su per la scalinata

fino al campanile

con la toppa già vecchia

pel chiudere e l’aprire

con quella chiave lunga da campanile.

La scala a chiocciola scricchiolava

fino all’orologio da caricare.

Suonava la campana.

Nel risveglio si accendevano

lumini di vita nel buio.

Destarsi era al lavoro

nel campo o alla fornace.

Al doppio della vigilia

aiutava pure la Giustina,

una campana suonava

l’altra batteva anche il botto.

Si fermava lei un poco a tabaccare

lasciando la corda

salire e scendere a suo piacere.

Piero allora prendeva a sbraitare,

volavano parole e parolacce

al suono delle campane.

Una volta all’anno

andavano di casa in casa

a riscuotere la paga in vino,

patate e tutto quello che dona il campo,

finché il carretto stentava nelle salite

o correva troppo nelle discese

e la Giustina sempre parlava,

diceva che nessuno meglio di loro

sapeva fare il campanaro

e frugava nel petto

giù per la scollatura

a trovare la scatola del tabacco

per tabaccare ancora.


IL BARBA MIN

 

Nel cortile, l’albero di noci

aveva una panca che lo circondava.

Vecchia la panca, vecchio il noce,

vecchio l’uomo che sedeva

a contemplare l’ombra

che si spostava col sole.

Non trovo i pensieri di quella mente.

Stava lì solo, senza la moglie,

senza le figlie, sempre operose.

Nel focolare nero di fuliggine

un grillo aveva preso dimora

e con profusione scioglieva

il suo cri, cri

fino a celare il timore per il padre.

Ogni tanto

un pianto sfrenato di ragazza stizzita

passava sotto la sferza

o eccedeva nello sfogo la voce mascolina

come nell’orchestra si alternano gli strumenti.

Poi un silenzio forzato

con l’ultima parola del padrone

che era lui il Barba Min.


 

ERNESTO ANDREON

 

Ernesto Andreon

aveva sempre il volto sorridente,

il collo rigonfio

per la tiroide ingrossata.

Il passar del tempo gli aggiunse

altri disturbi,

diventò anche sordo.

A lungo aveva sentito parlare la gente

ora immaginava il loro dire,

ad ogni occasione indovinava le risposte.

Un giorno stava lavorando

tranquillo il campo

e così rispose ad un amico:

<Eih, compare bongiorno>.

<Sì, son qua che are>.

<Ma setu anca sordo?>

<Eh sì, semene l’orzo>.


 

FLORIAN

 

Florian era uno

dei tanti figli di Bepo Bridot.

Timido com’era

diceva sempre di sì.

Assieme a Barocce e a Marietto

teneva curato l’orto,

il campo in cima, la cantina.

Rinnovavano l’acqua alla pompa

nei secchi che portavano

nel secchiaio appesi in fila

tra le pareti coperte di pentole

di rame.

Bisticciavano tra di loro

ma in casa zittivano

sempre pronti

alla voce di zio Paolo

che alta comandava

e di loro si sentiva solo

lo zoccolar dietro.

Florian non aveva morosa

e se qualcuno gli chiedeva:

<Allora Florian non ti sposi?>

<Eh sì, – rispondeva – se la cate sì eh!>


 

LA SERA ABBAIA IL CANE

 

La sera abbaia il cane

al sentore di tempesta lontana.

Braccia protende il cedro

al palpitar di luci.

Il chiasso risuona altrove.

Quest’angolo è chiuso, dimentico.

Qui il giorno muore dietro le mura.

Qui stride lo spirito e scrolla noie

che la notte annulla

nell’anima silenziosa

di quest’angolo solitario.


 

BAROCCE, FLORIAN E MARIETTO

 

Barocce, Florian e Marietto,

un giorno votarono morte

al cane bastardo:

ululava di rabbia alla luna.

Arrotolata una lunga corda,

si avviarono alla Valonera

ed il cane dietro

come sempre faceva.

il cielo era cupo,

presago di tempesta.

Un capo della corda strisciava

saltellando a terra.

Ondeggiavano i rami dei gelsi,

l’erbe piegavano

ai margini delle siepi.

Giunti alla baita della Valonera

presero il cane con le carezze,

gli passarono il laccio al collo,

tesero e tirarono la corda

da albero ad albero.

Il cane moriva dimenandosi

con la lingua lunga a penzoloni.

Da sopra la collina piovvero goccioloni

a bagnare la lenta agonia

del cane impiccato

tra il verde dell’erbe rigogliose.


 

BAROCCE

 

Barocce aveva grandi occhi azzurri

velati di tristezza.

Pensava e vedeva sempre

qualcosa di più importante

di quello che faceva.

Era venuto da noi piccolo e orfano.

Spesso mutava la tristezza in pianto

per l’esser nato così solo.

Ma con i risparmi

si comprò la fisarmonica

ed una nuova speranza trasparì

da quelle note tormentate.

Si fece bravo a suonare

la sera nelle balere

e piano piano prese il volo

con tanti progetti in testa

e la forza della solitudine

lo aiutò ad aprirsi

una strada nella vita.


