LA
FORNACE DEI TOMASI
La
fonte gorgogliava
e
il canto coniava suoni
e
carrelli d’argilla.
La
rana sonnecchiava nei canneti,
frizzanti
all’aria, uggiosi al vento.
Le
mani colmavano, accostavano vuoti.
Egli
andava oltre
tra
l’affaccendato trasmettere di forze.
Il
fochista tutelava il fuoco sotterraneo
con
poetiche immagini,
mentre
i leoni,
riposando
nel vigore di antenati vincitori,
vegliavano
la notte, sicuri,
come
nel verde intricato della foresta.
UN
VALOROSO CAVALIERE
Le
betulle intingono i rami nel sole
e
ammaliano i cipressi
di
riflessi di luce.
La
gioia è canto d’amore
di
occhi che vedono
di
pelle che respira.
L’entusiasmo
è
di un valoroso cavaliere
che
cerca il tuo volere
e
il tuo grido nel suo cuore.
Ti
prego giorno e notte
per
il mio popolo
lascivo
e stanco.
IN
RIVA AI LAGHI I FORNI
Sulle
labbra dei vecci
affioravano
poche parole
di
cose lontane.
Cavalli
bianchi
galoppavano
per le strade
al
timore della frusta
che
s’allunga.
Quella
valle era sua
fin
dove e oltre
l’occhio
spaziava.
Dalla
strada che correva nel piano
fiancheggiata
dal sambuco,
da
mura e fontane limpide
fino
alle cime delle colline
dove
fluttuavano i castagni
battuti
dal vento
e
oltre, dove la strada
scende
tortuosa
fino
alla valle dei laghi
dove
i paesi sono legati
uno
all’altro dal nastro
bianco
di strada.
In
riva ai laghi i forni
in
continuazione fumavano
come
un accampamento di pionieri.
Infornavano
e sfornavano i mattoni
fatti
a mano, che si potevano contare
per
fila moltiplicando le file.
La
mia fantasia non sa
non
può creare un personaggio
dando
un nome vero
ed
un volto falso
a
quel ritratto forte.
Aveva
cavalli bianchi
e
navi in porto,
voleva
far marciare la vita
al
suo comando.
Tutti
lo temevano
come
quello stallaro
che
all’alba lo incontrava
per
le scale lungo e pallido,
vestito
di bianco
come
un’anima in pena.
Il
Dopolavoro risuonava la sera
con
le fisarmoniche di musica da ballo.
Le
madri troneggiavano accanto alle figlie
sulle
sedie che si erano portate da casa.
Le
coppie volteggiavano
e
al finir del ballo, i cavalieri
rimanevano
con l’inchino
come
figurini all’ultima mossa.
La
gente s’accalcava sempre più,
ma
all’improvviso, prima della mezzanotte
i
suonatori facevano fagotto.
Il
nonno arrivava perché se n’andassero,
il
figlio li ringraziava a piene mani:
soddisfatti
assicuravano
che
sarebbero volentieri ritornati.
Il 19 marzo
l’aria
era in festa con le ragazze
all’indossar
il vestito nuovo.
Le
campane inondavano le case
con
il primo tepido sole
per
richiamare tutti su alla chiesetta
mentre
il coro schietto, senza musica,
via
via si gonfiava.
Gli
uomini prendevano posto
vicino
all’altare,
le
bambine sui gradini dietro le colonne
come
fiori sbocciati tra i nastri
e
le ragazze tra le panche,
infine
le donne tra i banchi
e
in piedi era gran gente
fino
a dilungarsi oltre la porta.
L’incenso
impallidiva i volti
e
la predica portava in esempio S. Giuseppe
sottomesso
e pio al volere di Dio.
A
S. Giuseppe era caro il paese intero
per
quelle opere semplici
che
portano al desco i frutti della terra.
L’Arciprete
vestito di porpora
dava
alla cerimonia la preziosità
di
una volta all’anno,
poi
se ne andava col frusciare della tonaca
oltre
le bancarelle con i bimbi
che
lo precedevano e seguivano a rincorsa
per
fargli festa,
fino
al portone grande di ferro.
Al
suo richiudere
era
un accorrere di donne.
Tutto
era pronto per la prima colazione.
Sedeva
assieme al nonno tra i figli.
Poi
andava a visitare gli ammalati
che
avevano lenzuola fresche di bucato.
Per
ultima visitava la nonna Anna
che
aveva già messo sul fuoco
le
cocome chiacchierine
e
prendeva le tazzine alte infiorate
e
nel caffè versava un poco di grappa
anche
se il prete diceva di no.
Alle
tredici, dalle sedie
intorno
il lungo tavolo
si
poteva dedurre il numero delle persone.
Dopo
che l’Arciprete
aveva
ringraziato Dio per la sua benignità,
e
per la festa propizia,
era
un continuo passare di vivande
sulle
braccia rotonde delle ragazze.
Era
l’assaggio dei vini biondi e rossi
a
porre i pregi della terra.
Nei
motori nuovi alla fornace
era
il resoconto di tutta la produzione.
Mai
che si parlasse della fontana della piazza
che
buttava a singhiozzo
cosicché
le donne si attardavano
con
i secchi pel turno
e
le mucche pure.
