MORTA LA PERIFRASI
(DIVERTISSEMENT)
Odo festante un botto
che pur detonando rallegra
e nessuno uccide,
ma in fuga mette
dal mio fido amico d’amor costante
gli alati silenti fratelli
Morfeo, Fobetore e Fantaso:
spaurito e ignaro si ridesta
ed ambe le orecchie,
che drizzate avea da prima,
cader lascia seduto e sgomento
là dove i potenti di Persia
sedevano un tempo…
Insomma, un petardo scoppia
e spaventa il mio cane
che si drizza sul divano.
Però, morta la perifrasi
- balaibalan dei sacri vati insuperabili -
come farci ancor di poco o niente una poesia?
Note.
La circonlocuzione in luogo della parola specifica,
del nome proprio, dell’espressione diretta, è stata per secoli uno dei più
importanti strumenti del linguaggio poetico. Tutti i poeti, fino alla fine
dell’Ottocento e al Novecento, hanno fatto ricorso alla perifrasi ogni volta
che occorreva evitare il termine realistico, tecnico o quotidiano. Come
ricorda Francesco Sarri, ancora nell’Ottocento un maestro di retorica dava
ai suoi discepoli il consiglio di aborrire le idee basse, che rammentino cose
a noi troppo vicine… “Non dirai amore, ma il bendato arciere; non il vino
ma liquor di Bacco; non il leone, l’aquila, ma la regina de’ volanti, il
biondo imperator della foresta; non l’acqua, ma il liquido cristallo… Etc.).
Un altro esempio: prima che Guido Gozzano osasse
chiamare il caffè col suo nome, il Parini, costretto a parlarne per la prima
volta nei suoi versi, lo chiamò “la nettarea bevanda ove abbronzato / fuma
e arde il legume a te d’Aleppo / giunto e da Moca…”!
Il fatto che io abbia scritto questo divertissement
è perché gran parte delle poesie classiche, considerate patrimonio
“insuperabile” ancora oggi, stringendo, in realtà, spesso, non dicono che
poco più o lo stesso del “petardo che scoppia / e spaventa il cane / che si
drizza sul divano”, e tutta l’arte poetica si complica in circonlocuzioni
incomprensibili senza note a pie’ di pagina, senza contare la
metrica e la stilistica. Nonostante un secolo e più di sliricizzazione,
ancora oggi c’è chi aborre la parola specifica, il nome proprio,
l’espressione diretta, pensando che ciò non sia poesia creando altre
perifrasi di effetto più moderno, ma non meno ridicolo.
Morfeo, figlio favoloso di Hypnos e della Notte, è
una divinità dei sogni che assume sembianze umane. I suoi fratelli sono
Fantaso, che procura sogni di case e paesaggi, e Fobetore o Icelo, che assume
forme di animali.
Poiché il mio cane si chiama Ulisse, ho qui citato
Argo, il cane di Ulisse dal passo dall’Odissea XVII: “Com’egli vide il suo signor più presso, / e, benché
tra que’ cenci il riconobbe, / squassò la coda festeggiando, ed ambe / le
orecchie, che drizzate avea da prima, / cader lasciò…
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