INTRODUZIONE
L’argilla
della fornace, il mare della pineta, l’immensità del cielo, sono i tre
elementi fondamentali della poesia di mia madre. L’invincibile nostalgia della
terra natale è la sorgente d’ispirazione che, già negli anni ’60, la
portava a pubblicare versi dialettali su note riviste edite a Roma. Fanny Tomasi
dipinge soggetti umani tratti dalla gente del suo Pedemonte, la zona collinosa
tra la pianura della Marca Trevigiana e il dominio delle Dolomiti. Parrebbero
personaggi deformati dal grottesco, sono invece popolani veneti colti nella
cruda realtà quotidiana. In chi non voleva emigrare, l’umorismo delle
colorite espressioni in trevigiano nasconde una sottile forma di saggezza, sorta
di astrazione che consentiva di affrontare con distacco la rassegnazione di
convivere con una collina immiserita ed emarginata. Dai ricordi dell’infanzia
a Tarzo prendono vita: Bepo Bridot, che calcava la strada per i laghi di Revine
pensando ai suoi molti figli da sfamare; Jio Hoffia, perseguitato dall’idea
che qualcuno s’impadronisse del suo cunicio
di razza; Piero il campanaro, con la sua moglie chiacchierona che tabaccava
ogni momento; il padre padrone Barba Min
ed Ernesto Andreon, il burlone sordo e gozzuto. Una gioventù tormentata abita
quell’angolo chiuso, dimentico, ove
dalla solitudine sorgono le ombre di macabri sacrifici. Il timido Florian,
Marietto e Barocce, si trasformano in aguzzini e nel verde della baita impiccano
un cane, reo di abbaiare ostinato alla luna. L’orfano Barocce, dai grandi
occhi azzurri, imparerà poi a suonare la fisarmonica per le balere e anche lui
riuscirà ad aprirsi una strada nella vita. C’è infine Fiorina, l’amica di
gioventù, che passa le giornate a compatirsi mentre sciacqua alla fontana: <Ah!
Povera mi, mi poaretta>.
La fornace di Conegliano fu il frutto di quella pionieristica imprenditoria locale che permise a tante braccia compaesane di evitare la dolorosa via dell’emigrazione. Fu tradizione dei Tomasi risalente all’avo che dalla cima della collina osservava a perdita d’occhio i possedimenti e, come un signorotto medievale, amava percorrerli frustando i suoi cavalli bianchi. Due leoni di terracotta vegliavano dalle colonne il cancello della fornace, riposando nel vigore di antenati vincitori come nel verde intrico della foresta. Quale legame più forte può esistere con la propria terra di chi letteralmente “vive di essa”, dell’argilla che il fuoco sotterraneo, nume tutelare, trasforma col calore dei forni in rossi mattoni? C’era tutto un popolo che brulicava intorno ai riti della cottura: dapprima, nell’affaccendato trasmettere di forze, mani che colmavano e accostavano carrelli; poi, con le danze caserecce del Dopolavoro o nella festa del patrono, che diventava occasione ufficiale per discutere i problemi della fornace. Ma Fanny Tomasi va oltre, fa dell’argilla assetata l’archetipo che ha in sé la durezza della vita, la radice della corporeità, il pugno di terra che riavrà la polvere dei nostri giorni… brace, terra impastata e arida che si fessura come labbra secche di febbre. Abbracciata infine dal sole e fruttifica di messi, la terra ecco partecipa gioiosa a sancire nella musica e nel colore della vita l’unione inscindibile di materia e forma. Così la poetessa riesce a sorreggersi sull’abisso, a ripercorrere le generazioni nell’eco dei secoli fino a unirsi alla terra madre che giganteggia solenne nel cristallo dei suoi monti.
Sforziamoci
di immaginare l’arrivo di Fanny a Lignano, decisa a costruire per prima un
albergo in mezzo ad un mare di pini. Cerchiamo di evocare il silenzio delle sue
notti nell’incanto della pineta. Abbandoniamo per un attimo quella sensazione
convulsa e caotica, rumori della strada e movimento di turisti, che normalmente
associamo ad una località balneare oggi rinomata. Pensiamo alla pace di un
albergo circondato da una natura mediterranea incontaminata, alla macchia di
ginepri e more selvatiche ove dormono tranquille le testuggini e le vipere vanno
a nascondersi nelle tane. Là fra gli alberi, i lampioncini volanti delle
lucciole si accendono e spengono in festa, vagando come le stelle nel mare dello
spazio. Avvolta in questi profondi silenzi, Fanny è attenta a cogliere il
fruscio dei pioppi, il rumore dei passi nel buio; finché il vento scatena il
ritmo delle imposte socchiuse, i pini si trasformano in violini e lo sciacquio
dell’acqua accompagna una sinfonia notturna. Il mattino dopo, gocce lucenti
stillano dagli aghi dei rami e le cortecce trasudano vapori. In spiaggia i
bambini rincorrono l’aquilone tra le dune fiorite ed il sole fugge
nell’acqua disegnando arabeschi e scintillii di meduse sospese. Così, al
richiamo di Zimmer frei, i turisti
tedeschi iniziarono ben presto ad approdare nel giardino dell’Hotel Eurovil,
l’isola verde dove frau Faféro li
accoglieva con calore e gentilezza. E alcuni di loro tornarono anche per dieci
anni nella stessa camera, stesso balcone che dava sul cespuglio di dalie, stessa
sabbia fina e dorata che tante spiagge d’Europa ci invidiano.
La
pineta è la dimora della tortora. Tra la pigna che cade secca e la rosa dai
petali sanguigni, la tortora prega, canta, lamenta. Ha un collarino nero che
spicca sul piumaggio grigio ed è originaria dell’Oriente. Uccello mite,
monogamo, sempre dedito alla cura dei piccoli, che la becchettano sul collo per
ricevere il latte del gozzo. Sverna,
ma a primavera torna su queste punte tenere a costruire il nido. Nelle sue
abitudini migratorie ed in quell’insistente tubare, Fanny si riconosce fino
all’immedesimazione. I critici dicevano di mia madre che aveva uno stile
conciso, trasparente acuto, che rivelava un’anima preparata, equilibrata,
aperta ai misteri eletti della Poesia. La nobiltà dei suoi versi è in vero
filosofia della Natura, ma la filosofia più alta, la nòesis che è coglimento immediato, diretto e puro, attraverso
l’identificazione. Usando la sua frusta al miele, lei ci desta alla
consapevolezza del legame inscindibile tra la luce e l’essenza del cielo. Così
è nella luminosità che inonda le chiome di betulle piegate dal vento, così
nelle novelle di luce narrate dall’azzurro dopo la pioggia, nel candore di
cavalli bianchi che galoppano al chiarore dell’alba. Anelando la libertà da
ogni vincolo, ella si scioglie nel sapore di un inno:
“Vorrei
essere
d’aria
luminosa
per
avvolgere
il
mondo intero
in
un abbraccio d’amore.”
Pierangelo Favero
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