La forza di Paola

 

Alcuni anni fa incontrai  sotto al Pavaglione una vecchia compagna  di facolta'. Da lei venni per caso a sapere che la mia ex-, 41enne medico radiologo,  stava molto male. Eravamo stati insieme due anni, prima che io incontrassi mia moglie, e l' avevo persa di vista da  lungo tempo.

Era ricoverata e non le restava tanto, forse appena qualche mese, forse meno. I suoi genitori avevano fatto l' inferno per spingerci  all'altare ma io non avevo reagito come sperato. Cosi' lei aveva rotto. Pur volendole bene, evidentemente non ero  ancora pronto. Si dice cosi', no?

In seguito  Paola aveva avuto una storia con un uomo sposato. Storia di tensioni e di incomprensioni. Le solite cose, insomma. Pensai  per tutto il pomeriggio  e la notte. La mattina dopo telefonai alla clinica. Ci  lavorava  un amico ortopedico. Dovetti insistere ma infine mi parlo' di  sarcoma osteogenico, una delle piu'  insidiose forme neoplastiche del grande universo dei tumori. Percentuale altissima di osteoblasti, le cellule tumorali, e via cosi'. Era iniziato con un gonfiore al ginocchio e ora, dopo un inutile tentativo di amputazione,  le metastasi erano presenti ovunque, anche nella cavita' toracica.  Un macello, aveva commentato.

Neppure  la chemio  era servita un granche' e il  cobalto  era riuscito solo a spazzar via i capelli,  rallentando un processo che  subito era ripreso con  rinnovato vigore.

Alle 14 ero  fuori dalla  camera, con il cuore che galoppava, le vertigini in testa e  un gran gelo  per cio' che avrei trovato oltre quella porta  di laminato grigio.

Sua madre  era accanto al letto. Riconoscendomi si irrigidi'.  Strinse le labbra a un  tratto di matita  mentre la testa si abbassava nel muto saluto di  uno sguardo fisso.

Paola era  pallida e  smagrita, come prosciugata dall' interno e le ossa tiravano la pelle. Pareva che lo scheletro, stanco di rimaner nascosto,  si prendesse ora la rivincita.

Stava rivolta alla finestra, aperta sui platani  del parco. Quando si giro', lo sguardo fu come una martellata in fronte.  Il solito dolce sguardo, intelligente e vivo, incorniciato  dal bel foulard che le copriva la testa. Nulla era cambiato in quegli occhi...oppure sapevano mentire  quanto non e' umanamente possibile mentire?

Strinse  la mano della madre, le fece un  impercettibile segno e  fummo soli.

Fu lei a parlare, prendendo fiato a ogni parola.

Fu lei a  sostenermi... lei a rincuorarmi...

Rimasi  li' ore, non so quante. Le diedi da mangiare attraverso labbra sottili e secche come cartone.

Tornai  ogni giorno, facendo finta di ignorare i  tubi che sempre piu' la collegavano agli apparecchi e  a sacchettini trasparenti.

Sapeva scherzare anche su quello, anche su quello. Li chiamava i  suoi compagni di viaggio, i  suoi amici. Amici si'...perche' erano sempre con lei (!), giorno e notte  e le impedivano  di soffrire. Dunque amici.

Parlammo per un tempo infinito e tanto fece che mi trasmise la sua serenita', la sua indicibile forza.

Il tempo si  dilato' per noi, aprendoci le porte di una dimensione ignota. Un mondo solo nostro nel quale potevamo dettare le condizioni. Un mondo  dal quale  dolore e sofferenza erano banditi, come pure  lamentele e autocompatimento. Regole ferree che ci eravamo imposti, le sole regole possibili.

Ad ore fisse eravamo interrotti dalle infermiere per le operazioni  di controllo, cambio delle flebo, dei cateteri, ecc, ecc. Lei accettava tutto con  calma olimpica,  non mostrando tentennamento alcuno.

Sorrideva.

La sera tornavo a casa dai miei. Mia moglie sapeva. E' una donna intelligente.  Capiva e non faceva mai domande.

La cosa ando' avanti per   circa un mese. Un mese in cui sembro' che le sue condizioni   rimanessero stazionarie. Anzi, parve  perfino  riprendere forza.

Il tracollo venne improvviso.

Mancai  dal lunedi' al mercoldi', per un viaggio di lavoro.

Quando la rividi' se ne stava  gia'andando.

Semi-inerte per cio' che le  riversavano in vena nel tentativo di  arginare il dolore, mi riconobbe  appena.

Non andai al funerale. Non m' interessava, no davvero.

Non sono mai stato  alla sua tomba ne' mai lo faro', credo.

Lei la vedo e la sento.

E' nei miei sogni e tanto mi basta.  Non  m' interessa vedere dove stanno le sue ossa.

Mi importa che se ne sia andata da qui senza rabbia, senza  paura. So che e' stato cosi', perche' la calma  che vedevo in lei non era dignita' ostentata.

Quando succede (vedete, non dico se ma quando) di trovarsi accanto a una persona  che sta morendo e a questa persona  volete bene, pensate che in quei momenti  il  maggior tormento  per chi parte puo' essere la scardinante consapevolezza del dolore  che si lascia dietro.

Passata la soglia, ogni  angoscia, ogni strazio  cessa ma continua per chi resta.

Alberto Angelici

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