ERA UN BRIVIDO L’ESSER VIVI
La sera dei morti
la
campana batteva il botto
e
gli alberi si spogliavano al vento
del
rosso fogliame.
I
vecchi battevano la pipa
sul
palmo della mano
mentre
gli occhi seguivano le faville
su
per la cappa nera.
Insistente
era il tocco
da
riunire le famiglie
a
recitare il rosario
intorno
al fuoco.
Il
nulla dilagava
al
tacere della vita.
Alberi
ombreggiavano
di
forme giganti le case
strette
tra loro.
Era
un brivido l’esser vivi,
non
sentire battere
la
pioggia sulla pietra
o
gocciolare l’acqua che filtra.
Il
tempo dei morti era fugace
col
non voler pensare
che
ci aspettano
tra
quei nomi in fila
con
le date in rilievo
e
già le castagne annerite dal fuoco
si
sposavano al vino,
per
distrarre le visioni che rivivono
con
l’evaporare delle fiammelle
e
l’acre alito dei crisantemi.
La
vita è dura
come
l’argilla assetata.
Un
pianto è negli occhi
di
solitudine.
Sono
lontani
i
giorni felici
oltre
quel limite
lontani
come
in un altro mondo.
Pubblicata:
PITTURA E POESIA – Ed. Convivio Letterario Milano 1968
LA
TERRA HA NEL CORPO RADICE
La
terra ha nel corpo radice
che
lega la vita alle passioni
col
deformare della materia,
i
pensieri nel cambiare l’umore
e
la forma. Puoi sentire il fruscio
che
sente l’albero tra le fronde
al
passare dell’aria tra i capelli,
il
distendere dell’acqua nelle conche
fino
all’orlo, la terra impastata
e
arida che spacca alla superficie
come
labbra secche di febbre.
La
bellezza del cardo
in
veste di cielo, la sorpresa della serpe
al
mutare della pelle.
Di
un pugno di terra siamo fatti
come
dove nasce un fiore
che
dà profumo a terra di biancospino
o
di crepacci aridi.
Lo
staccarsi è dolore come di linfa
che
scorre dal ramo che l’uomo recide
o
urlo di pianticella che tempesta
svelle
dal suolo e maltratta.
COME
BRACE
Nelle
corolle
il
sole svela
alveoli
d’amore.
La
terra come brace
si
arrovella
al
gioco di luci
che
mi ridesta
ai
primi giorni
di
questa vita.
Riposo
nel suo grembo,
bimbo
incosciente,
conto
le dita
e
rompo il silenzio
di
suoni confusi.
Una
volta vorrei amare
come
tu ami
questo
nostro vivere.
Silenziosa
cade
una
piuma nell’aria,
le
api cercano
il
miele nel prato.
La
vita palpita
alla
luce del giorno
che
lentamente ci attira
alla
notte del suo cammino.
La
terra riavrà la polvere
dei
miei giorni.
Sarò
nel silenzio
come
il figlio
nel
pensiero della madre,
cercherò
ancora la tua luce
e
tutto di me
che
già conosci.
Il
sorgere del sole
abbraccia
la terra,
piega
mani al lavoro,
conta
i passi,
lucida
la pelle,
fruttifica
di messi la terra.
Sole
e vita ti chiedo
per
l’immensità di questi giorni
che
sento passare staccati da me
come
due cose nell’andare
e
invece sono
l’uno
all’altro immedesimati
come
il sole dove posa,
come
la fronda e l’ombra
al
vecchio muro mormorante.
Calore
e luce si liquefa all’aria,
musica
di colore e vita,
unione
di materia e forma.
I
MONTI DELL’ABISSO
Sorgono
venti gelidi
in
aureole ai monti.
Sento
gli uccelli cantare
un
canto di ieri.
I
monti rugosi alla neve
visti
da sempre.
Vorrei
sorreggermi all’abisso,
profonda
eco di secoli
e
generazioni che riaffiorano
al
cordone ombelicale
di
madre in madre
unendoci
a Gea.
DAL
PICCO DEL FALORIA
Dal
picco del Faloria
si
affaccia il sole su Cortina,
ride
sulla neve
in
manciate di brillanti.
Fino
a sera,
quando
arrossa il Cristallo
e
lentamente va spegnendosi
sui cirri e sul bianco della roccia.
I
CORVI
Un
punto nero
nell’immenso
biancore
lacera
il silenzio,
sale
e torna
nel
soffio vellutato di bianco.
Neri
come scorze d’alberi
i
corvi salgono e tornano
tra
il cadere fitto della neve.
LA
MIA TERRA S’IMBEVE
La
mia terra s’imbeve
del
chiarore di neve.
Turbinava
in fiocchi
ad
appiccicare i vetri
la
neve che si appiattiva
soffice
e compatta
sotto
gli scarponi.
Non
c’erano pini
ad
offrire larghe braccia
solo
rami spogli:
il
melo, il pero, il fico,
le
viti ricurve tra i gelsi,
erano
siepi spinose, rovi
dove
la neve poco riposa.
Nel
silenzio
tra
il felpato incedere dei gatti,
tra
l’abbaiare dei cani senza risuono
ed
il fumare confuso dei camini,
il
chiarore della neve
era
freddo dell’inverno
da
sciogliere al fuoco.
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