ILARIO

 

Il vino sfumava ad Ilario

nella mente svagata

con le serenate al grillo, al firmamento

ed alla primavera baciata dal sole.

Diceva: <Il grillo l’è piccenin

sempre contento, sensa pensieri.

Povera la Graziosa, l’è morto il marito

mi ghe voi ben povera piccenina:

un baso te voi dar>.

<Ma va là – rispondeva lei –,

dallo al Signor>.

<L’Agnese la è una brava femmenetta,

mi ghe voi ben ma no la spose mia>.

Faceva a volte ceste di vimini

che vendeva di casa in casa

e sempre raccontava,

mentre frugava nelle tasche

il residuo di tabacco,

che i padroni erano gente infame

mangiavano la carne

e a lui lasciavano le ossa

come ad un cane.

Con due soldi andava da Ferruccio

che gli brontolava:

<Se tutti i clienti i fosse cossì,

due alfa e n’ombra de vin!>

Furtivo era il suo andare

per le vie illuminate

solamente dalla luce

riflessa di qualche finestra

e nella piazza trovava

balenii di ombre vaganti

con la sola lampada accesa

ed il buttare a singhiozzo della fontana

che lo rassicurava:<Non sei solo

nel freddo gelido di sasso>.

Quasi sempre un fienile

lo accoglieva meglio del letto

dove pensava e ripensava

che sfortunato proprio lo era

da quando quella morosa

lo aveva lasciato.


LA FIORINA

 

La Fiorina ogni momento

sciacquava e zoccolava

alla fontana

e sempre brontolava

contro lo zio Bortol

che <L’ha lassà la terra

a me sorela

che no l’ha gnanca un fiol>.

E sempre si commiserava:

<Ah! Povera mi, mi poaretta>.


 
IL CAVALLO BIANCO

 

Marietto accudiva al nonno

e al cavallo bianco.

Dormiva nella stanza del nonno

e striava e nutriva il cavallo:

tutti e due sentivano

gli acciacchi della vecchiaia.

Ogni giorno attaccava il cavallo

alla carrozza l’inverno

o al sarret l’estate.

La meta era una passeggiata

che fingeva la necessità:

al mercato, alla fornace,

dai contadini e quasi sempre

qualcuno approfittava di un passaggio.

Spesso era Bepo Bridot

che lasciava parlare il nonno

e ribatteva col variare del discorso:

<Eh sì, paron Giovanni, avè rason,

avè rason paron Giovanni,

o bempo, bempo, sippo, sippo>.

Guai a Marietto

se approfittava del parlare

per frustare il cavallo

che trotterellando

frenava nelle discese.

Questi anni passarono veloce

fra brevi malattie del cavallo,

la salute precaria del nonno,

le passeggiate tranquille

ed il ricordare il tempo passato.

Finché un giorno

pronto era il cavallo di buon mattino

e lassù dalla finestra

della stanza da letto

il nonno diede l’ultimo sguardo

al suo compagno fedele.

Lo spogliava Marietto piangente,

ma d’improvviso impazientì

e nitrì a lungo a lungo nella stalla.

Marietto magro e pallido

ritornò alla sua casa

nel borgo più povero e buio,

dove non entrava mai il sole

dalle finestre che avevano cartone

al posto del vetro.


 

‘15-‘18: I FIGLI NON TORNANO PIU’

 

I soldati sui monti

vanno a giocare alla morte

e piangono d’amore

nelle notti di luna.

Scendono il mattino

carichi di armi e di freddo

in fila per due con i muli;

vissuti come cervi

cacciati a dormire

lontano dalla tana.


LA NONNA ANNA

 

La nonna Anna

sedeva alla finestra dall’inferriata.

Inforcati gli occhiali

indugiava un poco

col filo tra le dita

e la cruna dell’ago

poi cuciva ricurva

e nel silenzio dorato di quella casa

dai pavimenti di rosso mattone

si sentiva un bisbigliare continuo.

L’udivano le sedie di paglia,

quel mazzo di dalie variopinte

che occhieggiavano

con i piatti fioriti

in mostra sopra la credenza.

Nella preghiera

soccorreva  tante pene,

tanti figli, tutti cresciuti

ma ad uno ad uno

se n’erano partiti

per non tornare più

lasciando quella vecchietta

in preghiera.

 

All’imbrunire

arrivava a volte la Giustina,

così si attardava a chiacchierare

e beveva d’un fiato

una grossa scodella di vino

e gonfiava lo stomaco

per riprendere a parlare

di tutte le sue pene e a dire

che il vino le piaceva

ma ne beveva assai poco.

Il nonno Domenico

seduto dietro il giornale

rimaneva come una statua

dietro un paravento

poi ad un tratto

si sentiva un frusciare

come di carta da buttare

e appariva alto

con i lunghi baffi bianchi.

La donna che ciarlava

capiva il momento

e se ne andava.


 

TARZO, PRIMAVERA 1968

 

Inquiete nubi filtrano raggi.

Viti annose spuntano sul prato.

Gli ippocastani così giganti

premono il cielo con cupole,

testimoni di una terra prodiga.

Il cipresso allora non radicò

per attirare auspici di fecondità.

Terra, nessuno più ti ridesta.


Indice